La pandemia da Covid-19 ha innescato
una drammatica crisi economica, per descrivere la quale non servono
tante parole. Gli effetti sono sotto i nostri occhi, ogni giorno e ogni
istante, e promettono solamente di peggiorare nei mesi a venire, non
appena i minimi ammortizzatori sociali di questi mesi verranno meno,
sotto la spinta di Confindustria e del suo desiderio di usare la crisi sanitaria per regolare definitivamente i conti con il mondo del lavoro.
Le conseguenze economiche della
pandemia, però, non sono uguali per tutti e non possono esserlo,
all’interno di un sistema economico che trae alimento dalla
disuguaglianza e dallo sfruttamento. Abbiamo già visto come
le fasce più abbienti della popolazione, in Italia e più in generale
nei Paesi a capitalismo avanzato, abbiano approfittato dei mesi passati
per accrescere ancora di più la loro ricchezza. Il recente Rapporto SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno mostra una dimensione ulteriore del
meccanismo disumano attraverso il quale i privilegi di pochi si reggono
sulle spalle dei molti. Non solamente la classe lavoratrice nel suo
insieme ha visto l’erosione, giorno dopo giorno, di reddito e lavoro ma
al suo interno la componente femminile, in particolare nel Meridione, ha
sofferto un peggioramento ancora più marcato, che si inserisce nel
quadro di una tendenza che piaga il nostro paese da ben prima della
pandemia.
Un dato è sufficiente per fornire il
quadro. Sull’intero territorio nazionale, circa l’80% dell’occupazione
femminile creata tra il 2008 e il 2019 è stata cancellata in tre mesi,
tra aprile e giugno del 2020. Nelle regioni meridionali il dato è ancora
più impressionante, perché negli stessi mesi la distruzione di posti
lavoro è stata di un ammontare pari al doppio dei posti di lavoro creati
a partire dal 2008.
Per capire perché la presente crisi
economica stia colpendo in maniera feroce soprattutto la parte femminile
della popolazione è necessario fare un passo indietro. Se è stato
possibile cancellare con un tratto di penna quasi 200.000 posti di lavoro
(guardando solo al Sud Italia) in novanta giorni è perché la diffusione
di forme contrattuali iper-precarie e prive di garanzie, non
suscettibili di essere protette neanche dal blocco dei licenziamenti
messo in atto in questi mesi, è sì un male assoluto e generalizzato nel
nostro Paese, ma colpisce in maniera sproporzionata le donne, come
testimoniato anche dal Rapporto SVIMEZ. A questo si accompagna uno
strisciante cambiamento nella struttura dell’occupazione femminile
nell’ultimo decennio, che vede una diminuzione del numero di donne
impiegate in settori ad alta remunerazione e uno spostamento verso
lavori a bassa qualifica e bassi salari. Non c’è forse neanche bisogno
di dirlo, ma questo avviene – nonostante la propaganda dei cantori della
teoria economica dominante – in maniera indipendente dal livello di
istruzione e formazione delle donne coinvolte nel processo di
retrocessione nella scala salariale e professionale. Si tratta di
sfruttamento, non di allocazione più efficiente delle risorse umane (o
qualsiasi altra formula fumosa dietro la quale lo sfruttamento si
annida).
Sarebbe rassicurante pensare che
quanto appena descritto sia frutto del caso, una sfortunata coincidenza,
un incidente di percorso, ma non è ovviamente così. Il sovrappiù di
sfruttamento a cui la componente femminile della popolazione è
sottoposta è la manifestazione dell’estrema flessibilità e adattabilità
del sistema economico noto come capitalismo, che in un contesto storico e
sociale come quello italiano mette al servizio del profitto un
complesso e sedimentato intreccio di maschilismo, paternalismo e
clericalismo per rendere una parte della popolazione più facilmente
sfruttabile. Un dispositivo che si inserisce in un quadro ancora più
ampio, non esclusivamente italiano ma comune, in diversa misura, a tutte
le economie capitaliste, e che predetermina la ‘divisione del lavoro’
all’interno del nucleo familiare, con le attività di ‘riproduzione
sociale’ e quello che Nancy Fraser definisce ‘lavoro di cura’ assegnati
alle donne e spesso svolti senza retribuzione.
Questo modello di società viene
rafforzato e trae linfa dalla ritirata dello Stato dall’economia e, in
questa parte di mondo, dall’applicazione cieca delle politiche di
austerità imposte dall’Unione Europea, nonostante questa si professi, a
parole, al fianco delle donne in ogni occasione (dal Trattato di Lisbona
del 2009 fino al recentissimo Piano d’Azione sulla Parità di Genere).
Infatti, nel momento in cui tali politiche depredano e depauperano la
spesa sociale, in primis scuola e sanità, cristallizzano una forma di
organizzazione sociale in virtù della quale una parte della popolazione,
in gran parte femminile, è ‘costretta’ a provvedere in prima persona,
spesso in maniera gratuita, a quel ‘lavoro di cura’ che lo Stato
rinuncia a finanziare.
La ferocia con cui la crisi colpisce
l’occupazione femminile ci fornisce – limpida – la misura del
cambiamento cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la radicalità del
lavoro politico che deve essere messo in campo in questo 2021. Con la
pandemia si è reso evidente che il problema, per i subalterni, per i
disoccupati, per gli sfruttati, per le donne, non sta in una particolare
stortura di questo sistema economico e sociale. Al contrario, il
problema risiede nel normale funzionamento di un’economia capitalistica,
cioè in un sistema che si regge sullo sfruttamento e non può dunque
fare a meno – pena la sua estinzione – di subordinare gli interessi e le condizioni di vita di vastissime categorie sociali al profitto di pochi.
Abbiamo bisogno di radicalità perché abbiamo bisogno di ribaltare non
un singolo aspetto di questo sistema, ma tutta la sua connotazione
economica, sociale e culturale. La subordinazione delle donne, la
marginalità degli immigrati, i cosiddetti ritardi del Mezzogiorno sono
tutti tasselli necessari di questa impalcatura che si tiene in piedi
solo nella misura in cui costringe in ginocchio qualcuno. Non possiamo
rialzare la testa senza mandare all’aria l’intero castello.
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