Il mio mestiere è attraversare frontiere.
J. G. Ballard, Cocaine Nights
Nei tempi più oscuri e claustrofobici del lockdown avevo scritto che la società, irretita nelle dinamiche più pervasive e brutali del controllo, aveva individuato una nuova figura di nemico, di capro espiatorio sul quale riversare il proprio odio a voce e sui social: colui che usciva di casa apparentemente senza motivo (sia esso il cosiddetto “runner” o il bighellone ozioso che non può rinunciare al piacere di una passeggiata). Avevo anche sottolineato il fatto che l’individuazione di tale nemico era nata, probabilmente in forma inconscia e casuale, sulla base dell’opposizione fra società stanziale e nomade: chi sta chiuso in casa (e chi ha la possibilità e la fortuna di possederne una) è dalla parte giusta, dalla parte della legalità; chi si muove per strada, chi cammina, si sposta, viaggia, è un pericoloso sovvertitore illegale (vedi i rom, gli homeless, gli immigrati o tutti coloro che, semplicemente, non possiedono una dimora fissa). Questo nemico era stato identificato come una sorta di nuovo “untore”, un diabolico personaggio che, secondo una diceria popolare ripresa da Manzoni nei Promessi sposi, sarebbe un volontario e malvagio propagatore della pestilenza. A margine di queste osservazioni rimane la constatazione che, purtroppo, gli anni Venti che si sono aperti in modo così infausto – anni segnati dal predominio dell’era digitale e dalle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale – in quanto a paure, dicerie e superstizioni diffuse, non differiscono troppo dal Seicento descritto da Manzoni.
Sento adesso l’urgenza di intervenire per discutere a proposito dell’identificazione di una ulteriore figura di capro espiatorio, il migrante, lo straniero. Secondo uno dei principali studiosi della figura del capro espiatorio, René Girard, nelle società arcaiche la scelta della vittima sacrificale è sempre stata effettuata secondo dei criteri prestabiliti:
1. Gli individui prescelti hanno sempre segni evidenti di diversità fisica o morale dal resto del gruppo, i quali impediscono l’instaurarsi di una dinamica di identificazione;
2. Non sono indispensabili alla sopravvivenza del gruppo;
3. Hanno rango sociale estremo (regale o marginale);
4. Vivono con il gruppo ma non ne fanno veramente parte.
Spesso, continua Girard, il capro espiatorio viene scelto proprio fra i prigionieri di guerra e gli schiavi, quindi fra gli strati più bassi della società, fra coloro che a stento vengono considerati degli esseri umani (ad esempio, gli schiavi, nella società greca e romana, erano semplicemente strumenti da lavoro ‘dotati di voce’).
Come scrive Shahram Khosravi, uno studioso iraniano che ha vissuto in prima persona l’incubo della migrazione clandestina, i migranti, nella società contemporanea dominata dall’idea di frontiera, simbolo degli stati sovrani, sono dotati di corpi depoliticizzati; sono degli homines sacri, per citare Agamben. Essi possiedono solo la loro nuda vita biologica, non quella politica o la cittadinanza. Khosravi nota che “in quanto homines sacri, i migranti irregolari sono esposti non soltanto alla violenza dello Stato (esercitata dalle normative, dagli accordi politici, dalle leggi, dalle priorità e dalle forze dell’ordine) ma anche a quella dei privati cittadini; sono totalmente inermi”.
Spesso, anche gli stessi media ci trasmettono l’idea dei migranti come una massa indifferenziata, incolonnata alle frontiere degli stati sovrani, quasi degli zombie disumanizzati che è lecito umiliare, ferire, uccidere. Perciò, l’identificazione del capro espiatorio nel migrante irregolare, colui che possiede solo la nuda vita biologica, appare come un tratto comune della società contemporanea.
Da sempre, comunque, in ogni dinamica sociale, la figura dello straniero e del diverso è stata conduttrice di perturbamento e paura. Basti pensare alla vicenda narrata da Euripide nelle Baccanti (407-406 a.C.): Penteo, re di Tebe, decide di incarcerare Dioniso il quale appare come uno straniero giunto dall’Oriente. Il re, intimorito dal possibile contagio che avrebbe portato il dio – disordine, sfrenatezza, delirio bacchico – decide di isolarlo dalla società.
Inoltre, la figura di Dioniso, agli occhi di un greco, appare come un “barbaro”, cioè come uno che non sa parlare il greco, quindi uno straniero al massimo grado, per di più giunto da Oriente, abbigliato in modo sgargiante e ‘effeminato’, con bracciali, orecchini e capelli lunghi. Dalla Grecia antica, questo sentimento di paura ma anche di superiorità nei confronti di chi giunge da Oriente si trasferisce anche alla modernità.
Come scrive Edward W. Said in Orientalismo, la tesi sull’arretratezza culturale dell’Oriente, all’inizio dell’Ottocento, si accompagnava a teorie di stampo razzista sull’ineguaglianza delle razze umane. Nell’ottica degli scrittori inglesi e francesi della metà dell’Ottocento, l’Oriente è stato sempre il luogo del disordine, della sensualità pericolosa e di un erotismo perturbante. In Cuore di tenebra (Heart of darkness, 1899) di Joseph Conrad, anche l’Africa nera diviene il luogo dell’alterità assoluta dalla quale si diffonde un pericoloso perturbamento.
Da più parti, i migranti che giungono dall’Africa e dai paesi orientali, soprattutto quelli irregolari, vengono additati come possibili untori e malevoli propagatori del covid-19. Un’idea cavalcata dalla destra e che, populisticamente, non ha tardato a farsi largo fra sempre più numerosi gruppi sociali.
Diamo un’occhiata alla cronaca: lo scorso 8 agosto, ospite del Bagno Mary a Tirrenia, il leader della Lega Matteo Salvini ha così affermato, con toni populistici e strumentali, in vista delle elezioni di settembre: “qua per andare in spiaggia si chiede la mascherina, a quelli che hanno fatto sbarcare a Lampedusa chi chiede la mascherina? Hanno fatto sbarcare 15mila balordi che sono in giro per l’Italia a fare casino e a portare virus e confusione”.
Inutile dire che dichiarazioni simili, sempre di stampo populistico, sono state fatte dalla maggiore esponente della destra fascista, Giorgia Meloni. E mi sembra anche inutile ricordare come i fascisti siano stati bravissimi a individuare, in tempi bui non troppo lontani, dei veri e propri capri espiatori da eliminare (ebrei, rom, omosessuali).
Cerchiamo di commentare in modo lucido le dichiarazioni di questi ‘capipolo’ da operetta e le lamentele urlate in piazza e sui social dai decerebrati razzisti al loro seguito. Dunque, è vero che ci sono stati casi di positivi al coronavirus fra i migranti (e ricordiamo, del resto, che in Africa, per fortuna, il contagio non ha mai toccato punte così alte come in Europa), ma è anche vero che le cifre non sono mai state così elevate da superare i casi di positivi fra gli italiani ‘purosangue’ che piacciono tanto a questi personaggi.
In secondo luogo, se ci sono stati casi di focolai negli spazi allestiti per i migranti – è il caso della caserma Serena di Treviso, dove i profughi contagiati sono 246 su 281 – ciò è dovuto ad una incapacità organizzativa da parte dei cosiddetti ‘piani alti’. È noto come le istituzioni, nel periodo della più grave emergenza, abbiano dimostrato una evidente e tragica incapacità di gestire la situazione, come nel caso delle RSA lombarde. Come nei centri allestiti per i migranti e così anche nelle “navi quarantena”, il governo ha deciso di concentrare anziché distanziare. Come è noto (e come abbiamo sperimentato sulla nostra pelle) per evitare il contagio è necessario il distanziamento, non la concentrazione.
La realtà è ben diversa da quella che vorrebbe Salvini: tanti migranti che, selvaggi e ignoranti, come schegge impazzite, diffondono il virus nella civile Italia. Del resto, recenti situazioni di contagio si sono avute non solo nei centri allestiti per i migranti ma anche nei luoghi della movida e nelle discoteche (notoriamente frequentate da migranti irregolari).
Un discorso a parte meritano le cosiddette “navi quarantena”. Nella creazione di questi spazi vige la logica dell’isolamento di massa, della separazione forzata e concentrazionaria. Le “navi quarantena” ricordano le “navi dei folli” di cui parla Michel Foucault nel primo capitolo della Storia della follia nell’età classica. La nave dei folli (il Narrenschif), è un elemento simbolico e sociale che segna in profondità la società rinascimentale, soprattutto tedesca: “uno strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi”. La follia viene segregata su una nave che si trasforma, per certi aspetti, in una prigione viaggiante (diventando essa stessa strumento della logica del “sorvegliare e punire”), allontanata dallo spazio chiuso della città.
Il mare e la spazialità acquorea, secondo lo stesso Foucault, strettamente connesse, diventano il luogo dove il folle è “prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade”, senza patria e senza verità. La nave, che sempre secondo lo studioso francese assume le caratteristiche di una “eterotopia per eccellenza”, cioè uno “spazio altro” demandato al sogno e all’immaginazione, in questo caso si trasforma in strumento coercitivo e di controllo, un vero e proprio carcere navigante. E così avviene per i migranti sulle “navi quarantena”, dove le persone ammassate diventano in breve tempo poco gestibili, soggette ad attacchi di panico e vittime di disagio psicologico, come è successo lo scorso 20 maggio a un ragazzo tunisino che si è gettato in mare ed è morto mentre tentava di raggiungere la costa a nuoto.
Parlando di “navi quarantena” per i migranti l’immaginario corre poi a quelle vere e propri navi-carcere dove i negrieri europei ammassavano gli schiavi africani oppure alle cosiddette galere, navi-prigione in uso fino a tempi recenti. Racconta infatti in pieno Novecento Louis-Ferdinand Céline, in Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1933), come il suo alter ego e protagonista del romanzo, Bardamu, catturato in Africa insieme a numerosi africani, venga condotto in una galera fino a New York e poi sottoposto a quarantena sulla nave, dalla quale poi riuscirà a fuggire. Inutile poi stare a ricordare i procedimenti di quarantena a cui erano sottoposti i migranti italiani a Ellis Island, a New York, molti dei quali venivano espulsi e rispediti in Italia (come racconta in modo lucido e poetico il bel film di Emanuele Crialese, Nuovomondo).
Insomma, il tempo infausto in cui regna Re Covid (che, come il Re Peste dell’omonimo racconto di Poe, si nasconde nei più oscuri interstizi del potere) sembra proprio non essere finito in questi caldi giorni d’estate. A fianco del rischio ben più drammatico e reale del contagio, nei mesi passati, sembra essersi instaurato un ordine del discorso che si rispecchia in una realtà che, in nome dell’odio diffuso, sempre più si allontana dai più elementari presupposti di umanità.
I rapporti fra discorso, verità e potere analizzati da Foucault ne L’ordine del discorso si sono resi più complessi e intricati. L’idea predominante è stata quella del confine e del confinamento. Mentre eravamo confinati in casa si sono inaspriti anche i confini per i migranti: scontri e violenze negli estremi lembi della Grecia, inasprimenti delle misure europee alle frontiere esterne, con lo schieramento degli agenti di Frontex armati, canali legali per migranti ‘qualificati’ (il che vuol dire che vi sono migranti – quelli irregolari – che verranno considerati ai limiti dell’umano), mentre coloro che già erano immigrati in Italia si sono ritrovati bloccati nei ghetti loro riservati nella Piana di Gioia Tauro o altrove, senza cibo e senza lavoro.
È necessario scardinare questo ordine del discorso con una vasta operazione di lucidità, scardinando in questo modo anche la logica della continua ricerca del colpevole, aizzata e favorita in mille modi dal potere. Una lucidità liberata che abbia come nemico principale il potere e le sue dinamiche di controllo, di odio e di punizione.
Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978.
Id., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, trad. it. Mimesis, Milano, 2002.
Id., L’ordine del discorso, trad. it. Einaudi, Torino, 2004.
R. Girard, Il capro espiatorio, trad. it. Adelphi, Milano, 1987.
S. Khosravi, Io sono confine, trad. it. elèuthera, Milano, 2019.
E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013.
Fonte
Bel discorso. Tuttavia piacerebbe ogni tanto leggere oltre a "potere", pure "capitale" dal momento che il primo non è una realtà metafisica ma discende dai rapporti di forza tra le classi. Diversamente qualsiasi analisi e conseguenti rivendicazioni assumo caratteri del tutto astratti e strumentalizzabili dalla parte di società che il "potere" lo esercita.
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