L’ultima gigantesca fake news anti-russa, pubblicata nel fine settimana dal New York Times,
continua a rimbalzare sui media americani e a dominare il dibattito
politico di Washington nonostante l’assurdità delle accuse rivolte al
Cremlino e la totale assenza di prove del comportamento attribuito a
Mosca. L’intelligence militare russa, com’è ormai noto, avrebbe offerto
incentivi in denaro ai Talebani per spingerli a uccidere militari che
fanno parte del contingente americano di occupazione dell’Afghanistan.
I tre autori del pezzo, uscito venerdì scorso sulla versione on-line
del quotidiano newyorchese e il giorno successivo su quella cartacea,
si sono basati come sempre per la loro “esclusiva” sulle imbeccate di
anonimi “funzionari” governativi e dei servizi segreti USA, le cui
confidenze vengono puntualmente spacciate come fatti incontrovertibili
da quello che dovrebbe essere il più autorevole giornale americano.
La notizia aveva il preciso scopo immediato di scatenare un polverone
di polemiche contro il presidente Trump e ravvivare, come accade a
intervalli regolari, la campagna di demonizzazione contro la Russia di
Putin. Sulla questione della “taglia” messa dai russi sulla testa dei
soldati americani si sono così scatenati nel fine settimana tutti i network d’oltreoceano, nessuno dei quali ha sollevato anche un solo dubbio sulla veridicità del rapporto del Times.
Seguendo un copione ben collaudato, lunedì la palla è passata alla
politica. I leader democratici al Congresso hanno per primi ripreso le
accuse contro la Casa Bianca e il suo inquilino, bollato come un
burattino di Putin, per poi chiedere chiarezza sia al presidente sia ai
servizi segreti USA, soprattutto sul possibile fatto che Trump fosse
stato informato per iscritto già nel mese di febbraio circa il pericolo
che incombeva sui militari americani a causa delle manovre di Mosca.
La messinscena è stata corredata dal solito coro di insulti e accuse
nei confronti di Putin, a cui si è presto unita buona parte dei membri
repubblicani del Congresso. Tra i più coloriti nell’esprimere la propria
indignazione per un’operazione che con ogni probabilità non è mai
avvenuta è stato il senatore repubblicano dell’Oklahoma, James Inhofe,
il quale ha ricordato come sia risaputo “da tempo che Putin è un
criminale e un assassino”.
Ancora, briefing tra il Congresso e la Casa Bianca sono
stati convocati con urgenza. Lunedì è stato ragguagliato sullo scandalo
del momento un gruppo di parlamentari repubblicani, mentre martedì è
toccato ai democratici. Trump e la sua portavoce, Kaleigh McEnany, hanno
dato invece una spiegazione perfettamente coerente con la natura
inconsistente della vicenda, cioè che il presidente non era stato messo
al corrente dei presunti fatti denunciati dal Times perché l’informazione riguardante le ricompense offerte dai russi ai Talebani non risultava credibile.
Un’analisi fattuale di questa “rivelazione” sarebbe di poca utilità,
visto che essa non contiene nessun fatto concreto né alcuna prova di
quanto viene sostenuto. L’articolo iniziale e i successivi di contorno
sono pura propaganda, diffusa da quelli che assomigliano più a
stenografi della CIA che non a giornalisti. L’operazione del Times
non è nuova ma si inserisce in uno schema che viene continuamente
alimentato sulle ceneri del defunto “Russiagate” con obiettivi ben
precisi. Questi ultimi sono riconducibili allo sforzo del “deep state”
americano per creare un clima di isteria collettiva volto a dipingere il
governo di Putin come un nemico mortale degli Stati Uniti e, in ultima
analisi, a preparare la popolazione a una futura guerra contro la
seconda potenza nucleare del pianeta.
Nell’immediato, questi ambienti ferocemente anti-russi puntano a
tenere alta la pressione sulla Casa Bianca per scoraggiare anche il
minimo segnale di distensione tra Washington e Mosca. La prima
conseguenza di ciò sarà probabilmente l’affondamento del piano di Trump
di invitare nuovamente la Russia di Putin al prossimo G7, in modo anche
da frustrare qualsiasi ipotesi di riavvicinamento strategico tra
l’Occidente e Mosca nel quadro internazionale che prenderà forma dopo
l’emergenza Coronavirus.
Con l’operazione orchestrata assieme al New York Times,
gli oppositori dell’amministrazione Trump all’interno dell’apparato di
potere americano hanno anche come obiettivo il boicottaggio del
complicato processo di pace in corso in Afghanistan. L’accordo siglato
tra la Casa Bianca e i Talebani a inizio anno prevede la graduale uscita
di scena del contingente di occupazione USA dal paese centro-asiatico,
vincolata al lancio e al successo di negoziati di pace tra i Talebani e
il governo-fantoccio di Kabul.
In molti a Washington vedono però con preoccupazione un ritiro
dall’Afghanistan, paese considerato cruciale nel “grande gioco”
dell’integrazione euro-asiatica e alla luce della competizione
strategica con Russia e Cina. Come minimo, poi, queste manovre mirano a
estromettere il Cremlino dagli sforzi diplomatici in atto in
Afghanistan, seminando nel governo di Kabul il dubbio
dell’inaffidabilità del governo di Mosca come facilitatore della
trattativa con i Talebani.
Per quanto riguarda ancora il merito delle accuse sollevate dall’articolo del Times,
una riflessione superficiale sulle vicende afgane e sugli obiettivi
russi basterebbe a svelare l’esclusiva per quello che realmente è, vale a
dire un’operazione di propaganda. Prima ancora di ciò, lo stesso
giornale di New York, così come il Washington Post, il Wall Street Journal
e altri media che hanno tempestivamente “confermato” le rivelazioni
iniziali, sono stati anch’essi costretti ad ammettere che non esistono
prove dei pagamenti russi ai Talebani per colpire i militari americani
in Afghanistan.
Inoltre, dagli stessi articoli dei giorni scorsi emerge come
all’interno della comunità dell’intelligence USA ci fossero voci
discordanti che giudicavano inattendibile il presunto rapporto sul piano
russo. Soprattutto, le fonti principali delle accuse contro il Cremlino
sarebbero militanti e criminali detenuti in Afghanistan, più o meno
legati ai Talebani. Dell’affidabilità di confessioni ottenute in questo
modo è quasi inutile discutere e anche l’Agenzia per la Sicurezza
Nazionale americana (NSA), secondo quanto riportato dal Washington Post,
si sarebbe mostrata estremamente scettica circa le informazioni
ricavate da simili interrogatori. Tutte le ricostruzioni apparse sulla
stampa “mainstream”, in ogni caso, sono infarcite di precisazioni
(“vaghe informazioni di intelligence”, “prove non del tutto confermate”)
che, a ben vedere, finiscono per smontare la tesi centrale costruita
contro il Cremlino.
Il Pentagono, inoltre, tramite un portavoce ha emesso un comunicato
lunedì per smentire l’esistenza di prove che confermino “le recenti
accuse sollevate dalla stampa”, riferendosi in particolare a una notizia
diffusa dalla Associated Press. L’agenzia di stampa americana
aveva scritto che l’intelligence USA stava indagando la morte di tre
militari in un attentato dell’aprile 2019 vicino alla base aerea di
Bagram come un possibile episodio da collegare ai pagamenti fatti dai
servizi segreti militari russi (GRU) ai Talebani.
Anche in questo caso non vengono fornite prove o indizi che
giustifichino i sospetti. È probabile piuttosto che fonti governative
USA abbiano passato l’informazione alla Associated Press per rimediare a uno dei tanti punti deboli della notizia originariamente pubblicata dal New York Times,
cioè che Mosca poteva forse avere la responsabilità indiretta della
morte di un solo militare americano in Afghanistan. Nessun commentatore o
giornale ufficiale ha poi fatto notare come sia assurdo che i russi
abbiano potuto pensare che esistesse la necessità di incoraggiare i
Talebani ad attaccare e uccidere membri delle forze di occupazione,
quando da quasi vent’anni stanno già combattendo una guerra sanguinosa
che ha fatto più di 2.300 vittime tra i militari americani.
Non c’è dubbio, d’altro canto, che Mosca segua con estrema attenzione
le vicende afgane, com’è ovvio che sia per ragioni geografiche e
strategiche. Anzi, l’approccio della Russia ai Talebani si è evoluto nel
tempo fino a considerare gli “studenti del Corano” come una forza con
cui confrontarsi nel futuro assetto dell’Afghanistan. I Talebani
controllano peraltro già oggi più della metà del territorio del paese
asiatico. L’attitudine russa è perciò del tutto comprensibile e
legittima, ma questa realtà, rafforzata dai numerosi colloqui tenuti tra
i rappresentanti talebani e del Cremlino, viene sfruttata dalla stampa
americana per dimostrare l’esistenza di legami criminali che hanno
l’obiettivo di colpire le forze armate USA.
Va ricordato, infine, che se anche la notizia riportata dal New York Times
fosse vera, le accuse rivolte contro Mosca si riferirebbero a
operazioni dalla rilevanza trascurabile se paragonate ai danni causati
alla Russia dagli Stati Uniti. Per restare al solo Afghanistan, la
guerra fomentata da Washington negli anni Ottanta contro l’occupazione
sovietica, tramite la creazione, il finanziamento e la fornitura di armi
ai guerriglieri mujaheddin, provocò, secondo alcune stime,
circa 15 mila vittime tra i soldati russi. In molti altri teatri di
guerra, poi, il denaro, le armi e le manovre dei militari e dei servizi
segreti americani hanno provocato un numero imprecisato di vittime
russe, come ad esempio in Cecenia o in Siria.
Nel complesso, l’intera vicenda dimostra ancora una volta
l’intenzione di una parte della classe dirigente americana di voler fare
della Russia il nemico numero uno di Washington, tramite la menzogna e
la costante falsificazione della realtà. Il livello di disperazione e di
ottusità che questa ossessione dimostra è stato riassunto perfettamente
da un comunicato del ministero degli Esteri russo nel fine settimana:
“Questo piano banale illustra chiaramente le scarse abilità
intellettuali dei propagandisti dell’intelligence americana, i quali,
non essendo in grado di ideare qualcosa di plausibile, sono costretti a
inventarsi un’assurdità” come quella pubblicata venerdì scorso dal New York Times.
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