No! Non è mio interesse, qui, scrivere una banale recensione del docu-film “SanPa, luci e tenebre di San Patrignano”.
Il progetto ideato da Gianluca Neri, sceneggiato dallo stesso Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender, è andato in onda sulla piattaforma Netflix dal 30 Dicembre scorso.
Docu-serie che, com’era facilmente prevedibile, sta facendo molto discutere, spaccando il pubblico tra i pasdaran di Vincenzo Muccioli – fondatore della comunità di recupero per tossicodipendenti – e suoi detrattori.
Tra chi rimpiange SanPa, neanche fosse il Paradiso perduto di Milton, dove i tossicodipendenti potevano intraprendere un percorso di redenzione; e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti più cupi e deteriori – dal controllo repressivo alle violenze sui ragazzi, dai letti di contenzione alle catene, dai suicidi alle morti e finanche agli omicidi – seppur con accenti costantemente improntati alla moderazione e all’incertezza.
Esitazione dovuta, con ogni probabilità, a problemi di cui troppe volte, quasi fisiologicamente, si ignorano implicazioni e riflessi.
Accenti che lasciano affiorare, in ogni caso, un inequivocabile timore reverenziale verso quell’esperienza di “salvazione provvidenziale” e il suo “divino tutore”, che francamente trovo intollerabile.
Una sorta di plastica rappresentazione della cultura italica che, tra misticismo e cattolicesimo o, all’inverso, tra giudizio a priori e ideologia, si esercita – con manicheo moralismo o con finta spregiudicatezza libertaria – su cicatrici altrui, aperte nel cuore della iniqua società dell’opulenza, ai cui margini si agitano fantasmi dalla carne tremula, infetta dei veleni del profitto e della miseria.
Con simili premesse, dunque, apparirà fin troppo chiara, al lettore, la scelta di non percorrere la strada, sicuramente più facile, di una recensione che mi avrebbe senz’altro semplificato le cose.
Mi limito perciò a poche e lapidarie note critiche.
Di SanPa si possono certamente apprezzare l’andamento lineare e progressivo nel tempo e il montaggio storico, capace di avvincere lo spettatore e di sistematizzare il cospicuo materiale documentale.
O ancora il tentativo, parzialmente riuscito, di restituire testimonianze fedeli.
E certamente, infine, il coraggio degli autori di non procedere seguendo una tesi prestabilita, al fine di lasciare allo spettatore la possibilità di crearsi un proprio giudizio.
Il che, considerando la quasi inviolabilità di Muccioli e San Patrignano, nell’immaginario collettivo italiano assurti l’uno alle altezze di un Abramo contemporaneo, l’altro a santuario laico, non è poco.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto ad aver provocato l’ira della famiglia Muccioli, che con un comunicato stampa ha accusato gli autori di aver inquadrato San Patrignano in un’ottica del tutto negativa.
Ciò detto, però, non intendo dilungarmi oltre sulla specificità e la qualità della serie. Non m’interessa più di tanto recensire, come accennavo più sopra.
Perché quello che la docu-fiction non può restituirci sono le emozioni, i vissuti, le disperazioni e le tragedie che i tossici hanno vissuto nella comunità-gabbia di San Patrignano.
I live dei giorni di “rota”, disintossicazione, craving.
Non me la sento proprio di vestire, dunque, in questo caso, i panni del critico o dell’intellettuale freddo e distaccato. Anche un po’ compiaciuto delle sue coordinate estetico-ideologiche.
Non voglio e non posso. E per un motivo molto semplice e molto personale. Se si vuole, giornalisticamente neanche troppo deontologico. Ma tant’è.
È la stessa vita di chi scrive a non permetterlo.
Quelle emozioni, quei vissuti, quelle disperazioni, quelle tragedie legate alla rota e alla disintossicazione sono stati infatti, per anni, il mio vissuto.
Il mio quotidiano. La legge di un cupo desidero di fuga nichilista. Condiviso con migliaia di passeggeri compagni di vita.
Compagni con cui appiccare il fuoco di un’idea di libertà negata e distorta. Dalla società. Dal sistema. Dal Potere. Da sé stessi.
Un vissuto che è fatto – non dimentichiamolo, nell’ipocrita considerazione moralistica e di condanna dell’eroina e della tossicodipendenza in generale – anche di piaceri intensi ed estasi oniriche.
Non si spiegherebbero, altrimenti, i tanti giovani e meno giovani finiti nelle culla dolce, e a un tempo arrugginita e ferale, della droga.
Venticinque anni di tossicodipendenza. Da tutto...
Quindi, converrete, che in materia sono laureato, specializzato e mi sono preso pure qualche master.
Perciò, a prescindere da considerazioni estetiche e di impostazione inchiestistico-dicumentaristica in merito a SanPa, consentitemi alcune riflessioni.
Che derivano non solo da esperienze personali, ma anche e soprattutto da testimonianze dirette di chi, a San Patrignano, è stato rinchiuso.
Fratelli di strada con cui ho condiviso buchi, sballi, furti, arresti e racconti di vita. Fratelli che in quel lager hanno vissuto l’inferno!
Io stesso, d’altronde, ho rischiato di finirci. Sempre opponendo, tuttavia, la motivazione caparbia di chi avrebbe voluto farcela con la propria testa, la propria volontà, il proprio corpo.
E alla fine ce l’ha fatta...
Cionondimeno, è comprensibile che le famiglie, ad un certo punto, esasperate, alzino la bandiera della resa e le provino tutte.
Soprattutto, nella totale latitanza di uno Stato che considera i tossici alla stregua di scarti della produzione, da tenere fuori dall’umano consesso economico e civile.
Cellule cancerogene, impazzite e da estirpare. Delinquenti da rinchiudere in galera. Malati da sbattere in un presidio psichiatrico, per il passato.
Poi, sull’onda libertaria degli anni Settanta, in cosiddette comunità terapeutiche, dove spesso mancavano e mancano assistenti sociali, psicologi, personale infermieristico.
Dunque, la SanPa della serie – SanPa: un nome accattivante per il mercato, ma irritante per chi quelle storie ha vissuto – era esattamente una struttura di contenzione.
Modellata secondo la peggiore cultura patriarcale e repressiva. Sorvegliante e punitiva come un Panopticon foucaultiano. Un lager, un campo di lavoro, un gulag. Botte, pugni, calci, schiaffi, catene.
Castighi corporali e pene morali, rigorosamente divisi per genere. Ai maschietti, se sbagliavano, era destinata la porcilaia. Alle femminucce la tessitrice.
Vincenzo Muccioli era un imprenditore della sofferenza, un tiranno, un padrone, un uomo ai limiti del delirio di onnipotenza cristica, che godeva di protezioni trasversali.
Preferibilmente fascisti: nota la requisitoria in suo favore di Gasparri, negli anni ’90. E oggi la difesa ex post della sorella d’Italia, Giorgia Meloni.
Ma non mancavano i liberali, i democristiani, i berlusconiani. La famiglia Moratti, non si sa a che titolo, ha cospicuamente finanziato San Patrignano nel tempo.
E finanche il partito comunista, notoriamente legalitario e con spiccate tendenze securitarie e disciplinari, difendeva Muccioli e la sua comunità.
Il tutto, in un vuoto normativo voluto e perseguito, fino agli anni ’90, da tutte le forze politiche del paese.
Comprese quelle di una sbiadita, inconsistente sinistra, sempre meno vicina ai reali interessi dei ceti popolari – indiscutibilmente, dalla fine degli anni ’70, i più colpiti dal fenomeno eroina – che mai si è realmente battuta per costruire efficaci centri di assistenza terapeutica per tossicodipendenti.
Presìdi che fossero finanziati con denaro pubblico, grazie al quale si sarebbe dovuto sostenere e migliorare quel Sistema Sanitario Nazionale che, invece, sin dagli anni ’80, si è provveduto allegramente a smantellare.
Con i risultati che tutti, oggi, stiamo sperimentando insieme alla pandemia.
Quando poi, i Ser.T (Servizi Tossicodipendenze) videro finalmente la luce (istituiti con la Legge 162 del 1990) si rivelarono, tanto per cambiare, inefficaci, disorganizzati e carenti sotto ogni profilo.
Posso testimoniarlo, essendone stato utente per circa vent’anni. Fino al 2011.
Regole di somministrazione del matadone completamente discrezionali e non fissate da un protocollo condiviso; viceversa, dettate dal dirigente sanitario in base a valutazioni personali e del tutto arbitrarie.
Presìdi che spesso facevano registrare gravi carenze di personale specialistico – particolarmente nei quartieri più marginali e conseguentemente più a rischio – e in cui gli utenti venivano trattati con sufficienza, quando non con aggressività.
Servizi in cui, non di rado, mancavano assistenti sociali e operatori della salute mentale, con consequenziale assenza di fondamentali percorsi di sostegno psicologico.
Solo di recente, a quanto pare, le cose sono migliorate. Ma di poco, mi dicono.
Dunque, in questo vuoto legislativo e organizzativo, con l’eroina e la cocaina che, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta, inondavano le strade e mietevano morti, lo Stato preferì affidarsi a strutture di fatto private, come le comunità terapeutiche.
Ad emergere, tra le prime, fu proprio San Patrignano, fondata da quello che, a tutti gli effetti, aveva l’aria di un Santone.
Immediatamente benedetto con l’aureola dalla borghesia perbenista, che dei figli non era in grado di occuparsi o non aveva tempo e voglia di occuparsi.
Canonizzato, però, anche dalle famiglie del proletariato e del sottoproletariato metropolitano, come salvifico santo protettore dei tossicodipendenti.
Perché il problema eroina sembra una livella interclassista che non conosce rigide separazioni di censo. Benché abbia potuto constatare, con i miei occhi, quanto i figli del popolo siano molto più esposti e molto meno tutelati.
Non solo sul versante del recupero. Non solo sul piano giudiziario: le carceri sono piene di tossicodipendenti provenienti dai ceti subalterni. Ma anche di fronte alla morte. Per overdose, per Aids, per Hcv.
Ma torniamo a SanPa e a “san” Vincenzo Muccioli.
La realtà è spesso ben diversa da quella che appare o ci si illude che sia.
Muccioli a San Patrignano era l’unica autorità riconosciuta. Arbitro in terra del bene e del male. Come dice Cantelli, uno dei volti storici di San Patrignano – di cui fu anche Ufficio Stampa – la terapia dentro la comunità era Muccioli.
Un’assurdità in termini scientifici. E il riconoscimento di un’extralegalità ai confini con il fanatismo religioso e la pratica a rischio penale.
Alla dipendenza dalla droga – eroina principalmente, ma anche coca e pasticche – SanPa finiva per sostituire la dipendenza dal sistema comunità e il totale asservimento alla figura del Padre-Padrone.
Perché la verità che nessuno può capire, se non è stato tossico, è che in un luogo come San Patrignano non esci da un beneamato cazzo!
Una struttura di personalità dipendente avevi. Una struttura di personalità dipendente conservi. La soggettività viene diluita, spezzata, assimilata all’interno della comunità.
D’altra parte Vincenzo Muccioli, con la complicità dello Stato, considerava il tossico un inutile ingranaggio della catena di montaggio sociale.
Un pezzo di carne avariata: senza nervi, sangue, ossa, intelligenza, cuore. Un pezzo da aggiustare. Uno zombie. Che anche se moriva, pazienza.
Problematiche che dovrebbero far riflettere anche molti di quei compagni che oggi sui social criticano, giustamente, il docu-film SanPa.
Ma poi inneggiano a passate esperienze di socialismo reale, in cui la tossicodipendenza – nel 1986 i dati ufficiali forniti dal ministro degli Interni sovietico Aleksandr Vlasov e pubblicati dalla Pravda, parlavano di 46.000 tossicodipendenti e di fenomeno erroneamente tenuto nascosto dal governo per il passato – non era certo guardata con occhio comprensivo e doverosamente curata.
Bensì anche lì, purtroppo, emarginata e confinata in galere o strutture psichiatriche.
In definitiva, la concezione del recupero di Muccioli a SanPa si declinava secondo un paradigma para-religioso. Fanatico e inflessibile.
Sospeso tra la crudele severità carceraria e la disumana legge della clausura conventuale.
Assimilabile più al carcere speciale dell’Asinara che ad una struttura con finalità umanitarie.
Aspetti inquietanti, cui andrebbe aggiunto quello che, con ogni evidenza, si poteva configurare come forma di sfruttamento gratuito della manodopera, costituita dai giovani ospiti della comunità.
Insomma, una vera e propria concezione schiavistica del recupero, ben inserita nella catena del valore e della produzione tipicamente capitalista.
Con scarso interesse per la vita e il rispetto di chi, a tutti gli effetti, andrebbe considerato un malato.
Letti di contenzione, catene e botte non possono e non devono, insomma, rappresentare strumenti terapeutici.
Metodi che hanno, per secoli, caratterizzato la “cura” del disagio psichico e sociale.
Proprio contro queste pratiche disumane, repressive e crudeli, tra cui l’elettroshock, prendeva forma, nel 1978, la Legge Basaglia. Una delle più avanzate legislazioni a livello mondiale, in materia di disagio psichiatrico e di protocollo terapeutico. Purtroppo, nel tempo, andata completamente disattesa.
Una legge il cui obiettivo era non solo la chiusura dei manicomi ma soprattutto la restituzione della dignità umana al sofferente psichico, la cui riabilitazione avrebbe dovuto passare attraverso il dialogo con l’altro e il reinserimento nel tessuto sociale.
In quei luoghi, vere e proprie discariche della società al pari delle galere, venivano spesso rinchiusi anche i tossicodipendenti. I quali subivano gli stessi spietati trattamenti.
Non dimentichiamo, a tal proposito, che nella Torino di quegli anni operava, presso l’ospedale psichiatrico di Collegno, in qualità di vicedirettore, il famigerato dottor Giorgio Coda.
Il suo nome è legato ad una innumerevole serie di abusi e maltrattamenti terapeutici, su pazienti psichiatrici, alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali e masturbatori. Che l’illustre luminare intendeva curare con scariche elettriche non solo alla testa, ma anche ai genitali, senza anestesia e senza gomma in bocca, provocando così la rottura dei denti.
Metodi che gli valsero il passaggio al disonore delle cronache col nomignolo “l’elettricista”.
Coda – alla cui ignobile vicenda medica e professionale fu dedicato anche il volume Portami su quello che canta. Processo ad uno psichiatra, scritto da Alberto Papuzzi – fu processato per maltrattamenti, con relativa condanna a cinque anni di detenzione, al pagamento delle spese processuali e all’interdizione dalla professione medica per cinque anni.
Violenze, morti e suicidi provocati dal “Protocollo Coda”, che non passarono inosservati in un contesto di lotta armata, come quello che si era venuto delineando in quegli anni in Italia.
Al punto che, il 2 dicembre 1977, quattro uomini dell’organizzazione armata Prima Linea, penetrarono nell’appartamento dove Coda teneva visite private – in via Casalis 39, nel quartiere “bene” di Cit Turin – e, dopo averlo sottoposto a un breve “processo” e averlo legato a un termosifone, gli spararono alle spalle e alle gambe. Infine, gli attaccarono un cartello con su scritto: «Le vittime del proletariato non perdonano i loro torturatori».
Ed è dunque in quel crogiolo culturale – tra l’approvazione della Legge Basaglia, non vista certo di buon occhio dalla maggioranza silenziosa e dalla borghesia reazionaria del nostro paese, terrorizzate dalla possibilità di ritrovarsi per strada, faccia a faccia, con quei disagiati, quei malati che preferivano tenere lontani dai loro suscettibili sguardi di gente perbene – e il vuoto politico di uno Stato che non sa e non vuole approntare mezzi e risorse adeguate per affrontare i problemi legati al disagio psichico e alle tossicodipendenze (spesso connesse tra loro) che nasce la comunità di San Patrignano.
La quale viene configurandosi, sin da subito, come l’ennesima discarica di una società che non desiderava e non desidera avere attorno a sé tossicodipendenti.
Affidandone non la cura, bensì la contenzione e soltanto in ultima istanza la “salvezza” mediante previa “redenzione”, all’Uomo Forte. Al Capo. Al Messaggero della Provvidenza.
Quel Vincenzo Muccioli che a San Patrignano era la Legge. Che aveva potere assoluto di vita o di morte. E i cui metodi non erano poi tanto diversi, come abbiamo detto, da quelli dello psichiatra torinese, Giorgio Coda. Eccettuato, chiaramente, l’elettroshock!
La riabilitazione purché sia, salvare una vita a qualunque prezzo, anche paradossalmente la morte – perché è il risultato ad avere valore, non la dimensione umana del soggetto – viene a configurarsi come una sorta di pragmatismo machiavellico ai limiti della ferocia, trasformandosi in un insensato accanimento terapeutico. Per giunta, perseguito con metodi crudeli.
Pratiche inaccettabili per uno Stato e una democrazia che vogliano dirsi evoluti.
Farsi la rota senza alcun sostegno medicinale, come ad esempio il metadone, e per di più incatenati, picchiati e sottoposti a sanzioni e punizioni morali e corporali, gettati in una gelida cella, è qualcosa di umanamente atroce.
Ho conosciuto gente che si sarebbe suicidata durante la disintossicazione intrapresa nel rassicurante ambiente domestico. Anche per chi scrive non è stato facile...
Figurarsi in quelle condizioni vessatorie e repressive. E infatti non sono mancati i tentativi di suicidio.
Come, d’altra parte, tantissimi sono stati i fallimenti di una simile, sconsiderata, violenta pratica disintossicante.
Fallimenti cui sono seguiti depressioni, buchi sempre più profondi, resa incondizionata alla roba. E morti. Tanti!
In conclusione, le comunità terapeutiche rappresentano il fallimento dello Stato, della collettività sociale, della famiglia e di tutte le strutture inerenti la società borghese.
Che affida al privato tout court o a quello che oggi si chiama privato sociale in convenzione, problemi serissimi di cui non vuole occuparsi.
Che non vuole accogliere, a dispetto di tutta la retorica umanitaria e democratica.
La tossicodipendenza e i tossici sono un drammatico grattacapo che è meglio scotomizzare e nascondere tra le pieghe di un sistema fallato e fallito.
Meglio affidarli a supposti uomini della Provvidenza, secondo la più classica cultura italica. Reazionaria, moralista, bigotta e punitiva!
Ma Muccioli e San Patrignano, lontani dall’essere un uomo e un luogo da santificare o rimpiangere, andrebbero dimenticati quali vergogne di un ordinamento sociale, economico e politico, incapace di dialogare con i propri figli, i propri giovani, e di comprenderne i fisiologici problemi di crescita.
Che anzi amplifica, esaltando individualismo, competizione, cultura del denaro, classismo e logica del più forte. Un ordinamento da cui fragilità, debolezza, sensibilità, sono espulsi.
Muccioli e SanPa sono pertanto tenebre con “luci” che, se ci sono state, chi scrive non ha mai visto.
Mentre, per tornare alla serie tv, è senz’altro da considerarsi come un discreto documento testimoniale di quell’Italia in cui si va in chiesa a battersi il petto, ma una volta fuori, se si incontra il dolore, lo si evita. Semmai sputandogli anche addosso.
Pertanto, se proprio si vuol veramente capire qualcosa di tossicodipendenza attraverso la fiction, molto meglio Amore tossico di Claudio Caligari o L’Imperatore di Roma di Nico D’Alessandria.
Film tosti, le cui immagini conficcate nella realtà, ti urlano contro come un cane che ringhia tra le ombre fameliche della strada.
Fonte
Per approfondire consigliamo questo articolo pubblicato da Codice Rosso, che esplica con la medesima chiarezza utilizzata da Morvillo nel testo qui sopra, come nessuna questione sociale (e la tossicodipendenza lo è pieno titolo) possa e soprattutto debba essere affrontata con le armi della moralità, che sono poi quelle della coercizione e repressione.
09/01/2021
Le tenebre di San Patrignano
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