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13/08/2020

Il riconoscimento politico della lotta armata, tra Cossiga e Pci


Nel pubblicare questa documentazione apparsa su Insorgenze.net, che riprende anche l’articolo di Giovanni Bianconi apparso su Il Corriere della Sera, ci sembra utile sottolineare un aspetto che rischia di andare perso tra le inevitabili “riduzioni” dettate dalla politichetta contingente.

Il “carteggio” tra Francesco Cossiga – ex ministro dell’Interno inventore della “legislazione d’emergenza”, ex Presidente della Repubblica fautore dell’amnistia per i prigionieri politici – e alcuni dei prigionieri (soprattutto delle Brigate Rosse, ma non solo) può essere compreso solo all’interno di una cultura politica che non c’è più. O almeno che non ha più sostenitori palesi, tanto meno nella classe politica indecente che ci ritroviamo oggi.

È la cultura del conflitto reale, tra parti che si combattono senza esclusione di colpi in difesa o per l’affermazione di interessi sociali e politici opposti ma considerati – da entrambe le parti – legittimi. È la cultura del conflitto in cui si lotta per prevalere e affermare la propria parte, sapendo benissimo che dall’altra parte ci sono dei “nostri simili” – alcuni degni, altri indegni e squallidi – di cui conoscono, comprendono, combattono le motivazioni e le mosse.

Un conflitto fatto da donne e uomini di questo mondo, non tra angeli e demoni di un mondo inesistente se non nella retorica dei comunicati di guerra. Un conflitto al termine del quale si “ritorna alla normale lotta politica”, non alla dismissione delle proprie ragioni.

Questa cultura politica ha attraversato l’umanità per secoli, costruito la modernità, sintetizzata magistralmente dall’aforisma di von Clausevitz poi ripreso da tutti i rivoluzionari (e statisti) del mondo: la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Da cui consegue, simmetricamente, che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi.

Stabilita insomma l’esistenza di interessi sociali diversi, radicati nell’organizzazione sociale data, che danno vita a visioni politiche contrapposte, si ammette la legittimità del conflitto e dunque si riconosce che il nemico non è un demone ma l’altro. Bisogna batterlo, con ogni mezzo, a volte anche militare (ed è l’unica vera differenza tra la normale lotta politica e la guerra).

Non c’è bisogno insomma di tornare alle culture cavalleresche del ‘700 o dell’800 – quando i grandi ufficiali di due diversi eserciti si riconoscevano come appartenenti alla stessa classe (aristocratici e/o borghesi) – per comprendere la cifra politica di un tentativo abortito di “riconoscere politicamente” il fenomeno della lotta armata ex post.

Era, al dunque, un modo per poter procedere oltre la stagione del conflitto militar-poliziesco, costruendo una lettura realistica della Storia italiana degli anni ’70. Ciò non è avvenuto. Per colpa soprattutto del Pci, nel frattempo passato dalla sofferta “obbedienza sovietica” alla sbragata accettazione dell'”ombrello della Nato”. Un passaggio di campo – geopolitico ma soprattutto di classe – che affondava le radici nella “politica dei sacrifici”, nell’illusione del “compromesso storico” e nella resa incondizionata alle ragioni del capitale.

Il resto è solo conseguenza e menzogna continua, per occultare quel passaggio di campo sotto la coltre della “fermezza”, sotto la vergogna della “dietrologia”, sotto le pratiche di sottogoverno che hanno poi “preparato” il ceto politico Pds-Ds-Pd e via declinando.

Discorso lungo e complesso, certamente, ma da fare senza chiamare in causa angeli e demoni...

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Cossiga e gli ex Br, «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”»

Il titolo della edizione cartacea del Corriere della Sera uscito in edicola il 20 luglio 2020 citava le «lettere inedite», titolo che si ritrova anche nella stringa (https://www.corriere.it/…/cossiga-ex-br-lettere-inedite-mi-...). Stranamente nell’edizione online, quelle lettere «inedite» sono diventate «segrete». Un malizioso stravolgimento del pezzo firmato da Bianconi e della realtà dei fatti, perché l’epistolario di Cossiga non fu segreto né tantomeno inedito

Chi ricorda l’estate del 1991, sa bene come andarono le cose, a partire dai quattro decreti di grazia d’ufficio proposti (cioè promossi direttamente dalla presidenza della Repubblica e non richiesti da Curcio) e rifiutati dall’allora Guardasigilli Martelli (che secondo la Costituzione avrebbe dovuto controfirmare).

Questione poi avocata dal presidente del consiglio Andreotti che, a sua volta, pose il veto del governo, spalleggiato dal Pci. Ne scaturì un conflitto di attribuzioni di natura costituzionale che celava anche un conflitto politico.

Cossiga graziando Curcio con motivazioni dichiaratamente politiche voleva aprire la stagione dell’amnistia e chiudere con l’emergenza giudiziaria, convinto che questa avesse creato un vulnus nella tradizione giuridica, inasprendo il codice Rocco rispetto alla versione originale d’epoca fascista e soprattutto introducendo palesi criteri d’iniquità nei trattamenti processuali, penali e penitenziari: dove pentiti e dissociati a parità di reati si avvalevano di trattamenti di favore rispetto a chi aveva rifiutato di accedere a quei dispositivi mantenendo la propria dignità personale e politica.

Non solo, ma Cossiga aveva capito che la delega fornita alla magistratura aveva favorito il suo ingresso negli affari politici, iniziando a destabilizzare l’equilibrio tra poteri previsto dal costituzionalismo liberale. Cossiga era cosciente di aver innescato lui stesso una profonda ferita nella tradizione giuridica italiana quindi pensava all’amnistia come ad uno dei modi per disinnescare l’emergenza giudiziaria, ricollocare la sfera giudiziaria nel suo alveo naturale e rilanciare una più corretta dialettica politica e sociale.

Intravedeva all’orizzonte quel che poteva accadere di lì a poco e poi accadde: la fine della Prima repubblica e l’avvento del protagonismo politico delle procure che deflagrò con le inchieste per «Mani pulite». Mesi prima aveva avviato un duro braccio di ferro con il Consiglio superiore della magistratura sulla definizione di alcuni ordini del giorno, uno di essi riguardava la vicenda Gladio, fino al ritiro della delega al vicepresidente Giovanni Galloni.

Nel novembre successivo inviò la forza pubblica nell’aula del Csm, giustificando la presenza in aula dei Carabinieri con i ‘poteri di polizia delle sedute’ a lui attribuiti. Da quello scontro venne fuori la stagione delle «esternazioni», del «presidente picconatore».

Il 28 luglio 1991, in una delle sue sortite Cossiga disse: «Quando noi, alla fine degli Anni Settanta, ci battevamo con tutta la forza di cui poteva disporre lo Stato contro la banda armata detta Brigate rosse, il partito comunista di mio cugino Berlinguer portava in quella lotta anche un impegno ulteriore, per un fatto propriamente politico, che andava oltre quello, comune a tutti, della difesa dello Stato dall’eversione.

A quei tempi il Pci voleva impedire a qualsiasi costo che una guerriglia, in qualsiasi maniera legittimata, potesse pretendere di occupare uno spazio alla sua estrema sinistra. Guai se, dal punto di vista del Pci, la guerriglia brigatista avesse ottenuto una legittimazione alla maniera dell’Olp.

Questo interesse in qualche misura privato del Pci si aggiungeva allora al nostro, che era semplicemente quello di difendere lo Stato, battere quei nemici, ma senza rinunciare a capirli: per far fallire il loro piano dal punto di vista morale e politico, e poi anche sul terreno dello scontro militare.

Quello volevamo ottenere e quello ottenemmo. Io fui sconfitto col caso Moro, è vero. Ma sono stato un combattente di prima linea in quella guerra». Ed ancora, «I comunisti sono stati i più scatenati contro di me in questo momento. Mi dispiace per loro, perché io credo che proprio a sinistra sia stato capito nel modo giusto quello che era mia intenzione sottolineare dando la grazia a Curcio […] Il Pci – mi scusi, io seguito a chiamarlo Pci – è rimasto in braghe di tela. Politicamente sono sconfitti: non hanno saputo cogliere neanche una questione così delicata e importante per la sinistra, qual era e resta la questione del terrorismo e del partito armato. Io ho proposto la grazia per Curcio perché sento di essere il capo di uno Stato forte. Loro sono apparsi deboli», (La Stampa, 15 agosto 1991).

L’epistolario di Cossiga è una diretta conseguenza di quella clamorosa stagione di cui si trova traccia nelle emeroteche. Dopo il rifiuto della grazia, Cossiga rese visita in carcere a Curcio, da qui il resoconto che questi scrisse del loro incontro.

Negli anni successivi arrivarono le altre lettere a Gallinari e Maccari, il biglietto per il libro intervista di Mario Moretti del 1993, che ricostruiva la storia delle Brigate rosse e il sequestro Moro. Nel 2002 la lettera al sottoscritto, pervenuta nel reparto di isolamento del carcere di Marino del Tronto, immediatamente dopo la mia estradizione dalla Francia, salutata da tutti i media italiani come la fine della dottrina Mitterrand. Lettera che fece il giro del mondo, finendo davanti alle giurisdizioni francesi, argentine e brasiliane.

Questi messaggi, e le dichiarazioni del 1991 di Cossiga, meriterebbero una riflessione più approfondita. Per il momento mi limito a sottolineare solo una cosa: Renato Curcio ricevette la visita di Cossiga dopo il rifiuto della grazia, successivamente chiese al tribunale di Sassari un cumulo di pena che gli avrebbe permesso l’uscita dal carcere. I magistrati sardi glielo negarono. Terminò di scontare la pena molto più tardi. Prospero Gallinari e Gennaro Maccari sono morti durante l’esecuzione della loro condanna. Mario Moretti è ancora “fine pena mai”, ha raggiunto ormai il suo 39vesimo anno di carcere. Il sottoscritto ha terminato la pena nel 2014, scontata fino all’ultimo giorno (quindici anni e alcuni mesi). L’interlocuzione con Cossiga verteva su una soluzione generale della prigionia politica che alla fine non ci fu. Quelle di Cossiga furono le lettere di uno sconfitto, un capo di stato maggiore che aveva vinto la battaglia contro la lotta armata ma aveva perso la guerra contro l’emergenza, da lui stesso creata.

Paolo Persichetti

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Documenti – Un articolo di Giovanni Bianconi racconta la corrispondenza privata, resa pubblica dalla Camera dei deputati, che l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe con alcuni esponenti delle Brigate rosse dal 1991 fino al 2002

Corriere della sera del 20 luglio 2020
di Giovanni Bianconi

Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell’estate 1991, l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr’occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi.

Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l’ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. 

Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell’atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell’Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato».

I vertici delle forze di sicurezza erano d’accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l’ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra.

Lo scritto di Curcio

«Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell’incontro conservato nell’archivio privato del presidente emerito. Insieme a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell’incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano».

Risposta dell’ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell’estrema sinistra il ministro dell’Interno del ’77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale... Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». 



Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l’anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo.

Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell’Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l’ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all’ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos.

La vacanza di Toni Negri

Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un’antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga».

Così Negri s’era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d’ora per quello che potrai fare». 

All’ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio ’94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena».

Aggiungendo il rammarico perché nell’ex Pci c’era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». 

In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l’ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell’Europa».

L’omicidio Giorgieri

È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l’unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio.

«Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell’ex brigatista, uscito dal carcere. 

E al suo compagno di cella Melorio, che all’ex presidente aveva raccontato il passaggio dall’essere suo nemico giurato nel ’77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ “colpevole” della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori».

La mamma di Mambro

Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell’Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». 



In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant’anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei.

Dopo la condanna nell’appello bis, a luglio ’94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l’ergastolo definitivo.

Il testo della lettera di Cossiga
Francesco Cossiga, Eravate dei nemici politici, non dei criminali
La fotocopia della lettera di Cossiga

L’intervista alla Stampa
Persichetti, «Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni '70»

Un ritratto di Cossiga
Franco Piperno, Cossiga architetto dell’emergenza giudiziaria. Era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni

Fonte

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