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13/08/2020

La Bielorussia tra “dittatori comunisti” e nazi-majdanisti “democratici”

Cosa sta succedendo in Bielorussia? È in atto a Minsk l’ennesima “majdan”, che ha attraversato negli anni praticamente tutte le ex Repubbliche sovietiche, con risultati fortunatamente non uniformi? È veramente crollato l’appoggio popolare a Aleksandr Lukašenko e, dunque, quell’ormai fatidico 80% di voti accreditatogli domenica scorsa dagli elettori dovrebbe esser ribaltato a favore della principale candidata avversaria, Svetlana Tikhanovskaja, che da Vilnius si autoproclama “vincitrice”?

Non è davvero semplice raccapezzarsi nell’attuale situazione bielorussa e gli attori esterni, ufficiali e non, sono davvero tanti e quasi tutti, chi più apertamente, chi meno, sarebbero stati felici di sbarazzarsi di quello che, ormai dal 1994, i demo-liberali sono usi qualificare come “ultimo dittatore d’Europa”: un titolo che, per dire, non sembra di aver mai sentito uscire dalle loro bocche a proposito di un Petro Porošenko qualsiasi.

Tra l’altro, nel comune linguaggio liberale, la qualifica di “dittatore” o la categoria di “dittatura”, sono sempre assoluti e rigorosamente privi di qualsiasi riferimento di classe: dittatura su chi, su quale classe, e democrazia per chi, per quale classe.

In effetti, non è che, specialmente negli ultimi anni, Bats’ka (padre-patriarca, boss: bat’ko in ucraino, bat’ka in russo. Il cliché di “bats’ka” fu appioppato a Lukašenko già al suo primo mandato presidenziale, per sottolineare i suoi modi abbastanza rustici, quasi contadineschi, con pretese di “padre della nazione”) abbia fatto molto per consolidare veramente i rapporti con questa o quella delle capitali confinanti.

Lo stesso “stato unitario” Russia-Bielorussia – ormai quasi una saga – conosce da anni alti e bassi abbastanza bruschi. E non si può dire che le responsabilità siano sempre venute da est del Berezina; anche se ieri, Lukašenko, nell’indicare i “burattinai” che da Varsavia, Praga, Kiev, “consigliano ai manifestanti bielorussi di accordarsi pacificamente con il governo perché ceda volontariamente e pacificamente il potere”, ha citato anche “un certo flusso di persone, arrivate in Bielorussia, purtroppo, anche dalla Russia”.

Sarà un caso che, a fronte delle “calde congratulazioni” giunte a Lukašenko, ad esempio, da Cina e Cecenia, quelle del Cremlino siano state abbastanza di prammatica. Alla Duma russa, qualcuno ha addirittura chiesto di non riconoscere la sua vittoria e si è arrivati anche a proporre sanzioni contro la Bielorussia.

Insomma: non è facili districarsi nelle vicende di un paese che – non ce ne vorranno i nostri che, sulla scia dei comunisti russi zjuganovisti, alludono alla Bielorussia quasi come a un paese socialista – insieme a indubbi successi sul piano sociale e forse uno dei più prosperi tra gli stati dell’ex URSS, pur non ricco di risorse naturali, sta oggi attraversando un periodo abbastanza difficile, assediato a ovest dalle mire economiche e politiche USA-UE e controllato a vista da est per i suoi ripetuti zig-zag che, con o senza Lukašenko, potrebbero significare “democratiche” basi militari USA e NATO nel paese.

Lo scorso febbraio, dopo la visita a Minsk del Segretario di stato Mike Pompeo, Lukašenko parlò di “partenariato prioritario” con gli Stati Uniti, anche se, per ora, la Bielorussia rimane praticamente l’unico paese (insieme alla Russia) dell’ex Patto di Varsavia, in cui non siano presenti basi e armamenti USA.

Tra tali zig-zag e giravolte, non vanno dimenticati i ripetuti abbracci del “bats’ka” prima con Porošenko e ora con Vladimir Zelenskij e la posizione negativa bielorussa su Donbass e Crimea; lo scorso aprile, Lukašenko aveva dichiarato nero su bianco che Kiev dovrebbe fare di tutto per liquidare le Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk!

Questo, nonostante Minsk ospiti sin dal settembre 2014 le cosiddette trattative sul Donbass. Sino all’ultimo, c’è stato il rischio che i famosi “33 uomini verdi” russi (della compagnia privata “Wagner”) arrestati in Bielorussia nei giorni precedenti il voto, venissero consegnati all’Ucraina, in quanto ex combattenti nel Donbass.

D’altra parte, il conflitto con Mosca, a parere del politologo russo Rostislav Iščenko, sarebbe opera di una ben determinata cerchia governativa che, in questo modo, intenderebbe preparare per Lukašenko lo stesso destino del presidente ucraino Viktor Janukovič, stretto tra i “prestiti” occidentali e i “crediti condizionati” russi e, ondeggiante nella scelta, fu infine deposto dal nazi-majdan e costretto a fuggire in Russia.

Il continuo cercare di destreggiarsi di Minsk tra est e ovest, il tentare di ricattare ora l’uno ora l’altro, senza definirsi fino in fondo alleata di questo o di quello, alla lunga rischiano di portare più guai che benefici, tanto più che, a Washington come a Bruxelles, a parte qualche necessità di smercio (in particolare: il gas di scisto yankee) la Bielorussia interessa quasi esclusivamente come ulteriore tassello nell’accerchiamento della Russia.

Come che sia, attingendo ai fatti più o meno “oggettivi”, si deve constatare, per ora, la continuazione degli scontri tra manifestanti e polizia, con il largo uso, da parte dei primi, del canale telegram “NEXTA” per il coordinamento delle azioni, dopo che il governo aveva chiuso i collegamenti via internet: insomma, una sorta di “rivolta-twitter”, con le istruzioni diffuse da un canale operante dalla Polonia e registrato a nome del ventiduenne Stepan Putilo.

E il politologo Sergej Markov ipotizza su news-front uno scenario per cui, proprio dalla Polonia sanfedista e dalla Lituania delle redivive Waffen SS, d’accordo con Washington (quest’ultima, ufficialmente, almeno per ora mantiene un certo riserbo) si starebbe organizzando un percorso “venezuelano”, facendo della Tikhanovskaja la “Guaidò” bielorussa e riconoscendola quale “presidente”: non a caso, è già all’ordine del giorno il suo incontro con Mike Pompeo, a Varsavia o a Vilnius.

In ogni caso, non pochi osservatori rilevano come “bats’ka” abbia non tanto perso le elezioni, quanto subito “una schiacciante sconfitta nella guerra informativa”, come testimonia appunto NEXTA, messo in piedi nel giro di pochi giorni in vista delle elezioni e che continua tuttora a diffondere istruzioni sulle azioni da intraprendere contro la polizia e le autorità locali.

In questo quadro, Lukašenko, a differenza di Janukovič, che aveva lasciato disarmati i reparti di polizia contro nazisti e banderisti a majdan, potrebbe ordinare (sembra che, di fatto, sia già così) di rispondere col il pugno duro ai gruppi di manifestanti, tra cui spiccano non pochi polacchi, baltici, ucraini e altri “democratici” confinanti. Difficile ipotizzare un compromesso tra le parti, anche per le spinte che all’opposizione vengono da Kiev, Varsavia, Paesi baltici, USA.

Sul fronte politico, la russa ROTFront ha pubblicato una dichiarazione della sezione bielorussa di “Per l’Unione e il partito comunista dell’Unione”, in cui si afferma che, dopo varie “sconfitte subite a opera dei lavoratori, l’oligarchia finanziaria mondiale, sotto le vesti democratiche di combattente per i diritti umani e con l’aiuto della sua ‘quinta colonna’, ha avviato in Bielorussia un’aggressione ibrida, cercando di spingere la classe operaia a scioperare. Tuttavia, la classe operaia ha reagito: i lavoratori hanno votato secondo i propri interessi e non per quelli oligarchici stranieri. Da qui, ecco ora i tentativi di spingere allo sciopero i collettivi di lavoro, con gruppi di provocatori che si affollano agli ingressi di alcune fabbriche. Tuttavia, non è vantaggioso per i lavoratori scioperare per gli interessi degli oligarchi stranieri. Ricordiamo come i minatori russi avessero aiutato il “democratico” Eltsin in Russia, e come lui li avesse ringraziati, chiudendo le miniere”.

Da parte sua, ROTFront commenta che “Con tutto il rispetto per i nostri compagni, non possiamo essere d’accordo con la loro idea che votare per Lukašenko significhi votare per gli interessi dei lavoratori. La politica socioeconomica di Lukašenko differisce solo in quanto i processi di privatizzazione e di aumento dei prezzi sono lenti e controllati dalle autorità. Sappiamo molto bene come finiscono questi processi. Il regime di Lukašenko è una forma di dittatura borghese. Come i suoi colleghi nello spazio post-sovietico, egli non è in grado di risolvere le contraddizioni sociali fondamentali. Ciò significa che, nel profondo della società bielorussa, matureranno costantemente i presupposti per un’esplosione sociale. La tragedia del vicino popolo ucraino è che il malcontento popolare è stato cavalcato da una fazione borghese, nel ruolo di marionetta USA. I lavoratori che avevano sinceramente protestato contro il regime di Janukovič, si sono rivelati pedine nelle mani di persone che non erano diverse da Janukovič. I lavoratori bielorussi possono rinnovare il destino dei loro fratelli ucraini, se si uniscono ai ranghi dei manifestanti sotto false bandiere e per interessi loro estranei”.

Secondo la sezione bielorussa del VKPB (il partito fondato da Nina Andreeva, recentemente scomparsa) hanno dichiarato che “i banderisti bielorussi, dopo aver perso le elezioni, cercano ora di organizzare una majdan a Minsk”. Si può già “dire che il “maidan” di Minsk sta crollando, che i nazisti falliranno. Ma non è questo un motivo per rallegrarsi particolarmente: la costruzione del capitalismo in Bielorussia continuerà, qualunque sia l’esito degli eventi. Quanto a Lukašenko, è il presidente borghese di uno stato borghese. E anche se in realtà ci siamo schierati dalla sua parte” – contrariamente alla linea generale del VKPB, in Bielorussia hanno partecipato alle elezioni, votando per ‘bats’ka’ – “ora ci prepariamo alla lotta. Sebbene ci proibisca di manifestare il 1 maggio, il 9 maggio, il 7 novembre, mentre consente ai nazisti di tenere le proprie adunate, con lui abbiamo condizioni più accettabili per la nostra lotta di quanto non lo sarebbero nel caso di una vittoria del majdan“.

Davvero stretta la strada per i lavoratori bielorussi, tra dittatura borghese e “nazi-democrazia” liberale.

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