Nella Colombia dove meno di un mese fa è stato assassinato il
cittadino italiano e funzionario ONU Mario Paciolla (un omicidio che,
fino a prova contraria, può avere motivi politici legati al processo di
pace), l’arresto dell’ex-presidente Álvaro Uribe è “la notizia del secolo”. Una notizia del secolo totalmente bucata dai nostri media, cerchiamo di capire perché.
Onnipotente, e ancora oggi difeso dall’attuale presidente Iván Duque,
del quale è mentore influentissimo, Uribe nel primo decennio del secolo
(2002-2010) fu il principale alleato emisferico di George W Bush. Era
il tempo post 11 settembre e della “guerra al terrorismo” e dell’America
Latina che, dopo il tracollo del “neo-liberismo reale”, guardava a
sinistra da Lula a Kirchner a Chávez. Uribe fu per anni “il nostro uomo a
Bogotà”; destra vera, non opportunismo. Godeva di ottima stampa (spesso
redazionali pagati) che magnificavano presunti successi di politiche
ultraliberali in un Continente che in quegli anni rileggeva Gramsci e
guardava a Keynes. Intanto, con la scusa della guerriglia
vetero-marxista delle FARC si negava l’essenza di un conflitto feroce
per la terra, con milioni di contadini espulsi dalle loro terre per far
posto all’agroindustria e il ruolo nefasto del narcotraffico. Un
conflitto per la terra che vedeva i contadini sempre massacrati,
dall’esercito, dai paramilitari e a volte perfino dalla guerriglia, e
che generava la guerriglia stessa quasi come un danno collaterale di un
processo di modernizzazione neoliberale dei rapporti di produzione.
Rapporti di produzione dove l’industria militare resta tra le più
prospere e abominevoli, come attestò il Plan Colombia, voluto dagli USA.
Basta ricordare il caso dei “falsi positivi”, migliaia di disgraziati,
contadini, studenti, totalmente estranei, assassinati a sangue freddo e
rivestiti con la divisa della guerriglia per incassare i soldi pattuiti
col governo degli Stati Uniti per ogni guerrigliero ucciso.
Uribe, con i suoi paramilitari, era materialmente dietro non solo a
molti dei singoli crimini, ma ideologo dell’impalcatura generale di una macchina criminale
e genocida che ha fatto 250.000 morti. A cominciare da quel Massacro di
El Aro, nel lontano 1997, riconosciuto come Crimine contro l’Umanità,
quando i paramilitari delle AUC, legati a lui che in quel momento era
governatore di Antioquia, assassinarono 15 contadini per sloggiarne 900
altri. Tra gli esecutori materiali vi fu quel Salvatore Mancuso,
paramilitare e narcos, legato alla ‘ndrangheta, successivamente
impegnato nella destabilizzazione del governo Chávez in Venezuela, e nel
2008 estradato negli USA. Uribe, non fosse stato alleato di Bush, in
quella stessa stagione avrebbe meritato un tribunale penale
internazionale come un Milosevic o un Saddam Hussein. Oggi otto anni di
indagini di un potere giudiziario che in questi decenni ha pagato prezzi
altissimi per difendere la propria autonomia, hanno portato
all’emissione di un mandato di arresto (già trasformato in domiciliari
per una presunta positività Covid19) per una parte di quei crimini.
Nello specifico la sua relazione con i paramilitari e, in particolare,
nella corruzione di testimoni (è stato arrestato anche l’avvocato di
Uribe) per smontare le accuse del coraggioso senatore Iván Cepeda, del
Polo Democratico, e che dimostrerebbero come Uribe e suo fratello
Santiago siano fin dall’inizio personaggi chiave del paramilitarismo nel
Nord-Ovest della Colombia.
Se dell’arresto di Uribe e della lunga vicenda processuale che lo
riguarda sentirete parlare poco sui giornali, che vi stanno del resto
negando informazioni sull’omicidio di Mario Paciolla, ancora meno
sentirete parlare di vicende giudiziarie di questi giorni e di segno
opposto in America latina, eppure decisive nella comprensione della
Storia della Regione in questo scorcio di XXI secolo. L’Interpol, per la
terza volta nel giro di un anno, ha sostenuto che dietro la condanna
per corruzione dell’ex-presidente ecuadoriano Rafael Correa esista una
precisa “persecuzione politica”, orchestrata dall’attuale presidente
Lenín Moreno, e quindi si è rifiutata di procedere contro questo.
Contemporaneamente in Brasile la Corte Suprema riconosce una volta di
più quanto la condanna di Lula fosse viziata dal giudice Sergio Moro
(che con sprezzo del ridicolo qualcuno sui giornali italiani definì “il
Falcone brasiliano”), che poi è stato Ministro della Giustizia di Jair
Bolsonaro. Moro agì al fine di “influenzare in modo diretto e rilevante
il risultato delle elezioni, […] violando il sistema accusatorio nonché
le garanzie costituzionali del contraddittorio e della difesa”. A questo
si aggiunga la denuncia di brogli mai esistiti, inventati a tavolino
dall’Organizzazione degli Stati Americani, che furono prodromici al
golpe contro Evo Morales in Bolivia e all’instaurazione di un
catastrofico regime di fatto che sta usando il Covid-19 per perpetuarsi. È
il “lawfare”, la guerra giudiziaria contro tutti i governi di
centro-sinistra degli ultimi vent’anni: lo strumento per normalizzare
l’America Latina. Tutti corrotti, salvo Uribe ovviamente.
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