Non è così.
Lo sviluppo dell'accumulazione basata in prevalenza sulle attività finanziarie nasce dalla drastica riduzione dei profitti estraibili dalla produzione manifatturiera.
Trovo abbastanza grave che a 13 anni dal crack di Lehman circolino ancora analisi che tentano di scindere la dimensione finanziaria dal resto della storia del capitalismo, come si trattasse di qualcosa di "altro".
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Siamo di fronte ad una crisi catastrofica del capitalismo finanziario che attualmente viene oscurata con la pandemia del covid. Senza voler dire che il covid-19, o quale altro numero abbia, non esista e che non sia in alcuni casi pernicioso, in realtà la grancassa della sistema comunicativo ha fatto sì che questa pandemia abbia coperto come un fumogeno la situazione di crisi generale verso cui si muove il sistema capitalistico basato sulla finanziarizzazione del profitto.
La finanziarizzazine del profitto, ovvero la ricerca del profitto speculativo tramite operazioni finanziarie, non è altro che il tentativo del capitale di sottrarsi allo scontro di classe nei luoghi della produzione materiale.
Questo è quello che è avvenuto nel lontano 1973, ed è ben rappresentato dal grido di Gianni Agnelli, il più importante industriale italiano e personaggio di grande rilevo internazionale: “Profitto zero!”, cui segui lo spostamento del suo interesse alle speculazioni di Borsa.
Ma cosa stava all’origine del grande sommovimento sociale che sconvolse così radicalmente i rapporti tra capitale e lavoro in tutti i paesi capitalistici, dagli Stati Uniti all’Italia?
Fu lo stesso grande sviluppo della capacità produttiva che riversava quantità di merci crescenti e che portava alla società dei consumi di massa. Tutti dovevano e dunque potevano consumare.
Le lotte salariali erano nello stesso tempo rivendicazione di poter partecipare alla distribuzione di questa enorme massa di beni e affermazione del diritto ad una riduzione del carico di lavoro reso possibile dalla accresciuta produttività.
Il fatto che queste lotte fossero di massa e in tutti i paesi capitalistici indicava la necessità di un salto epocale, che riguardava l’insieme della società, dai diritti delle donne e delle minoranze al superamento dei regimi coercitivi, manicomiali, carcerari scolastici e persino familiari. I consumi corrodevano la vecchia società.
Invece di affrontare i temi posti dal suo stesso sviluppo il capitalismo cercò di portare indietro l’orologio della Storia, con una guerra di classe non solo contro il salario, ma contro le stesse condizioni di vita delle popolazioni, fino alla creazione di grandi sacche di povertà e di disoccupazione.
L’attacco al salario si manifestò sin dall’inizio con iniziative di scomposizione delle concentrazioni operaie. Deregulation, smembramento e frantumazione delle grandi fabbriche, subfornitura, sviluppo informatico, attacco ai sindacati e alla spesa pubblica di integrazione salariale, aggiornamento del sistema fiscale, inasprimento penale, critica al consumismo ed “austerità”, politica dei sacrifici.
Ma non era sufficiente, per l’annichilimento del potere operaio nelle fabbriche era necessario chiuderle o ridimensionarle spostando la manifattura all’estero.
Ed è quello che fecero inizialmente negli USA, poi nell’Unione Europea (delocalizzzione).
Già nel 1971, chiusa la guerra nel Vietnam, Nixon aveva riaperto le relazioni con la Cina e nel 1972 vi si era recato in visita di Stato. Iniziarono così le trattative per portare la manifattura Usa in Cina.
Nel gennaio 1979 vennero riallacciate ufficialmente le relazioni diplomatiche e nel 1980 Den Xiao Ping inaugurò la prima Zona Economica Speciale a Shenzen. Sempre nel 1979 negli Stati Uniti venne smantellato il controllo dei cambi per favorire la libertà di movimento dei capitali.
Lo spostamento della produzione in Cina produsse negli Usa disoccupazione e miseria in vaste zone, soprattutto nel Nord Est, che posero le autorità americane nella necessità di sostenere i consumi anche in mancanza o insufficienza di reddito.
Le banche furono spinte a concedere crediti con più larghezza e senza troppo curarsi della solvibilità del debitore, pressate e assistite dal governo federale e dai fondi di garanzia da esso predisposti.
La lotta contro il potere operaio implicava inoltre la rottura della coesione sociale che le lotte avevano prodotto e a questo fine venne impiegato ogni mezzo, lecito, illegale e persino terroristico.
Il principale obiettivo era la demarcazione dei redditi, favorendo da un lato l’arricchimento dei ceti medi e l'immiserimento, dall’altro, dei lavoratori sempre più working poor. La politica della disuguaglianza e della produzione di poveri.
Avviata da Alan Greenspan, la stampa illimitata di dollari che finivano soprattutto in Borsa, alzando in continuazione il valore dei titoli, produceva profitti valutari che arrivavano alla vasta massa di ceti medi. Con questi dollari, cui non corrispondeva una produzione di merci, si sostenevano i consumi con importazioni crescenti.
Peraltro, ai bilanci familiari delle classi medie affluivano dollari anche con la crescita di valore delle abitazioni, che poteva essere monetizzato con un ulteriore ipoteca.
L’edilizia era uno dei pochi settori produttivi non esportabili in Cina e al suo sostegno intervenne il governo federale con proprie garanzie, che consentivano alle banche di concedere mutui (subprime) anche a chi non poteva dimostrare di essere in grado di pagarne le rate.
In questo contesto la possibilità di prestito era praticamente incondizionata e le banche commerciali, liberate dai vincoli che dal 1933 aveva impedito loro di operare nel ricco mercato degli affari, si gettarono animosamente nel vortice della speculazione.
In Borsa il leverage consentì l’acquisto di titoli con capitali presi a prestito, facendo salire i valori da cui tutti cercarono di trarre il massimo profitto. L’euforia era tale che imperversavano i “titoli spazzatura” con cui degli abili speculatori si impadronivano delle aziende produttive facendone spezzatino e licenziandone i lavoratori.
La finanziarizzazione del capitalismo, ovvero il tentativo di produrre profitti dalla speculazione finanziaria, pose al centro degli affari la speculazione, e l’abbondanza di dollari della Fed portò alla nascita di grandi ricchezze personali. Non c’era limite all’arricchimento nel mondo di Wall Street e dintorni.
Lo scatenamento delle forze “belluine” del capitale non ha prodotto “sviluppo”, ma solo una enorme accumulazione del debito finanziario; mentre la Cina, divenuta la fabbrica del mondo, da paese sottosviluppato, in quarantanni, è oggi una potenza economica mondiale che insidia il primato statunitense.
Il tentativo di nascondere le cause delle crisi di vario genere ed entità generate dal capitalismo finanziario ha spinto gli economisti a trovare spiegazioni negli errori, nella avidità, nell’assenza o nei difetti dei regolamenti e nella corruzione dei regolatori.
Elisabetta II, nel 2008, chiese come mai gli economisti non avevano previsto la crisi. La risposta stava nel non detto, e non dicibile, della guerra di classe e nel sogno di sostituire il capitalismo fondato sulla legge del valore con un capitalismo finanziario fondato sul valore dei titoli.
Il capitalismo, con la guerra al salario, faceva però guerra a se stesso e non poteva che perderla. Adesso negli Stati Uniti si tenta di riportare indietro le manifatture esportate dal 1980 in Asia; ha tentato Obama, con scarso successo, e ha tentato Trump con i dazi e i trattati bilaterali. Ma con altrettanto scarso successo perché il divario salariale, seppur decrescente, non lo consente.
Come scriveva Marx, il nemico del capitalismo è il capitalismo stesso.
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