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16/08/2020

Storia e tempo nella Rivoluzione. Intervista a Barbara Balzerani

Due giorni fa usciva una lunga, complessa e articolata intervista di Barbara Balzerani, rilasciata al Grido del Popolo (testata online che evoca, nel titolo, il settimanale politico italiano, di orientamento socialista, attivo dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale) a firma di Gordan Stosevic.

Un’intervista che potremmo definire, senza dubbio, un compendio dei temi e delle riflessioni più rilevanti, che attraversano i sette libri scritti fin qui dalla ex militante delle BR.

Un’intervista a trame concentriche, in cui si intrecciano e si annodano le maglie larghe della Memoria e della Storia. Si cuciono insieme i fili sottili e sfrangiati delle storie collettive, tessute dalle inesorabili Parche dei vinti.

Un’intervista, nel corso della quale si ricostruiscono paesaggi metropolitani, sulle cui strade principali agirono soggetti rivoluzionari che, ancor prima del cielo, strinsero d’assedio le strutture del potere vigente.

Si ascolta la parola degli esclusi, liberata dalle sbarre, reali e simboliche, apposte dalla democrazia dei padroni ai corpi/glossa di chi ha osato sfidarne il dominio.

Si ascolta l’eco delle voci di donne guerrigliere, portatrici di saperi, di forza e di violenza di classe e di genere, contro un patriarcato che le vorrebbe deboli e difendibili, nel nome della loro stessa resa alle regole del gioco, invariabilmente maschile.

Ma soprattutto, in questa intervista, si riscrive, sulla bianca pergamena del Tempo, la verità di una Storia che si vorrebbe annullata, mistificata dalla potente arma della sofisticazione propagandistica.

La verità sul conflitto di classe che, per quasi un ventennio, ha attraversato l’Italia. La verità sulla Lotta Armata comunista e sulle Brigate Rosse che, di quella lotta, furono l’avanguardia più avanzata.

Ancor più specificamente, quella della Balzerani è un’intervista dall’evidente spessore politico. Barbara parla inequivocabilmente da ex dirigente delle BR. Ne assume – come hanno sempre fatto tutti quei compagni che non si sono genuflessi, nella penombra di una sacrestia, di fronte alla patta del Potere per una viscida assoluzione – responsabilità, azioni, successi parziali e sconfitte definitive.

Ci aiuta a ricollocare l’esperienza brigatista nella cornice storica, sociale e politica degli anni ’70. Come all’interno del paradigma rivoluzionario novecentesco.

Rivendica, Barbara Balzerani, il ruolo fondamentale delle BR nella lotta del nuovo proletariato che si andava affermando in quegli anni, dentro e fuori la fabbrica, e della soggettività politica che si andava, con esso, profilando.

Ma soprattutto, smentisce qualunque ipotesi di fuga in avanti soggettivistica, che pure si sente enunciare da molti compagni.

Compagni che, evidentemente, o conoscono poco o preferiscono strumentalmente criticare e denigrare quella storia di lotta armata. Senza comprenderne ragioni e valenze, all’interno del processo rivoluzionario in atto negli anni ’70.

Una buona occasione, inoltre – ci sia consentito sottolinearlo – per dismettere il luogo comune, purtroppo diffusissimo, per cui le BR sarebbero le principali responsabili della crisi del movimento operaio e di classe, sopraggiunta alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli ’80.

Movimento che muore – come d’altra parte chiarisce la stessa Balzerani – per cause diverse, indipendenti dalle BR. Le quali, al contrario, lo trainano, nel periodo di crisi, fin dove possibile, cercando un’uscita che, poi, né le BR né nessun altro ha trovato. Neanche tentando di abbellire, oggi, il proprio pezzettino di storia di allora!

Una storia dunque, quella delle Brigate Rosse, che, come dice Barbara:
«È parte integrante di quello scontro essendo nate in quelle fabbriche, in quei quartieri, in quelle piazze […] la scelta della lotta armata non era stata una fuga in avanti soggettivistica, ma una teoria e una prassi politico-militare necessaria a dare prospettiva strategica al corpo a corpo che quel movimento aveva innescato col potere padronale e statale e portato avanti durante quella lunga stagione di lotte. Le BR non avevano fondato la loro proposta politica su una prospettiva endemica di azioni militari, su una versione di sindacalismo armato o di giustizialismo.

Hanno condiviso le pratiche del soggetto rivoluzionario di riferimento e si sono armate di un’analisi concreta della ristrutturazione degli stati anticipando l’analisi della globalizzazione liberista (lo stato imperialista delle multinazionali) come riorganizzazione produttiva e di controllo sociale per il superamento delle crisi del capitale che presupponeva, oltre ai dispositivi economico-finanziari, la messa fuori gioco del conflitto di classe.

E così è andata. Dalla sconfitta alla Fiat in poi è stato un susseguirsi di battaglie perse e non si trattava di un passaggio di fase sfavorevole ma, soprattutto col cambiamento del contesto internazionale, della messa in causa del paradigma rivoluzionario del ‘900. Guerriglie comuniste comprese. Da questa consapevolezza è scaturita la presa d’atto dell’avvenuto esaurirsi delle condizioni che avevano dato origine alla scelta delle armi e dichiarammo conclusa la nostra militanza».
E proprio nell’intelligente capacità di fare autocritica, non solo rispetto all’esperienza delle Brigate Rosse – importante ma pur sempre circoscritta se paragonata al ben più grande alveo della storia del comunismo novecentesco – ma in merito all’intero paradigma rivoluzionario che, nel corso del secolo breve, ha portato ad imporsi, per la prima volta sulla ribalta della Storia, le istanze delle classi popolari – per poi venire, nella maggior parte dei casi, sconfitto o fortemente ridimensionato – in quella capacità autocritica, dicevamo, risiede il passaggio di maggior interesse dell’intervista.

Perché è qui che Balzerani, giungendo a criticare il concetto di tempo lineare – come fa, d’altronde, nei suoi libri – e le sue implicazioni progressive, quasi meccanicistiche, e mettendo in discussione, conseguentemente, addirittura uno dei pilastri teorici della dottrina marxiana, come lo sviluppo delle forze produttive, ci parla della possibilità di ricostruire una teoria e una prassi rivoluzionarie nel presente, tenendo conto degli errori del passato e rivisitando, criticamente, anche il nostro bagaglio culturale. Senza timori reverenziali per eventuali accuse di eresia.

Leggiamo:
«La teoria dello sviluppo delle forze produttive come fondamento strutturale del socialismo ha finito per assimilare al modello capitalistico il modo di produzione dei paesi usciti vittoriosi dallo scontro con l’imperialismo. Senza nulla togliere all’importanza delle rotture rivoluzionarie che hanno consentito al proletariato mondiale di essere protagonista di cambiamento e di governi rivoluzionari, mi sembra oggi necessario fare i conti con la nostra storia.

Più che dalla controffensiva del potere siamo stati sconfitti dalla debolezza del nostro impianto teorico e delle sue interpretazioni. Ecco perché è necessario ripercorrere una storia delle classi subalterne, perché aver pensato che tutta la ricchezza e la tecnica accumulate dal capitalismo – che trae la sua forza dallo sfruttamento di mano d’opera e risorse – potessero fornire le condizioni per un sistema basato sul benessere sociale, ha determinato la subalternità all’unico modello vigente.

Il taylorismo del modello Fiat, col corollario della subordinazione del lavoro manuale, è stato ampiamente adottato nella fabbrica sovietica e la pianificazione dell’economia non ha significato la pretesa superiorità del socialismo essendo rimasti inamovibili il partito e lo Stato a scapito della centralità dei soviet e delle strutture politiche di base.

Quel processo rivoluzionario è stato esemplare per rintracciare l’allontanamento dalla possibilità della transizione al comunismo, complici l’idea della neutralità della tecnica capitalistica e dello sviluppo lineare del progresso».
Si può essere, dunque, più o meno d’accordo con lei, ma bisogna riconoscere che Barbara Balzerani ci offre degli importanti ed ineludibili spunti di riflessione. Sul presente e sul futuro.

Ancor prima che celebrare, in chiave mitografica, la Balzerani quale guerrigliera delle BR, o plaudire entusiasti a quella gloriosa storia – i miti rischiano la museificazione mortifera – dovremmo dunque ringraziare Barbara per questo sguardo organico e dialettico sulla Storia, la Politica, il Tempo e le sue possibili fratture rivoluzionarie.

Un’autrice e una combattente che vuole condividere un sapere, ponendosi e ponendo domande senza la presunzione di dare risposte assolute.

Con la ferma intenzione di farne prassi di lotta per un mondo senza classi e senza stato. Oggi!

Buona lettura.

*****

Barbara Balzerani (1949), nata nella città-fabbrica di Colleferro da una famiglia operaia, arriva a Roma nel 1968, studia filosofia e partecipa al movimento studentesco. Milita in Potere Operaio fino al suo scioglimento, nel 1973.

Poi, nel 1975, la scelta della lotta armata nella sua maggiore organizzazione, le Brigate Rosse. Partecipa alla formazione della colonna romana di cui diviene dirigente. Nel 1978 partecipa al rapimento del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Nell’anno successivo entrerà a far parte dell’esecutivo nazionale delle BR.

Circa dieci anni di clandestinità e la gestione del periodo più difficile della storia brigatista, dal 1981, quello della crisi con la sua coda di scissioni, delazioni e dissociazione che attraversano l’organizzazione. Nello stesso anno, le BR-PCC di cui è dirigente organizzano il rapimento del generale della Nato James Lee Dozier.

L’arresto nel giugno del 1985 e diverse condanne all’ergastolo, trasformate, in seguito all’estensione della legge Gozzini a tutti i detenuti, in 26 anni di carcere, che per i prigionieri politici italiani è stato carcere speciale. Dopo aver dichiarato, nel 1988, insieme ad altri dirigenti BR, la fine dell’esperienza brigatista, sarà tra i promotori della “battaglia di libertà”, con la proposta di soluzione politica per chiudere il conflitto degli anni '70 e risolvere il problema dei prigionieri politici attraverso l’amnistia o l’indulto, una proposta sulla quale si discusse molto tra la fine degli anni '80 e gli anni '90, ma che non ebbe esito.

Infine la scrittura: il suo primo libro, Compagna Luna, è pubblicato nel 1998, quando è ancora in carcere. Ne seguiranno altri 5: La sirena delle cinque (2003), Perché io, perché non tu (2009), Cronaca di un’attesa (2011), Lascia che il mare entri (2014), e L’ho sempre saputo (2017). Il settimo libro, Lettera a mio padre, uscirà nel prossimo settembre, tutti editi da DeriveApprodi.

Per iniziare questa intervista, compagna Barbara, chiedo se per lei sia stata una scelta corretta quella di abbandonare la lotta armata a favore di una riflessione critica come risultato successivo all’abbandono della lotta armata e dell’esperienza militare?

Per capire bisogna fare qualche passo indietro e risalire al contesto in cui maturò la scelta della lotta armata. All’inizio degli anni ’70 il conflitto di classe in Italia aveva raggiunto un livello di maturazione tale da configurarsi come uno scontro di potere. Non maggioritario ma tale da diventare l’impedimento principale allo spensierato procedere dei piani padronali anti crisi. D’altra parte in nessun processo rivoluzionario è valso il principio del numero legale consentito.

Tutto era iniziato un decennio prima con le lotte degli operai delle fabbriche del nord. La crescita esponenziale della manifattura aveva richiesto una forte emigrazione di mano d’opera dalle regioni a tradizione contadina e nelle città industrializzate arrivò una gran massa di giovani operai senza mestiere, senza tessere, senza la familiarità con i patteggiamenti sindacali.

L’impatto fu durissimo e nulla facilitò la vita a quell’esercito di nuovi arrivati. L’accoglienza spesso impressa sui cartelli “Non si affitta ai meridionali” o “In questo bar non si servono i terroni”. Ritmi disumanizzanti, salari da fame, dormitori di fortuna, emarginazione sociale.

Tutte condizioni che fecero sì che, a partire dalle giornate torinesi di luglio ’62 a piazza Statuto a Torino, fu questa figura a inaugurare la lunga stagione dell’autonomia operaia che arginò l’egemonia del Pci sui movimenti e contrastò la gestione repressiva dei governi democristiani alleati con la destra.

Iniziò così il lungo ’68 italiano consolidato dall’alleanza con i figli delle famiglie operaie che avevano invaso le scuole superiori e le università e con i proletari che portavano avanti le lotte nei quartieri popolari. Spesso le diverse figure si sovrapponevano, studenti-lavoratori, operai occupanti di case, studenti riduttori di bollette, disoccupati e precari all’università a ricomporre saperi. E come in ogni stagione rivoluzionaria, una diffusa illegalità rivendicata e praticata.

Solo chi ha vissuto la cappa restauratrice degli anni ’50 può capire l’esplosione di energia trasformatrice che quelle tute blu aveva innescato. Volevamo tutto e sembrava che avremmo potuto averlo. Iniziò così una ricca stagione di conquiste che cambiarono radicalmente le dinamiche politiche, sociali e culturali tra le classi, con l’egualitarismo, l’aumento dei salari, la diminuzione dello sfruttamento, le garanzie sociali, il protagonismo di un nuovo soggetto antagonista.

Le lotte divennero sempre meno spontanee e più incisive, si formarono avanguardie e strutture organizzate. Dinamica che determinò l’attenzione e salutari fratture tra gli intellettuali di matrice marxista.

In virtù di tale sommovimento, la forza dell’opposizione di classe rallentò di un decennio la ristrutturazione della produzione e l’attuazione delle politiche neoliberiste provenienti da oltre oceano. Quelle elaborate dagli economisti della scuola di Chicago, imposte dagli organismi finanziari internazionali e inaugurate col sangue del colpo di stato in Cile e poi in Argentina.

Il Pci, il più forte partito comunista d’occidente, e il sindacato comunista, che intendevano rifarsi una verginità democratica sempre più lontana da Mosca, si posero fin da subito contro qualsiasi espressione di antagonismo alla sua sinistra, con ogni mezzo, fino ad affiancare polizia e magistratura, fino alla delazione.

Si candidavano a forza di governo assumendosi il compito di controllo e contenimento delle lotte, consapevoli di quanto innervate fossero nelle classi subalterne le posizioni più radicali che, dalle prime espressioni antagoniste spontanee si andavano organizzando attorno a una teoria pratica rivoluzionaria.

A completare il quadro e non da ultimo, va considerato il contesto internazionale, animato da guerre di liberazione, di decolonizzazione, di conquiste del potere e guerriglie comuniste. Il Vietnam vinceva la guerra contro il più potente paese imperialista. Come non pensare di potercela fare anche in Italia, “l’anello debole della catena imperialista”?

Il potere non stette a guardare e usò ogni strumento per bloccarci, dalle bombe, alle galere, ai licenziamenti politici. Finché il coagulo di condizioni favorevoli mutò fino a cambiare di segno negli anni ’80. I governi della Thatcher nel Regno Unito e di Reagan negli Stati Uniti ne sono l’esplicitazione più chiara: il conflitto andava definitivamente bandito, fin nella sua legittimità di essere concepito, con ogni mezzo a disposizione.

E ancora una volta le sirene della propaganda borghese fecero la loro parte, affiancando la repressione questurina degli uomini in divisa e non. Negli anni ’80 si orchestrò una campagna propagandistica del potere con un dispiegamento di forze mediatiche senza precedenti.

Dall’effimero, alla criminalizzazione della politica militante, alla “fine della storia” e alla celebrazione del “migliore dei mondi possibili”. Il neoliberismo globale celebrava i suoi fasti e la sua superiorità indiscussa sul blocco dei paesi socialisti sempre più in crisi. Che non fosse proprio così non cambia le cose.

Le BR hanno fatto parte integrante di quello scontro essendo nate in quelle fabbriche, in quei quartieri, in quelle piazze e la scelta della lotta armata non era stata una fuga in avanti soggettivistica ma una teoria e una prassi politico-militare necessaria a dare prospettiva strategica al corpo a corpo che quel movimento aveva innescato col potere padronale e statale e portato avanti durante quella lunga stagione di lotte.

Le BR non avevano fondato la loro proposta politica su una prospettiva endemica di azioni militari, su una versione di sindacalismo armato o di giustizialismo. Hanno condiviso le pratiche del soggetto rivoluzionario di riferimento e si sono armate di un’analisi concreta della ristrutturazione degli Stati anticipando l’analisi della globalizzazione liberista (lo stato imperialista delle multinazionali) come riorganizzazione produttiva e di controllo sociale per il superamento delle crisi del capitale che presupponeva, oltre ai dispositivi economico-finanziari, la messa fuori gioco del conflitto di classe.

E così è andata. Dalla sconfitta alla Fiat in poi è stato un susseguirsi di battaglie perse e non si trattava di un passaggio di fase sfavorevole ma, soprattutto col cambiamento del contesto internazionale, della messa in causa del paradigma rivoluzionario del ‘900. Guerriglie comuniste comprese.

Da questa consapevolezza è scaturita la presa d’atto dell’avvenuto esaurirsi delle condizioni che avevano dato origine alla scelta delle armi e dichiarammo conclusa la nostra militanza. Lo abbiamo fatto dopo la scadenza dei termini della legge sulla dissociazione perché intendevamo coinvolgere tutte le forze interessate a una “Battaglia di libertà” per la liberazione degli anni ’70 dalle ricostruzioni che ne avevano falsato la narrazione e dei prigionieri della lotta armata senza condizioni.

Pensavamo a un atto politico basato su un criterio oggettivo, non subordinato ad abiure né a sconfessioni del passato. Il nodo della prigionia politica non era stato risolto con le leggi premiali. Rimanevano le torture, le esecuzioni sommarie, le carceri speciali, centinaia di compagni con secoli di galera da scontare, altrettanti costretti alla latitanza o all’esilio, tanti altri sottoposti a misure restrittive e con un’ipoteca di carcerazione futura.

Questo a fare da intralcio alla rappresentazione di una società allietata da nani e ballerine, pacificata e prospera che si era liberata di 4 fanatici estremisti senza invalidare la sua natura democratica. Che era riuscita ad avere il riconoscimento del valore del suo modello sociale persino da parte di tanti che l’avevano combattuta.

Nella sostanza, da parte nostra si trattava di una discontinuità che imponeva una profonda riflessione critica, politica, teorica per superare le sconfitte, la crisi di identità e di progetto. Di oltrepassare una fase impedendo che del significato delle vicende politiche e sociali degli anni '70 non rimanesse traccia. Per un rinnovamento dell’agire politico e un nuovo protagonismo anticapitalistico non omologato all’esistente imposto dall’offensiva reazionaria degli anni '80.

Questo non per reducismo ma perché la difesa della memoria di quel conflitto era ed è uno dei terreni di guerra che il potere ha scatenato contro l’idea stessa di insubordinazione, memore di aver dovuto subire la dimostrazione della sua vulnerabilità in quei reparti, in quelle piazze, in quelle azioni di lotta armata.

Nonostante quella per la libertà sia stata un’altra battaglia persa credo che non ci si possa esimere da questo compito. Lo dimostra questo triste presente perché chi ha vinto non ha la ragione dalla sua e, paradossalmente, lo sta dimostrando oggi con maggior chiarezza.

La cessazione della nostra militanza nelle Brigate Rosse non è stata un atto consumato dentro segrete stanze per stanchezza o disillusione, ma una presa di responsabilità alla luce delle nostre scelte passate. All’epoca abbiamo pensato che ci fosse lo spazio per contribuire alla restituzione della storia di un conflitto di classe non certo secondario nella vita politica di questo paese.

Ricostruirne il contesto, prima di tutto superando le strettoie dei giudizi a priori e delle prese di distanze come condizione per poter liberare la parola dei prigionieri politici. Potevamo prendere atto di una sconfitta che non era solo nostra ma di un progetto rivoluzionario incardinato su un soggetto che aveva, con le sue lotte, scompaginato per un ventennio l’ordine sociale a partire dalle grandi fabbriche.

La sconfitta di quel soggetto politico è stata anche la nostra, in un quadro internazionale mutato e non in modo favorevole. È un lavoro di riflessione che continua, in un quadro di libertà di parola niente affatto scontato.

Nella sua recensione del suo libro “Compagna luna”, Alessio Spina afferma, che raramente i rivoluzionari descrivono in modo così intimo, dal profondo della propria anima, in forma di monologo, i propri ideali e istinti. Allo stesso tempo, chi cerca date o nomi in questo libro rimarrà deluso in quanto non ce ne sono. Perché il tempo del ricordo, il flusso di consapevolezza di chi eri e di chi sei ora, non può avere rigide strutture cronologiche. Aggiunge che ai lettori di Proust piacerà questo libro più degli storici e degli avvocati. È davvero così?

La strada che ho cercato per raccontare è stata quella di offrire la mia esperienza personale a chi potesse essere interessato a farsi domande più che avere già tutte le risposte. Soprattutto, nelle dominanti menzogne diventate senso comune, non mi interessava fare una disamina su fatti, cause, effetti, i come e i perché, né cercare giustificazioni di fronte all’accusa imperdonabile di aver messo a nudo un re detronizzato.

In tutta evidenza la condizione di “perdenti” comporta condizionamenti che deformano la parola fino a svuotarla. Io non cercavo un confronto con chi aveva già proclamato sentenze inappellabili. Né assoluzione postuma. Volevo trovare comunicazione, persino consolazione nella condivisione della memoria ammutolita di tante esperienze vissute.

Sapevo bene che mi sarei trovata di fronte all’interdizione del mondo letterario, quello che ha definito cortigianamente i margini stretti in cui può avventurarsi chi, come me, non ha diritto di parola. E infatti la censura è subito arrivata, per volontà di un noto intellettuale di sinistra e dell’editore Feltrinelli.

Quando ho cominciato a scrivere avevo ben presente questi vincoli, ma non immaginavo quanto pervasivi sarebbero diventati. Dopo gli anni di isolamento carcerario non sapevo a chi mi stavo rivolgendo, ma sapevo che avrei suscitato aspettative ineludibili.

Adesso che sta per uscire il mio settimo libro questo problema credo di averlo superato. E sono stati i miei lettori, i tanti compagni incontrati nelle presentazioni, i ragazzi che vogliono sapere, ad aiutarmi a farlo. Infatti grazie alle mie pagine ho scoperto di non essere la sola a pormi le stesse domande e a sentire la repulsione per una narrazione ufficiale che non coincide col sapere e con i ricordi di ciascuno. A prescindere dalle diverse modalità con cui ognuno ha contribuito a rendere tanto significativa quella lunga stagione di lotte. È un disagio che va approfondendosi a fronte di una versione dei fatti che va al di là della “storia scritta dai vincitori” e ha finito per somigliare all’imposizione di una pacificazione blindata ottenuta con la paura e la menzogna.

Ho fatto la scelta di una esposizione personale per poter riattraversare il mio percorso di vita e non solo la sua parte nota, costretta in una parentesi decontestualizzata. La ricostruzione di una fisionomia che avevo in comune con i compagni con cui ho condiviso la militanza. Compagni che venivano e vengono descritti come sagome vuote, come burattini appesi, come alieni venuti da chissà dove.

Volevo offrire il racconto sul come s’è compiuta la mia scelta politica, le mie origini sociali, le occasioni, la determinazione e la problematicità di un vissuto niente affatto scontato. Volevo raccontare come avevo approcciato le mie scelte e la fatica di rielaborarle. Non cercavo scusanti ma risposte a domande che quegli avvenimenti hanno lasciato aperte. Non volevo sostituirmi al compito degli storici, ma riempire di memoria personale il percorso e le ragioni di tanti e tante che hanno osato liberarsi dalla paura di sfidare il potere.

Tutto questo coincideva con la mia esigenza profonda di restituire senso a un pezzo della storia di questo paese ridotta a una vulgata deprivata di ragioni sociali e una condanna a senso unico. Scrivere è stato il racconto di un viaggio di ritorno che ha previsto prendere distanza dal contingente che nulla può spiegare se non dentro una storia più lunga che ci precede e ci sopravvive. Una storia che spesso si trova scritta più nelle pieghe della materia vivente, quella che non cambia versione a seconda delle stagioni.

È stato così che mi sono ritrovata a rivolgere le mie mute domande alla luna nella deprivazione del suono della libera lingua umana. Per questo uso le storie che conosco, direttamente vissute o tramandate. Per tracciare le vite delle persone in carne e ossa perché una faccia, un nome, delle tracce d’esistenza non vengano annullate in una massa senza volto e senza identità.

È vero che non abbiamo esperienza diretta di tutte le vicende che pur possono aver lasciato un’impronta sulla coscienza di ciascuno di noi, ma possiamo imparare a comprenderne il significato se ne traduciamo l’impersonale racconto che ne fa la “Storia” in tante piccole storie di esistenza concreta.

È un punto di vista, un modo per entrare nelle vicende collettive di chi non ha potere e quasi sempre subisce le decisioni di chi governa il susseguirsi della Storia e porta sulle spalle tutta la fatica del suo compiersi.

Ricordo bene le espressioni che mia madre aveva in viso quando tornava dal turno di fabbrica. La fatica, la rabbia repressa, lo scendere a patti con l’aver perso ogni altra sua abilità cancellata dai ripetuti gesti comandati dalla macchina.

In seguito, sui testi di Marx ho studiato l’alienazione del lavoro salariato e non ho avuto difficoltà a capire. Come fosse qualcosa di familiare, incarnata sul viso di mia madre.

È un’altra storia, un’altra cultura quella dei subalterni. Va conservata e difesa dalle tossine della “memoria condivisa” che entrano in circolo e sgretolano l’immunizzazione dalle ragioni e dagli interessi del potere. Raccontati come inevitabile evoluzione verso il progresso che il capitalismo incarna.

Combattere questo strumento di disarmo della coscienza di sé del proletariato non è reducismo nostalgico, né riproposizione del mito di un futuro messianico rivoluzionario. È un collocarsi nell’incedere di una Storia che non inizia e finisce con ciascuno di noi.

Che non procede linearmente, ma a strappi e rotture che maturano ed esplodono per dinamiche che sfuggono a ogni previsione. Che è una ininterrotta sequenza di potenzialità inespresse e il loro contrario. Che è la concezione del presente rivoluzionario come riscatto della storia dei vinti.

Viviamo in un’epoca di revisionismo post-revisionista della Storia, dove vengono eliminate tutte le tracce dei conflitti di classe della società capitalista. Fino a che punto questa tendenza è oggi un pericolo per la memoria collettiva del proletariato, che ha vinto le sue lotte attraverso la lotta dei lavoratori nelle sue fabbriche?

La storiografia ufficiale si è attrezzata a riscrivere gli avvenimenti non solo dal punto di vista dei vincitori, che non sarebbe una novità. Non si limita a celebrarne le ragioni e la legittimità di esistenza. Non a descrivere l’esito dei conflitti del ‘900 con l’ottimismo grottesco del dottor Pangloss e il capitalismo come unico sistema sociale in grado di garantire benessere e libertà. Non a confutare idee e pratiche, condannandole all’inconsistenza quando non al pensiero insensato e delinquenziale. Non a sottoporre a critica o condanna tutto ciò che si è opposto ai padroni del mondo.

Superata persino l’equiparazione tra forze contrapposte come il comunismo e il fascismo, i nuovi dispositivi su cui si basa il lavoro di tanti storici sono la negazione dell’autenticità dei fenomeni politici rivoluzionari.

Come nelle guerre invisibili del colonnello Buendia, la narrazione prevalente si basa su illazioni, sentiti dire, falsificazioni, dimostrazioni a posteriori della vulgata della propaganda del potere. I fatti, anche se ampiamente documentati, ignorati o snaturati. Pubblicazioni, trasmissioni televisive, lezioni e conferenze, commissioni parlamentari, incessantemente, da decenni, sostengono una verità sempre più sbrindellata, senza timore di incoerenze evidenti.

L’importante è dichiarare che non c’è stato alcun conflitto, ma isolati atti di criminalità sostenuti e organizzati da forze occulte contrarie alle istituzioni democratiche. I numeri, la durata del fenomeno, le testimonianze, le ricerche documentate, non turbano i sonni dei sostenitori del complotto che, a distanza di decenni, in un clima quasi unanime di pacificazione forzata, non cessano di agitare i vessilli della dietrologia per dimostrare che, nel migliore dei mondi possibili, la rivoluzione è impresa impraticabile e, quando viene tentata, è merce avariata e eterodiretta, frutto di manovre reazionarie.

È una storiografia fondata sui concetti da sacrestia di innocenza dei vincitori e colpevolezza dei vinti, di vittime e carnefici, di condanne perpetue e perdonismo. Ma, soprattutto, è uno strumento per il governo del presente, in cui il livello raggiunto dalla repressione non ha riscontro con la capacità di esprimere conflittualità da parte dei movimenti mentre mostra con sempre maggiore evidenza il portato di miseria e morte del sistema che sta dominando il mondo.

La lotta armata in Italia durata dalla fine degli anni ’60 fino alla fine degli anni ’80, si riduce a un solo evento storico, il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse. Una storia imperialista che cerca di trasformare la Storia a proprio vantaggio. Una narrazione così ufficiale riuscirà a cancellare vent’anni di incessanti lotte di classe nel paese, quando cesserà la memoria partigiana di persone come te?

Aver ridotto quella storia a un solo episodio, infarcendolo di falsità, misteri e presenze segrete, è l’approdo di quanto si diceva prima. L’attacco alla DC, nella persona del suo presidente e massimo ideatore della “solidarietà nazionale”, è descritto come un pessimo film di spionaggio in cui un manipolo di esaltati una mattina di marzo arrivano a via Fani, uccidono cinque uomini della scorta, catturano Aldo Moro e lo tengono prigioniero per il tempo in cui si intrecciano le manovre dei ricatti incrociati e dei colpi di mano dei poteri occulti di mezzo mondo.

In questa ricostruzione non appare nessun interesse per il clima politico e la contrapposizione esistente nel paese che ha reso possibile alle BR di arrivare a quel livello di scontro. Nessun accenno al fatto che il patto di non belligeranza tra i due maggiori partiti politici italiani avrebbe chiuso definitivamente ogni spazio di opposizione conflittuale.

Un fermo immagine senza un prima né un dopo, a dimostrazione di un nemico arrivato da una realtà aliena senza alcun legame con la storia sociale e le contraddizioni di questo paese. In verità, una guerriglia urbana in un paese a capitalismo avanzato e a democrazia parlamentare, non sarebbe durata tre giorni se non avesse goduto del consenso e dell’appoggio di una parte consistente di quel vasto movimento di classe contro cui si è abbattuto l’abbraccio reazionario del Pci con la Dc e Confindustria.

Ma questo non giova a chi lavora per negare l’idea stessa della possibilità di cambiamenti radicali. La costruzione mediatica di questo rozzo ma funzionale anticorpo non fa che eseguire la sentenza per il nostro impronunciabile reato: quello di aver dimostrato la vulnerabilità del potere ai suoi massimi livelli.

È straordinario come non venga formulato nessun interesse sulle reali cause della nascita e del perdurare della lotta armata in questo paese e tutto si traduca in reiterati quanto sempre più deformati nessi e particolari torbidi. La menzogna eretta a sistema non ha neanche bisogno di essere dimostrata. Cos’altro può essere più assolutorio per il potere del raccontare una stagione di aspra e prolungata conflittualità come macchinazioni di servizi segreti?

Che, a partire dai dati del ministero degli Interni, nel ’79 ci fossero 269 gruppi armati, che gli inquisiti per banda armata fossero stati 36.000 di cui 6000 condannati a molti anni di carcere speciale, non ha mai influito sulla versione ufficiale.

Che il numero dei prigionieri politici in quegli anni sia stato più alto di quello durante il regime fascista, non ha posto domande agli storici, ai giornalisti, agli intellettuali, con poche e trascurabili eccezioni. Impegnati come sono al fiancheggiamento delle politiche repressive che colpiscono con durezza, in un evidente disequilibrio di forze in campo.

Per questo l’esercizio della memoria è diventato un terreno di scontro, perché non vada perduto un patrimonio politico che in quegli anni ha significato la più importante occasione di cambiare lo stato delle cose presenti. La portata della sconfitta nulla toglie al suo valore, al contrario dovrebbe essere uno stimolo per riprendere il cammino di liberazione alla luce del suo riattraversamento critico.

Per questo penso che scrivere di un’esperienza come la mia possa servire alle nuove generazioni, perché il presente non è caduto dal cielo ma è la conseguenza di ciò che abbiamo alle spalle, dell’esito delle battaglie del passato. Lo credo perché l’attuale bombardamento mediatico sulla opacità della storia delle BR non è altro che un monito per il presente. Faccia complementare della repressione armata e tribunalizia scatenata contro i movimenti attuali. Strumenti dissuasivi per ogni tentativo di critica pratica del presente.

Lo credo perché è fondamentale l’analisi del contesto sociale-politico-culturale in cui vivono, si sviluppano e muoiono i cicli di lotte e i tentativi di “assalto al cielo”. Perché bisogna rinnovare la propria “cassetta degli attrezzi” per approcciare il “che fare” adeguato alle condizioni storiche che si attraversano. Lo credo perché l’alternativa tra il “non si può fare nulla” e pensare di ripercorrere strade buone per altre stagioni non porta da nessuna parte.

In che modo oggi la nuova generazione della sinistra italiana vede questi vent’anni di guerriglia marxista in un paese che aveva una democrazia distintamente parlamentare e un’economia capitalista avanzata?

Quello della “sinistra” è un ambito molto variegato. Non mi riferisco ovviamente a quella istituzionale che sta dando prova di aver raccolto degnamente l’eredità dei suoi padri fondatori nell’ingabbiare e dividere i movimenti, con la cooptazione istituzionale e la contrapposizione tra “buoni e cattivi”.

In questa situazione di debolezza e di difficoltà di intravedere una prospettiva praticabile, queste forze hanno la responsabilità di firma su alcune delle leggi più reazionarie in vigore, dalle “riforme” del mercato del lavoro alle disposizioni in ambito della legalità e sicurezza, in competizione con le destre soprattutto sui temi che raccolgono più consensi elettorali come il contrasto all’emigrazione.

La fine dell’ultimo grande movimento, quello no global, ha lasciato un grande vuoto di progettualità, riempito con generosità da compagni che si stanno misurando con un livello repressivo fuori misura. Le caratteristiche attuali dello scontro nelle sue specificità più incisive, sia si tratti della difesa dei territori, di modelli sociali comunitari inclusivi, sia delle condizioni di vita e di lavoro più precarizzate, stanno costruendo un tessuto di alleanze, di pratiche e di idee forti che toccano i nervi scoperti di questo sistema di potere, qui da noi come in più parti del mondo.

In questo contesto completamente cambiato i compagni, giovani e meno, interessati alla storia della guerriglia comunista, leggono la memoria degli anni '70 come la necessaria elaborazione di una sconfitta che ha coinvolto tutti e ha ipotecato il futuro di tutti.

Pur essendosi spezzato il “filo rosso” intrecciato con i tanti tentativi di “assalto al cielo” del ‘900, nulla toglie che da quella lunga tradizione di pensiero e pratiche rivoluzionarie, di dimostrazione di vulnerabilità del potere anche ai suoi massimi livelli, ci sia ancora molto da imparare. Almeno quanto da superare.

Di certo il nostro è stato un modello rivoluzionario non replicabile nelle nuove condizioni e questa convinzione è stata la motivazione principale della nostra dichiarazione di chiusura di quell’esperienza. La dimostrazione di questo sta anche nella inefficacia dei tentativi di darle continuità da parte di gruppi di compagni che hanno riproposto lo stesso schema a cavallo del nuovo millennio.

E non perché gli obiettivi delle loro azioni non rappresentassero i responsabili dell’attacco padronale alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, ma perché quella delle BR non è stata una sequela di colpi di pistola, ma una strategia politico-militare non replicabile in assenza delle condizioni che l’hanno legittimata socialmente.

Cosa consegna alle nuove generazioni? Chiedi. Per quanto mi riguarda principalmente la condivisione, quando si riesce a costruirla, della difesa di una storia dalle manipolazioni di chi aggiunge a scadenze stagionali nuove travi di sostegno a un sistema impresentabile.

Ormai la sciatteria con cui si propongono nuove “rivelazioni” è pari solo al disatteso obbligo di dimostrazione di chi se ne fa strumento. Siano “pentiti”, giornalisti, politici, poco importa. A regolare scadenza si aprono i saldi di stagione e partono le campagne diffamatorie come se gli avvenimenti di 40 anni fa fossero fatti di cronaca corrente da cui dipende la risoluzione dei gravi problemi che la società attuale ha di fronte. Come se l’arresto di un latitante ultrasessantenne a “babbo morto” sia un interesse vitale per quanti oggi stentano a mettere insieme il pranzo con la cena.

Aspettarselo è un conto, fare i conti col livello di mistificazione e bombardamento mediatico è tutta un’altra faccenda. L’operazione di cancellazione va di pari passo con un analfabetismo di ritorno che è andata in profondità e, soprattutto nei riguardi delle nuove generazioni, va nel senso di azzeramento dello spirito critico che nasce dalla conoscenza.

In ogni caso sottrae elementi importanti di comprensione del mondo attuale che l’esito di quello scontro ha contribuito fortemente a configurare. Per questo tenerne viva la memoria può contribuire a trarre forza e comprensione maggiore di questo presente che ci tocca attraversare.

Come diceva Rodolfo Walsh, militante dei Montoneros ucciso durante l’ultima dittatura argentina, il potere ha sempre cercato di fare in modo che i lavoratori non avessero storia: “Ogni lotta deve cominciare di nuovo, separata dalle lotte anteriori, l’esperienza collettiva si perde, le lezioni si dimenticano. La storia appare così come proprietà privata, i cui padroni sono gli stessi padroni di tutte le altre cose”.

È un insegnamento sempre valido: non delegare e non credere mai che non si possa fare niente per provare a cambiare lo stato presente delle cose, anche quando la rivoluzione non è all’ordine del giorno.

L’unica cosa che mi sento di dire a chi non c’era è che il mondo in cui sono nati non è l’unico possibile. È solo l’ultimo e forse il peggiore. Che è loro interesse sanare la cesura di memoria, perché recuperando esperienza e sapere, ci si rafforza con le armi della critica e si guadagnano nuovi compagni di viaggio per rendere realistica l’utopia di umanizzare una società divisa in classi.

Le rivoluzioni del ‘900 sono state battute ma ci hanno lasciato qualche strumento in più per affrontare le lotte future. Il nemico non è invincibile, anche se spesso può sembrarlo e non lo si batte mai una volta per tutte.

Certo è che non è tutto finito. Oggi nel mondo assistiamo a processi di lotte che stanno mettendo in causa il modello sociale capitalistico che, proprio nel momento in cui sta dominando il mondo, sta dimostrando di essere entrato nella sua fase di decadenza, avendo perso ogni sua spinta innovatrice ed essendo portatore di impoverimento e distruzione delle condizioni di vita nel pianeta. Così come la democrazia formale sta dimostrando a pieno la smentita delle sue stesse motivazioni di esistenza come accreditato governo del popolo.

Oggi assistiamo a espressioni di antagonismo radicale e costruzione nella lotta di alternative di sistema, differenziate nelle forme (armate o no), dal ventre della bestia alle periferie dell’impero. Tutte sostenute dai principi dell’autogoverno, dell’economia comunitaria, del mutuo soccorso. La non delega e l’azione diretta responsabilizzano e restituiscono la libertà di scelta sulla propria esistenza e quella della comunità di pari a cui si appartiene.

Libertà che i partiti e le tante forme organizzative che fanno da mediazione con i centri decisionali nelle nostre società “evolute” hanno completamente svuotato di capacità di incidere. Molto di tutto questo rimanda alla tradizione assembleare, collettivistica, extraistituzionale e illegale di massa che ha reso possibile la forza, la durata e la legittimazione sociale della sovversione degli anni ’70. Da qui si potrebbe ripartire.

In un’occasione, hai affermato che tra di voi nelle Brigate Rosse non c’era un solo intellettuale ben noto che avesse la capacità indiscutibile di analizzare la trasformazione dello Stato e la globalizzazione dell’economia. Perché oggi, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, l’élite accademica e intellettuale sta cercando di imporre la propria autorità attraverso un “monopolio sulla conoscenza”, e quindi appropriarsi del diritto a una lotta rivoluzionaria, senza offrire istruzioni e un piano d’azione?

Uno dei segni fondativi della nostra organizzazione è stata l’unità del politico-militare, non solo come scelta strategica organizzativa, ma anche come cifra identificativa dei militanti. In questo senso non c’era chi pensava e chi agiva, una direzione politica che dettava la linea e una schiera di militanti che la attuavano. Tutti facevano tutto.

Anche esagerando. Come Prospero Gallinari che è stato ferito gravemente e arrestato mentre cambiava la targa a un’auto rubata. In quel momento quello c’era da fare e lui, uno dei dirigenti più ricercati d’Italia, l’ha fatto.

L’organo massimo di elaborazione della linea politica era la Direzione strategica a cui partecipavano compagni clandestini e militanti legali di brigata, delegati dalle colonne. Non c’era posto per gli intellettuali disabituati all’azione e al lavoro politico e infatti non ci sono stati. Ma questo non ha significato incapacità dell’organizzazione di elaborare analisi complesse come quella che citi che nessun centro studi accreditato era in grado di fare.

Infatti mentre ancora nella intellighentia di sinistra si ragionava di Stato-nazione, un gruppo clandestino elaborava la concezione della multinazionalizzazione del capitale. Che avessimo nella pratica interpretato questa intuizione come fatto avvenuto e non come processo in divenire, nulla toglie alla sua importanza.

Questo ha significato che un’organizzazione composta da operai e proletari può promuovere conoscenze, sapere e intelligenza teorico-pratica ad alti livelli, incomparabili con la pura accademia. Sarà per questo che il potere impedisce in ogni modo la ricomposizione del lavoro manuale con quello intellettuale?

Un’altra cosa che devo sottolineare è la questione del femminismo, che tu dici non era un riferimento delle Brigate Rosse, perché per le Brigate Rosse i riferimenti erano lotte che cercavano potere, verso lo scioglimento del sistema capitalista, e il femminismo non era quello. Che giustamente dici è un movimento per l’emancipazione delle donne che essenzialmente non è interessato alle differenze di classe perché non combatte il capitale, il che è del tutto vero, anche se sappiamo che il patriarcato è uno dei pilastri del sistema capitalista. Pertanto, oggi stiamo assistendo al fatto che il femminismo è il privilegio di una ricca società della classe media, come afferma la famosa femminista Camille Paglia. Quanto è reazionario questo tipo di “lotta” che serve solo come decorazione per la sinistra di oggi?

Il femminismo, come fenomeno di massa, esplode in Italia nei primi anni ’70. La crisi della sinistra extraparlamentare, a fronte dell’acuirsi dello scontro, aveva aperto uno spazio di dibattito politico circa la necessità della scelta armata, non più come prospettiva avveniristica, ma come questione non più rimandabile. Scelta che molti compagni e compagne fecero non essendo mai stato un tabù neanche in precedenza.

Spesso nel cammino di liberazione delle classi subalterne si è raggiunta la coscienza della non riformabilità del sistema dominante, ma solo in alcune occasioni si è verificata un’ampia disponibilità ad attaccarlo per distruggerlo. E, in quegli anni l’occasione c’è stata.

In questo contesto molte compagne decisero di aderire al movimento femminista, un movimento non violento, interclassista, emancipazionista, finalizzato ai diritti civili e alla tutela delle donne come soggetto debole.

Un movimento che trovava adesioni nei gruppi sociali medio alti, in ambito accademico e intellettuale e che non aveva alcun legame con le donne proletarie. Questo almeno nella sua rappresentanza maggioritaria, non a caso quella più legata ai partiti della sinistra istituzionale. Quella che ha messo a frutto maggiori conoscenze e capacità e una privilegiata collocazione sociale per una qualche riparazione alle disuguaglianze di genere e l’interesse al mantenimento del sistema sociale dominante in cui assicurarsi posizioni di carriera, visibilità, riconoscimento.

Altre compagne sono riuscite a coniugare anticapitalismo e femminismo senza riuscire, se non in termini minoritari, a spostare la contraddizione, quando non la rottura, con le militanti della lotta armata, definite subalterne alla “politica dei maschi” e persino senza alcuna coscienza di appartenere al genere femminile.

E la scarsa considerazione era reciproca visto che le BR non erano un’organizzazione interessata a ogni movimento politico che si manifestasse nella società, ma solo a quelli che esprimevano un chiaro contenuto di lotta per il rovesciamento del potere dominante.

Che il sistema capitalista abbia perfezionato la forza del patriarcato e se ne sia fatto un pilastro è certamente vero. Le donne dovrebbero avere un interesse massimo per l’abbattimento del capitalismo perché è l’ostacolo maggiore alla loro liberazione.

Questo sembrano averlo capito molto bene le donne appartenenti alle periferie del mondo globalizzato che fanno vivere nelle lotte anticapitalismo, antirazzismo e questioni di genere. Che possono dare un contributo anche alle riflessioni di noi occidentali per liberarci dai residui di colonialismo politico che il '900 delle rivoluzioni ha portato con sé non riuscendo a individuare i pericoli della centralità che ci siamo attribuiti. Anche riguardo alle questioni della liberazione delle donne.

Quanto all’esercizio della violenza, certo femminismo ne ha fatto un problema di riproduzione del modello maschile da disturbo mentale e comportamentale. Il punto vero è l’idea per cui l’esercizio della violenza, e soprattutto quella femminile, in contesti democratici non sia ammissibile. Da questo strabismo deriva che il capitalismo non è più combattuto come il sistema che più ha perfezionato il servilismo delle donne e che, con qualche ritocco, si potrebbe sanare la loro mancanza di libertà e di autonomia.

Per raggiungere questi obiettivi al massimo si ritiene necessaria una battaglia culturale, simbolica, che il sistema è in grado di accettare, persino adulare, per meglio assorbirla e neutralizzarla.

Al contrario, secondo la mia esperienza, è proprio in condizioni particolari come la clandestinità, la galera, le “deviazioni” dalle norme, che sono più possibili percorsi di liberazione femminile in virtù della non vigenza dei ruoli mercificati che il potere impone. In ogni caso non esiste un solo “femminismo” ma diverse sue interpretazioni e pratiche. E anche in questo l'autodeterminazione, la non delega, la dimestichezza con l’illegalità, la difesa del sapere femminile, l’autodifesa e il rifiuto delle tutele, la scelta di classe e l’internazionalismo fanno la differenza.

Ragionando in termini più materialistici e ricordando che i modelli sociali sono storicamente determinati possiamo mettere in evidenza che nel cammino dell’umanità le donne non sono sempre state l’angelo del focolare, destinate per “natura” a creare la vita e quindi incapaci di combattere per la propria libertà.

Lo sono diventate quando sono state estromesse dalla gestione delle attività produttive e dalla signoria dei saperi necessari alla vita collettiva, che ha significato anche la perdita della capacità di conduzione delle comunità, cioè della cosa pubblica, cosa che è tutt’altro dalle “quote rosa” e dagli spazi benevolmente concessi. E meno che mai dall’esercizio del potere di donne che il capitalismo consente.

Il problema vero riguarda la fatica delle donne di poter esprimere la propria autodeterminazione in un mondo fondato sulla loro debolezza. Fatica che può essere superata solo abbattendo le regole del gioco e ponendosene fuori. Ma non per tutte la fatica è la stessa e il potere ha spesso un volto di donna.

Ma parlare di “donne”, come genere indifferenziato, ha prodotto identità come quelle di portacqua dei partiti o quelle che mettono insieme la Bonino, le clintoniane americane e le combattenti del Rojava.

Per questo non esiste un unico femminismo, esistono diversi modi di affrontare e, soprattutto, esercitare la libertà femminile contro il sistema capitalistico. Tenere massimo conto dei percorsi delle donne su cui il potere si è abbattuto con maggior violenza potrebbe essere un primo passo.

Il paradigma rivoluzionario contro il sistema capitalista è ancora rilevante oggi, tenendo presente la militarizzazione della società attraverso un unico dominio, il patto militare NATO, che mantiene uno stato di guerra permanente?

A fronte della sconfitta delle rivoluzioni del ‘900, dell’arretramento del campo socialista e della mancata transizione a una società senza stato e senza classi, non credo ci si possa sottrarre da una riflessione critica di quel paradigma rivoluzionario e, soprattutto, delle sue interpretazioni.

La teoria dello sviluppo delle forze produttive come fondamento strutturale del socialismo ha finito per assimilare al modello capitalistico il modo di produzione dei paesi usciti vittoriosi dallo scontro con l’imperialismo.

Senza nulla togliere all’importanza delle rotture rivoluzionarie che hanno consentito al proletariato mondiale di essere protagonista di cambiamenti e di governi rivoluzionari, mi sembra oggi necessario fare i conti con la nostra storia. Più che dalla controffensiva del potere siamo stati sconfitti dalla debolezza del nostro impianto teorico e delle sue interpretazioni. Ecco perché è necessario ripercorrere una storia delle classi subalterne, perché aver pensato che tutta la ricchezza e la tecnica accumulate dal capitalismo – che trae la sua forza dallo sfruttamento di mano d’opera e risorse – potessero fornire le condizioni per un sistema basato sul benessere sociale, ha determinato la subalternità all’unico modello vigente.

Il taylorismo del modello Fiat, col corollario della subordinazione del lavoro manuale, è stato ampiamente adottato nella fabbrica sovietica e la pianificazione dell’economia non ha significato la pretesa superiorità del socialismo essendo rimasti inamovibili il partito e lo Stato a scapito della centralità dei soviet e delle strutture politiche di base.

Quel processo rivoluzionario è stato esemplare per rintracciare l’allontanamento dalla possibilità della transizione al comunismo, complici l’idea della neutralità della tecnica capitalistica e dello sviluppo lineare del progresso.

Cernobyl, la collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione accelerate, la modellazione a sua immagine e somiglianza dei processi rivoluzionari e dei partiti comunisti fratelli, l’internazionalismo coniugato in divisione delle zone di influenza tra i due blocchi, la centralizzazione degli organismi di governo non hanno certo giovato all’esito positivo del paradigma anticapitalistico.

Come non capire che il nostro relativo benessere (relativo, perché sempre dipendente dalla capacità di strapparlo ai padroni) è reso possibile dallo stato di sfruttamento e miseria e di rapina delle risorse dei paesi vergognosamente descritti come “in via di sviluppo”?

Le differenze sono talmente grandi da non poter essere colmate. Su questo disequilibrio si basa l’accumulo di ricchezze dei paesi occidentali e l’abbaglio di poterne fare la condizione del futuribile mondo socialista. Basti pensare che un abitante del Madagascar ha a disposizione 10 litri di acqua al giorno e uno degli Stati Uniti 425 per rivedere in senso critico le convinzioni che sono state alla base della concezione della storia come una successione lineare di stadi, in cui quello successivo è necessariamente superiore al precedente.

Per valutare se c’è stato un effettivo progresso occorre dimostrare chi ne ha giovato e a danno di chi. Il meccanicismo economicista arriva persino a “giustificare” la distruzione di intere civiltà e la non significanza di differenti sistemi sociali in base al grado di sviluppo delle forze produttive come necessità storica e prezzo da pagare all’affermazione del socialismo.

Si poteva fare meglio in quelle condizioni di scontro frontale con la borghesia imperialistica? L’interrogativo rimane, ma più importante è setacciare tra le macerie e distinguere quelli inservibili dai buoni materiali. Perché non sono venute meno le ragioni su cui quel paradigma si fondava, bensì la fede nelle magnifiche sorti e progressive, lo sviluppo lineare ed evolutivo e la certezza dell’universalità della nostra idea di percorso di liberazione che è stata fatta coincidere con quello dell’umanità intera.

Se la politica è solo pragmatismo, allora la lotta rivoluzionaria è esclusivamente una lunga e ampia osservazione e strategia, ma che il numero di fucili non è l’unico fattore determinante per il successo del movimento rivoluzionario del popolo, afferma il nostro amico Yoma Sison, leader del Partito comunista delle Filippine. Innanzi tutto, stiamo parlando dell’emancipazione culturale, ideologica-politica e sociale e dell’educazione degli operai e dei contadini, cioè dell’intero proletariato. Quindi, è questo il dannato duro lavoro oggi nell’era di un sistema tecnico-tecnologico e informativo globalizzato per creare l’opinione pubblica?

Credo che anche l’idea di una prerogativa pedagogica delle avanguardie e dei partiti vada ripensata depurandone l’aspetto duale, di delega e rappresentatività. Come in tutti gli esordi dei processi rivoluzionari del passato, le rivolte più significative oggi nel mondo parlano il linguaggio della democrazia diretta e dell’autogoverno, della responsabilizzazione di chi partecipa alle lotte e nelle comunità di resistenza come protagonista e soggetto attivo nelle scelte circa il proprio destino, la propria vita, la propria capacità produttiva.

L’emancipazione a tutti i livelli è ancora una volta il risultato, ieri come oggi, di un percorso di valorizzazione e attualizzazione del sapere tramandato e acquisizione di capacità di partecipazione alla vita politica collettiva. Come ci insegnano le donne zapatiste che hanno riconquistato un ruolo centrale, politico e organizzativo, nella vita comunitaria. Ruolo che si erano viste strappare dagli eserciti arrivati a portare la civiltà dei padri bianchi.

Nel “comunismo comunitario” zapatista è racchiuso il mondo nuovo per cui queste donne sono uscite dalle loro case e da ruoli subordinati, un mondo in cui è bandita l’oppressione classista, di genere e di etnia.

Chiunque abbia partecipato alle lotte libere dal controllo delle burocrazie politiche e sindacali sa quanto sia fondamentale, anche per la propria crescita, cimentarsi con i processi decisionali collettivi. E quanto questo spinga a superare l’iniziale spontaneismo delle pratiche per armarsi di analisi, strategie, prospettive, organizzazione.

I movimenti che creano egemonia culturale rivoluzionaria non sono costruiti a tavolino come quelli di opinione. Nascono, quasi sempre imprevisti, “nelle circostanze determinate dai fatti e dalle tradizioni”, come Marx ci ha insegnato. Precedono la teoria e si rafforzano marciando sulle proprie gambe. Usano gli strumenti di difesa e offesa legittimati socialmente dalle condizioni oggettive e soggettive dello scontro perché che sia la politica a guidare il fucile è sempre stato vero.

Lucio Lombardo Radice, un noto teorico PCI, un esperto di dialogo marxista con i cattolici afferma; secondo l’articolo 2 dello Statuto del PCI, l’insegnamento del marxismo come visione del mondo e come teoria sotto forma di studio e direzione dello sviluppo sociale nella direzione di una società socialista democratica, aperta e libera non deve essere dogmatico. Pertanto, quel marxismo come metodo e scienza della storia non deve assolutamente essere un insegnamento filosofico, ma storico, che deve essere libero dal dogmatismo. In che misura un’interpretazione così arbitraria del materialismo dialettico ha contribuito a scelte reazionarie di alcune persone come Palmiro Togliatti, che come ministro della giustizia nel primo governo del dopoguerra ha graziato molti fascisti, ma anche Berlinguer dopo uno storico incontro con il democristiano Moro, deviando dal marxismo scientifico?

Il marxismo è stato un metodo di analisi scientifica della struttura capitalistica finalizzata a costruire le basi teoriche del comunismo, ossia del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Come tale va da sé che non debba subire un’interpretazione dogmatica, secondo una accezione alta del concetto di scienza che dovrebbe essere tutt’altro che meccanicista, fideistica, infarcita di assoluti.

Detto ciò le scelte politiche del PCI di Togliatti, anche imposte da Mosca che non voleva turbare l’equilibrio di zone d’influenza dopo la seconda guerra, credo c’entrino poco con gli artifici dialettici delle disposizioni di partito. Anche perché, per tacitare la base riottosa al disarmo, Togliatti fu maestro di doppiezza tra l’agitare l’insurrezione nelle piazze e l’agire nelle istituzioni come forza democratica tra le altre.

L’abbandono del campo rivoluzionario e la lunga marcia nelle istituzioni sono stati scientemente perseguiti e questa è stata la cifra politica del più grande partito comunista d’occidente e anche la ragione del suo atteggiamento avverso a ogni movimento che non riusciva a controllare.

Il PCI, a partire da Gramsci, passando per Togliatti, Berlinguer, fino a D’Alema e Zingaretti, ha subito drastici cambiamenti ideologico-politici. Da un partito rivoluzionario che avrebbe dovuto guidare il popolo italiano nella lotta contro il fascismo, si trasformò in un puro surrogato della borghesia italiana, che rappresentava i suoi interessi. Secondo te, la lotta al capitale attraverso le istituzioni oggi è più difficili o forse non c’è mai stata?

Nel corso degli anni è cambiata anche la composizione sociale del partito, con una prevalenza degli interessi dei ceti medio-alti sia nel corpo elettorale sia nella dirigenza. Berlinguer con il consociativismo, la scelta di campo occidentale, l’appoggio alle politiche antioperaie e di contenimento dei salari è stato il dirigente che più ha contribuito alla veridicità della affermazione di Agnelli per cui “per fare una politica di destra occorre un governo di sinistra”.

D’Alema ha portato a compimento la scelta dell’ombrello Nato con la partecipazione alla guerra nella ex Jugoslavia e Zingaretti è l’emblema disperante del “meno peggio”.

Solo pochi mesi fa, eri il bersaglio di un attacco da parte dei media imperialisti, dopo che un post era stato pubblicato sul tuo profilo Facebook ufficiale in occasione del 40 ° anniversario dell’omicidio del tuo amico Riccardo Dura a Genova. Tali attacchi pubblici orchestrati, così come la cancellazione di innumerevoli presentazioni dei tuoi libri in tutta Italia, da parte della borghesia italiana, possono spezzarti completamente dopo 26 anni di silenzio del sistema penitenziario?

La recrudescenza degli attacchi nei miei confronti ha radici lontane. Il mio primo libro, Compagna luna, fu messo all’indice da Antonio Tabucchi, che mi costò la messa alla porta da parte della casa editrice Feltrinelli. L’ineffabile professore non si è limitato a una critica, sempre legittima, del mio testo, ma ha preteso e ottenuto una sovrapprezzo non previsto dalle mie condanne giudiziarie: il non diritto di parola.

Da allora un lungo elenco di interdizioni ha accompagnato la mia vicenda letteraria e le mie prese di posizione pubbliche. Naturalmente è una storia collettiva l’obiettivo di questi attacchi e l’intimazione al nostro silenzio è evidente e dichiarato.

Il completamento di tali imposizioni è stato l’affermarsi del “paradigma vittimario”, ossia l’esclusiva del diritto di testimonianza assegnato alle vittime.

Prima dell’episodio dello “scandalo” per aver ricordato l’esecuzione del compagno Dura, i riflettori si sono accesi in occasione delle celebrazioni dell’anniversario di via Fani. In seguito a una mia frase (Chi mi ospita all’estero per i fasti del quarantennale?) che, in tutta evidenza, significava il mio rifiuto di dover subire l’inevitabile distorsione massmediatica delle celebrazioni del quarantennale, un preteso contenuto offensivo delle mie parole nei confronti delle mie vittime ha catturato il centro della scena.

Ho pensato a un fraintendimento e ho provato a chiarire. A chi mi chiedeva se non avessi considerato quanto la mia frase fosse offensiva nei confronti dei familiari delle vittime delle nostre azioni armate ho cercato di chiarire il mio punto di vista. Al contrario, secondo me, anche le persone che si riteneva avessi offeso avrebbero dovuto rifiutare il racconto privo di una ricostruzione storica rigorosa di quegli avvenimenti, lasciato nelle mani dei professionisti della carta straccia.

Così come, ai tempi, i familiari di Aldo Moro avevano rifiutato i funerali di Stato. Ma nulla poteva bastare per evitare l’ennesimo fuoco incrociato che per giorni mi ha bersagliato. Gli organi di informazione hanno reclamato il nostro silenzio e, contemporaneamente, hanno fatto a gara per mandare in onda o pubblicare nostre interviste.

In un perverso gioco kafkiano hanno continuato a inveire contro la nostra presenza che non c’è stata e contro i nostri rifiuti tacciati di sospetta reticenza. Il culmine è stato raggiunto per una affermazione durante un incontro sull’ultimo mio libro, in cui ho definito quello della vittima un mestiere censorio che pretende il monopolio della parola.

La registrazione tramite una telecamera nascosta è stata gestita con toni sensazionalistici in una trasmissione in cui non mi sono stati risparmiati insulti di ogni genere. A seguire c’è stato un fascicolo a mio carico da parte della Procura, una querela per diffamazione e la decisione comunale dello sgombero del centro sociale che ha ospitato la presentazione del libro.

E dunque è del diritto di parola che si tratta per insindacabile giudizio dei parenti delle vittime che si ritengono offese da un qualsiasi altro punto di vista che non sia la testimonianza del dolore di chi ha subito una perdita.

Diritto che non hanno tutte le vittime ma solo quelle che hanno la facoltà di pesare sulla decisione di cosa si debba ricordare e chi non lo ha. Non a caso il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo è stato fissato per il 9 maggio, data dell’uccisione di Aldo Moro e non il 12 dicembre, anniversario della strage di Piazza Fontana, i cui superstiti e i loro familiari non solo non hanno ottenuto verità processuale ma hanno dovuto anche pagare le spese di giudizio.

Il trionfo del bene sul male ha preso il posto della ricostruzione storica, con tanto di corollario del perdono per i meritevoli che restituiscono al potere un’innocenza e una superiorità morale che non è nella sua natura possedere.

Gli attacchi per il ricordo di un compagno ammazzato quarant’anni fa non sono altro che un ulteriore ratifica di questa condanna non scritta alla rimozione e al silenzio. Come era già successo in occasione del funerale di Prospero Gallinari (tre compagni denunciati per apologia di reato!) neanche il ricordo dei compagni che ci hanno lasciato riesce a passare indenne alle campagne di indignazione.

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