di Alexik
A volte ritornano, come fantasmi maligni, come ricordi amari.
Gli anni ’80 periodicamente riemergono dal limbo in cui avresti voluto relegarli, con tutto il loro portato reazionario. Rappresentano il giro di boa, il decennio in cui il capitale si è ripreso il suo spazio per costruire un nuovo ordine, sulle ceneri dell’ultimo tentativo di rivoluzione dell’Italia del ‘900. E sulle ceneri della generazione che aveva cercato di cambiare tutto, rinchiusa nelle carceri speciali, ricacciata nel riflusso, devastata con l’eroina.
L’eroina era la sostanza perfetta. Uno strumento di ‘pacificazione’ di successo già collaudato (assieme al crack) per neutralizzare la ribellione giovanile e le organizzazioni della rivoluzione nera negli Stati Uniti.
L’eroina riusciva a deviare il sogno di rivoluzione verso la fuga individuale in un paradiso fittizio. Rendeva deboli e ricattabili i potenziali ribelli.
Spostava il campo di battaglia dallo scontro contro lo Stato a quello della microconflittualità contro i propri simili, creando disgregazione sociale e desolidarizzazione all’interno dei quartieri popolari. Forniva pretesto alla militarizzazione dei territori.
Il suo consumo si espandeva veloce, probabilmente anche al di là delle intenzioni iniziali, colpendo le generazioni successive, straripando dalle case popolari ai quartieri del ceto medio, fino alle ville dei ricchi. Producendo, in questo modo, tantissimo ‘materiale umano’, utilizzabile per la sperimentazione di nuovi modelli di controllo sociale.
“SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, narra la storia del principale fra questi esperimenti, creato da Vincenzo Muccioli sulle colline riminesi, e da lui diretto con poteri assoluti fino alla sua morte nel 1995.
Un racconto costruito attraverso l’alternarsi di numerose testimonianze: ospiti ed ex ospiti della comunità (fra cui alcuni stretti collaboratori del fondatore), membri della famiglia Muccioli, giornalisti, giudici, psichiatri, supporters, rappresentanti istituzionali.
Ognun* con la sua angolazione visuale, tale da costruire nell’insieme l’immagine di un fenomeno sicuramente multiforme e complesso.
La docu-serie prodotta da Netflix ha acceso in questi giorni ferventi polemiche. L’attuale direzione della comunità e i suoi fedeli, da Red Ronnie a Letizia Moratti, l’accusano di essere “sommaria e parziale con una narrazione che si focalizza sulle testimonianze dei detrattori“.
Un’opinione contraddetta dall’ampio spazio concesso dal docufilm ad Andrea Muccioli, figlio del fondatore, allo stesso Red Ronnie, e ad Antonio Boschini (tuttora responsabile medico della Comunità), le cui interviste attraversano l’intero corso delle cinque puntate.
Interviste che si affiancano anche a numerose immagini di repertorio non certamente ostili: cortei di madri che inneggiano a SanPa, le parole dei giornalisti amici (da Minoli a Biagi, da Costanzo a Montanelli), il sostegno del petroliere Gian Marco Moratti, principale sponsor finanziario della comunità.
Ma soprattutto, la voce che si ascolta maggiormente è quella di Vincenzo Muccioli.
E non è certo colpa dei suoi detrattori se rivendica lui stesso, davanti alle telecamere, la giustezza della riduzione in catene dei fuggiaschi, l’uso della violenza fisica come metodo rieducativo, o la negazione del sostegno farmacologico durante le crisi di astinenza.
Se ridicolizza in modo sessista e spregevole (col giochino dell’anello) le denunce di violenze sessuali delle recluse, o se dichiara candidamente di aver taciuto e mentito sull’omicidio di Roberto Maranzano, massacrato di botte e ucciso in un reparto punitivo della Comunità.
È Vincenzo Muccioli il peggior detrattore di se stesso, con le sue esternazioni che finiscono per rendere poco credibili anche le difese d’ufficio dei suoi più convinti sostenitori.
I quali probabilmente si aspettavano di partecipare ad un documentario apologetico, che è ciò a cui erano stati abituati durante decenni di ostracismo televisivo nei confronti delle vittime della comunità.
Come ricorda Rita Maranzano, sorella di Roberto, in una conferenza stampa del 1994 il cui audio è disponibile sul sito di Radio Radicale[1]:
“È stato dato spazio a tutti coloro che sostengono il signor Muccioli, a lui e alla sua famiglia, a chi invece voleva opporvisi è stato dato sempre un netto rifiuto. Io per esempio due anni fa dovevo partecipare alla trasmissione I fatti vostri, mi hanno fatta andare a Roma e poi a Roma mi hanno detto che era arrivato il veto di Minoli [all’epoca capostruttura di Rai2] e quindi non potevo partecipare. Ho sempre cercato di contattare Rai1, Rai2, Rai3, la Fininvest. Ho trovato un muro.”
Il docufilm sceneggiato da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender, rappresenta finalmente una breccia su quel muro, e una restituzione di verità e dignità per tutt* quell* che hanno avuto il coraggio di denunciare ciò che hanno visto e subito là dentro, nonostante le minacce, le rappresaglie e la denigrazione.
Un laboratorio per le controriforme
Come dicevo, San Patrignano è stato (e non so in che misura sia ancora) un fenomeno multiforme e complesso, non banale.
Non riducibile solo all’aspetto della violenza fisica, che comunque l’ha accompagnato fin dalla nascita, da quel primo messaggio di aiuto lanciato nel ’79 dal ventisettenne Paolo Morosini: “Sono prigioniero di queste persone. Telefonate alla polizia o ai carabinieri. Ho già avuto 7 collassi e sto malissimo“.
Un segnale seguito dalla seconda denuncia nell’ottobre dell’80, quando Maria Rosa Cesarini riesce a fuggire dalla comunità dopo essere stata rinchiusa per sedici giorni in una piccionaia.
Durate la perquisizione che ne segue, vengono trovati dalla polizia, al freddo e nel sudiciume, “Luciano Rubini e Leonardo Biagiotti incatenati in due locali usati come canile, Marco Marcello Costi incatenato alla porta in ferro di un locale di tre metri per uno e Massimo Sola incatenato ad un manufatto adibito a colombaia”[2].
Sono loro i ragazzi ritratti nelle foto simbolo del “processo delle catene”, un processo fortemente mediatizzato che porterà San Patrignano ai disonori delle cronaca, ma non fermerà la violenza.
Perché al di fuori dell’aula di tribunale, gran parte della società plaude a quella violenza.
Plaude alla sospensione delle garanzie dello stato di diritto per i tossicodipendenti, alla liceità di sequestrarli e richiuderli al di fuori di qualsiasi previsione di legge, ed è disposta ad accettare anche l’uso di trattamenti inumani e degradanti pur di toglierseli di torno.
Partecipa a quella violenza, rifiutando di accogliere e proteggere chi tenta di sottrarsene.
Una società che quando evadi ti cattura, e ti riconsegna a loro.
O che ti chiude tutte le porte, costringendoti a tornarci, perché è l’unico posto dove ti è concesso stare.
Durante il “processo delle catene”, anche dopo la condanna in primo grado, i tribunali di tutta Italia continuano ad inviare tossicodipendenti a SanPa per scontare la pena, nonostante i suoi sistemi siano ormai noti.
In appello, e poi in Cassazione, la magistratura finisce per assolvere Vincenzo Muccioli, spalleggiato dal potere politico e dalle televisioni pubbliche e private a reti unificate.
Lo assolve dalle accuse di sequestro di persona, violenza e maltrattamenti, per “aver agito in stato di necessità putativa“, legittimando con l’impunità il via libera all’uso di quegli stessi metodi, che nel frattempo continuano ad essere esercitati “as usual”.
Una decisione che conferma quell’aura di “extraterritorialità” che avvolge la comunità sulla collina, apparentemente immune anche alle leggi edilizie e fiscali.
Tanta accondiscendenza da parte dello Stato è legata certamente a numerosi interessi contingenti – la comunità muove soldi, voti e consenso – ma al di sopra di questi, c’è il fatto che San Patrignano interpreta pienamente lo spirito del tempo, di quegli anni ’80 inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat e dalle crociate antiabortiste di Wojtyla.
La comunità partecipa alla costruzione del nuovo ordine, riuscendo a riassumere in una sola esperienza tutte le controriforme possibili.
A partire dalla logica patriarcale che la sottende, con al centro un Dio/padre/padrone dotato di potere assoluto sui suoi ‘figli’, redenti dalla colpa della tossicodipendenza attraverso l’imposizione della disciplina e la rieducazione del lavoro.
Un lavoro coatto e gratuito – nelle strutture agricole e artigianali di SanPa – che riporta alla mente, più che lo spirito cooperativo, quello delle workhouses dell’età vittoriana, le fabbriche/prigione istituite per togliere i poveri e vergognosi dalle strade e raddrizzare le loro cattive abitudini.
In fatto di diritti del lavoro, San Patrignano incarna, in pratica, il sogno proibito di quella borghesia industriale che negli anni ’80 ha da poco riguadagnato il controllo delle fabbriche, la libertà di licenziamento e la vittoria al referendum sulla scala mobile.
Inoltre la vocazione reclusoria della comunità fa da contraltare alla Legge Basaglia, che ha da poco modificato radicalmente i presupposti per la privazione della libertà personale in assenza di reati, ed alla riforma sulle tossicodipendenze del ’75 (quella che istituisce i servizi territoriali pubblici di assistenza) che, come vedremo, SanPa si impegnerà ad emendare dettando ai decisori politici il testo della Iervolino Vassalli.
Ma è nella distruzione/costruzione delle identità e delle coscienze dei reclusi, e nello sviluppo di modelli originali nell’organizzazione delle funzioni di controllo, coercizione, punizione, che la comunità di Muccioli riuscirà a dare il meglio di sé. (Continua)
Note
1) Presentazione dell’ASS. dei Familiari e Amici delle vittime di San Patrignano, Radio Radicale, Bellaria, 10 dicembre 1994.
2) Tratto da “la mappa perduta“.
Fonte
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