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09/01/2021

La crisi non è uguale per tutti: crolla l’occupazione femminile

La pandemia da Covid-19 ha innescato una drammatica crisi economica, per descrivere la quale non servono tante parole. Gli effetti sono sotto i nostri occhi, ogni giorno e ogni istante, e promettono solamente di peggiorare nei mesi a venire, non appena i minimi ammortizzatori sociali di questi mesi verranno meno, sotto la spinta di Confindustria e del suo desiderio di usare la crisi sanitaria per regolare definitivamente i conti con il mondo del lavoro.

Le conseguenze economiche della pandemia, però, non sono uguali per tutti e non possono esserlo, all’interno di un sistema economico che trae alimento dalla disuguaglianza e dallo sfruttamento. Abbiamo già visto come le fasce più abbienti della popolazione, in Italia e più in generale nei Paesi a capitalismo avanzato, abbiano approfittato dei mesi passati per accrescere ancora di più la loro ricchezza. Il recente Rapporto SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno mostra una dimensione ulteriore del meccanismo disumano attraverso il quale i privilegi di pochi si reggono sulle spalle dei molti. Non solamente la classe lavoratrice nel suo insieme ha visto l’erosione, giorno dopo giorno, di reddito e lavoro ma al suo interno la componente femminile, in particolare nel Meridione, ha sofferto un peggioramento ancora più marcato, che si inserisce nel quadro di una tendenza che piaga il nostro paese da ben prima della pandemia.

Un dato è sufficiente per fornire il quadro. Sull’intero territorio nazionale, circa l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019 è stata cancellata in tre mesi, tra aprile e giugno del 2020. Nelle regioni meridionali il dato è ancora più impressionante, perché negli stessi mesi la distruzione di posti lavoro è stata di un ammontare pari al doppio dei posti di lavoro creati a partire dal 2008.

Per capire perché la presente crisi economica stia colpendo in maniera feroce soprattutto la parte femminile della popolazione è necessario fare un passo indietro. Se è stato possibile cancellare con un tratto di penna quasi 200.000 posti di lavoro (guardando solo al Sud Italia) in novanta giorni è perché la diffusione di forme contrattuali iper-precarie e prive di garanzie, non suscettibili di essere protette neanche dal blocco dei licenziamenti messo in atto in questi mesi, è sì un male assoluto e generalizzato nel nostro Paese, ma colpisce in maniera sproporzionata le donne, come testimoniato anche dal Rapporto SVIMEZ. A questo si accompagna uno strisciante cambiamento nella struttura dell’occupazione femminile nell’ultimo decennio, che vede una diminuzione del numero di donne impiegate in settori ad alta remunerazione e uno spostamento verso lavori a bassa qualifica e bassi salari. Non c’è forse neanche bisogno di dirlo, ma questo avviene – nonostante la propaganda dei cantori della teoria economica dominante – in maniera indipendente dal livello di istruzione e formazione delle donne coinvolte nel processo di retrocessione nella scala salariale e professionale. Si tratta di sfruttamento, non di allocazione più efficiente delle risorse umane (o qualsiasi altra formula fumosa dietro la quale lo sfruttamento si annida).

Sarebbe rassicurante pensare che quanto appena descritto sia frutto del caso, una sfortunata coincidenza, un incidente di percorso, ma non è ovviamente così. Il sovrappiù di sfruttamento a cui la componente femminile della popolazione è sottoposta è la manifestazione dell’estrema flessibilità e adattabilità del sistema economico noto come capitalismo, che in un contesto storico e sociale come quello italiano mette al servizio del profitto un complesso e sedimentato intreccio di maschilismo, paternalismo e clericalismo per rendere una parte della popolazione più facilmente sfruttabile. Un dispositivo che si inserisce in un quadro ancora più ampio, non esclusivamente italiano ma comune, in diversa misura, a tutte le economie capitaliste, e che predetermina la ‘divisione del lavoro’ all’interno del nucleo familiare, con le attività di ‘riproduzione sociale’ e quello che Nancy Fraser definisce ‘lavoro di cura’ assegnati alle donne e spesso svolti senza retribuzione.

Questo modello di società viene rafforzato e trae linfa dalla ritirata dello Stato dall’economia e, in questa parte di mondo, dall’applicazione cieca delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea, nonostante questa si professi, a parole, al fianco delle donne in ogni occasione (dal Trattato di Lisbona del 2009 fino al recentissimo Piano d’Azione sulla Parità di Genere). Infatti, nel momento in cui tali politiche depredano e depauperano la spesa sociale, in primis scuola e sanità, cristallizzano una forma di organizzazione sociale in virtù della quale una parte della popolazione, in gran parte femminile, è ‘costretta’ a provvedere in prima persona, spesso in maniera gratuita, a quel ‘lavoro di cura’ che lo Stato rinuncia a finanziare.

La ferocia con cui la crisi colpisce l’occupazione femminile ci fornisce – limpida – la misura del cambiamento cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la radicalità del lavoro politico che deve essere messo in campo in questo 2021. Con la pandemia si è reso evidente che il problema, per i subalterni, per i disoccupati, per gli sfruttati, per le donne, non sta in una particolare stortura di questo sistema economico e sociale. Al contrario, il problema risiede nel normale funzionamento di un’economia capitalistica, cioè in un sistema che si regge sullo sfruttamento e non può dunque fare a meno – pena la sua estinzione – di subordinare gli interessi e le condizioni di vita di vastissime categorie sociali al profitto di pochi.

Abbiamo bisogno di radicalità perché abbiamo bisogno di ribaltare non un singolo aspetto di questo sistema, ma tutta la sua connotazione economica, sociale e culturale. La subordinazione delle donne, la marginalità degli immigrati, i cosiddetti ritardi del Mezzogiorno sono tutti tasselli necessari di questa impalcatura che si tiene in piedi solo nella misura in cui costringe in ginocchio qualcuno. Non possiamo rialzare la testa senza mandare all’aria l’intero castello.

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