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05/07/2020

Putin-Talebani, le fake news del NYT

L’ultima gigantesca fake news anti-russa, pubblicata nel fine settimana dal New York Times, continua a rimbalzare sui media americani e a dominare il dibattito politico di Washington nonostante l’assurdità delle accuse rivolte al Cremlino e la totale assenza di prove del comportamento attribuito a Mosca. L’intelligence militare russa, com’è ormai noto, avrebbe offerto incentivi in denaro ai Talebani per spingerli a uccidere militari che fanno parte del contingente americano di occupazione dell’Afghanistan.

I tre autori del pezzo, uscito venerdì scorso sulla versione on-line del quotidiano newyorchese e il giorno successivo su quella cartacea, si sono basati come sempre per la loro “esclusiva” sulle imbeccate di anonimi “funzionari” governativi e dei servizi segreti USA, le cui confidenze vengono puntualmente spacciate come fatti incontrovertibili da quello che dovrebbe essere il più autorevole giornale americano.

La notizia aveva il preciso scopo immediato di scatenare un polverone di polemiche contro il presidente Trump e ravvivare, come accade a intervalli regolari, la campagna di demonizzazione contro la Russia di Putin. Sulla questione della “taglia” messa dai russi sulla testa dei soldati americani si sono così scatenati nel fine settimana tutti i network d’oltreoceano, nessuno dei quali ha sollevato anche un solo dubbio sulla veridicità del rapporto del Times.

Seguendo un copione ben collaudato, lunedì la palla è passata alla politica. I leader democratici al Congresso hanno per primi ripreso le accuse contro la Casa Bianca e il suo inquilino, bollato come un burattino di Putin, per poi chiedere chiarezza sia al presidente sia ai servizi segreti USA, soprattutto sul possibile fatto che Trump fosse stato informato per iscritto già nel mese di febbraio circa il pericolo che incombeva sui militari americani a causa delle manovre di Mosca.

La messinscena è stata corredata dal solito coro di insulti e accuse nei confronti di Putin, a cui si è presto unita buona parte dei membri repubblicani del Congresso. Tra i più coloriti nell’esprimere la propria indignazione per un’operazione che con ogni probabilità non è mai avvenuta è stato il senatore repubblicano dell’Oklahoma, James Inhofe, il quale ha ricordato come sia risaputo “da tempo che Putin è un criminale e un assassino”.

Ancora, briefing tra il Congresso e la Casa Bianca sono stati convocati con urgenza. Lunedì è stato ragguagliato sullo scandalo del momento un gruppo di parlamentari repubblicani, mentre martedì è toccato ai democratici. Trump e la sua portavoce, Kaleigh McEnany, hanno dato invece una spiegazione perfettamente coerente con la natura inconsistente della vicenda, cioè che il presidente non era stato messo al corrente dei presunti fatti denunciati dal Times perché l’informazione riguardante le ricompense offerte dai russi ai Talebani non risultava credibile.

Un’analisi fattuale di questa “rivelazione” sarebbe di poca utilità, visto che essa non contiene nessun fatto concreto né alcuna prova di quanto viene sostenuto. L’articolo iniziale e i successivi di contorno sono pura propaganda, diffusa da quelli che assomigliano più a stenografi della CIA che non a giornalisti. L’operazione del Times non è nuova ma si inserisce in uno schema che viene continuamente alimentato sulle ceneri del defunto “Russiagate” con obiettivi ben precisi. Questi ultimi sono riconducibili allo sforzo del “deep state” americano per creare un clima di isteria collettiva volto a dipingere il governo di Putin come un nemico mortale degli Stati Uniti e, in ultima analisi, a preparare la popolazione a una futura guerra contro la seconda potenza nucleare del pianeta.

Nell’immediato, questi ambienti ferocemente anti-russi puntano a tenere alta la pressione sulla Casa Bianca per scoraggiare anche il minimo segnale di distensione tra Washington e Mosca. La prima conseguenza di ciò sarà probabilmente l’affondamento del piano di Trump di invitare nuovamente la Russia di Putin al prossimo G7, in modo anche da frustrare qualsiasi ipotesi di riavvicinamento strategico tra l’Occidente e Mosca nel quadro internazionale che prenderà forma dopo l’emergenza Coronavirus.

Con l’operazione orchestrata assieme al New York Times, gli oppositori dell’amministrazione Trump all’interno dell’apparato di potere americano hanno anche come obiettivo il boicottaggio del complicato processo di pace in corso in Afghanistan. L’accordo siglato tra la Casa Bianca e i Talebani a inizio anno prevede la graduale uscita di scena del contingente di occupazione USA dal paese centro-asiatico, vincolata al lancio e al successo di negoziati di pace tra i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul.

In molti a Washington vedono però con preoccupazione un ritiro dall’Afghanistan, paese considerato cruciale nel “grande gioco” dell’integrazione euro-asiatica e alla luce della competizione strategica con Russia e Cina. Come minimo, poi, queste manovre mirano a estromettere il Cremlino dagli sforzi diplomatici in atto in Afghanistan, seminando nel governo di Kabul il dubbio dell’inaffidabilità del governo di Mosca come facilitatore della trattativa con i Talebani.

Per quanto riguarda ancora il merito delle accuse sollevate dall’articolo del Times, una riflessione superficiale sulle vicende afgane e sugli obiettivi russi basterebbe a svelare l’esclusiva per quello che realmente è, vale a dire un’operazione di propaganda. Prima ancora di ciò, lo stesso giornale di New York, così come il Washington Post, il Wall Street Journal e altri media che hanno tempestivamente “confermato” le rivelazioni iniziali, sono stati anch’essi costretti ad ammettere che non esistono prove dei pagamenti russi ai Talebani per colpire i militari americani in Afghanistan.

Inoltre, dagli stessi articoli dei giorni scorsi emerge come all’interno della comunità dell’intelligence USA ci fossero voci discordanti che giudicavano inattendibile il presunto rapporto sul piano russo. Soprattutto, le fonti principali delle accuse contro il Cremlino sarebbero militanti e criminali detenuti in Afghanistan, più o meno legati ai Talebani. Dell’affidabilità di confessioni ottenute in questo modo è quasi inutile discutere e anche l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), secondo quanto riportato dal Washington Post, si sarebbe mostrata estremamente scettica circa le informazioni ricavate da simili interrogatori. Tutte le ricostruzioni apparse sulla stampa “mainstream”, in ogni caso, sono infarcite di precisazioni (“vaghe informazioni di intelligence”, “prove non del tutto confermate”) che, a ben vedere, finiscono per smontare la tesi centrale costruita contro il Cremlino.

Il Pentagono, inoltre, tramite un portavoce ha emesso un comunicato lunedì per smentire l’esistenza di prove che confermino “le recenti accuse sollevate dalla stampa”, riferendosi in particolare a una notizia diffusa dalla Associated Press. L’agenzia di stampa americana aveva scritto che l’intelligence USA stava indagando la morte di tre militari in un attentato dell’aprile 2019 vicino alla base aerea di Bagram come un possibile episodio da collegare ai pagamenti fatti dai servizi segreti militari russi (GRU) ai Talebani.

Anche in questo caso non vengono fornite prove o indizi che giustifichino i sospetti. È probabile piuttosto che fonti governative USA abbiano passato l’informazione alla Associated Press per rimediare a uno dei tanti punti deboli della notizia originariamente pubblicata dal New York Times, cioè che Mosca poteva forse avere la responsabilità indiretta della morte di un solo militare americano in Afghanistan. Nessun commentatore o giornale ufficiale ha poi fatto notare come sia assurdo che i russi abbiano potuto pensare che esistesse la necessità di incoraggiare i Talebani ad attaccare e uccidere membri delle forze di occupazione, quando da quasi vent’anni stanno già combattendo una guerra sanguinosa che ha fatto più di 2.300 vittime tra i militari americani.

Non c’è dubbio, d’altro canto, che Mosca segua con estrema attenzione le vicende afgane, com’è ovvio che sia per ragioni geografiche e strategiche. Anzi, l’approccio della Russia ai Talebani si è evoluto nel tempo fino a considerare gli “studenti del Corano” come una forza con cui confrontarsi nel futuro assetto dell’Afghanistan. I Talebani controllano peraltro già oggi più della metà del territorio del paese asiatico. L’attitudine russa è perciò del tutto comprensibile e legittima, ma questa realtà, rafforzata dai numerosi colloqui tenuti tra i rappresentanti talebani e del Cremlino, viene sfruttata dalla stampa americana per dimostrare l’esistenza di legami criminali che hanno l’obiettivo di colpire le forze armate USA.

Va ricordato, infine, che se anche la notizia riportata dal New York Times fosse vera, le accuse rivolte contro Mosca si riferirebbero a operazioni dalla rilevanza trascurabile se paragonate ai danni causati alla Russia dagli Stati Uniti. Per restare al solo Afghanistan, la guerra fomentata da Washington negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica, tramite la creazione, il finanziamento e la fornitura di armi ai guerriglieri mujaheddin, provocò, secondo alcune stime, circa 15 mila vittime tra i soldati russi. In molti altri teatri di guerra, poi, il denaro, le armi e le manovre dei militari e dei servizi segreti americani hanno provocato un numero imprecisato di vittime russe, come ad esempio in Cecenia o in Siria.

Nel complesso, l’intera vicenda dimostra ancora una volta l’intenzione di una parte della classe dirigente americana di voler fare della Russia il nemico numero uno di Washington, tramite la menzogna e la costante falsificazione della realtà. Il livello di disperazione e di ottusità che questa ossessione dimostra è stato riassunto perfettamente da un comunicato del ministero degli Esteri russo nel fine settimana: “Questo piano banale illustra chiaramente le scarse abilità intellettuali dei propagandisti dell’intelligence americana, i quali, non essendo in grado di ideare qualcosa di plausibile, sono costretti a inventarsi un’assurdità” come quella pubblicata venerdì scorso dal New York Times.

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