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10/02/2021

Repressione, rinuncia e conflitto in Catalunya

Dal primo ottobre 2017 fino alla fine dell’anno appena trascorso, quasi 3.000 tra militanti e sostenitori della repubblica catalana sono stati indagati dalla magistratura dello stato (in una settantina di casi in seguito a una denuncia della Generalitat, ormai riportata da ERC e Junts per Catalunya al pieno rispetto della costituzione del ’78) e accusati di un ampio ventaglio di delitti: dai disordini pubblici all’oltraggio alla bandiera, da resistenza a pubblico ufficiale a terrorismo, dalla disobbedienza alla sedizione e ribellione.

Un continuo e diffuso stillicidio di casi che ha condizionato in modo decisivo il quadro politico degli ultimi anni, imprimendogli chiaramente il marchio della repressione.

Il caso più noto è quello dei responsabili del referendum del primo ottobre, condannati a pene che arrivano ai 13 anni di carcere e oggetto di un recente tira e molla tra le diverse autorità dello stato: nell’estate scorsa l’amministrazione penitenziaria gli accorda la semilibertà, annullata a dicembre dal Tribunale Supremo, che li riporta in carcere.

Ma in coincidenza con l’inizio della campagna elettorale per il rinnovo della camera catalana (le elezioni del prossimo 14 febbraio), vengono di nuovo rimessi in semilibertà dall’amministrazione carceraria: il sospetto è che la decisione non dispiaccia ai vertici degli apparati repressivi dello stato, dato che neutralizza in parte la carta della denuncia della persecuzione politica nella campagna elettorale, finora il miglior spot contro l’autoritarismo spagnolo.

La presenza dei leader indipendentisti nelle piazze inoltre mobilita l’elettorato unionista, che da sempre invoca la galera per i protagonisti del primo ottobre. Se questa lettura è corretta, i leader repubblicani potrebbero tornare in carcere subito dopo le elezioni, su richiesta della fiscalia e per decisione del Tribunale Supremo.

Meno note, ma non meno importanti, sono le operazioni della Guardia Civil contro i Comitati di Difesa della Repubblica, vale a dire contro l’esperimento organizzativo più significativo sorto dalle ceneri del primo ottobre, nato dal basso e via via caratterizzatosi sia per la capacità di aggregare giovani provenienti anche fuori dal consueto alveo indipendentista, sia per un fermo antifascismo (portato ripetutamente in piazza a sbarrare il passo alle iniziative della destra radicale), oltre che per una sensibilità sociale che gli ha visti tra i protagonisti più attivi degli scioperi degli ultimi anni.

L’Audiencia Nacional, il tribunale eminentemente politico che eredita la tradizione inquisitoria franchista, già nel 2018 accusava di terrorismo Tamara e Adrià Carrasco, due militanti dei CDR, fino allora del tutto anonimi. Il tribunale vuole così spaventare e arginare la crescita della mobilitazione indipendentista.

Non ci sono prove per sostenere l’accusa di terrorismo ma l’Audiencia Nacional avvia lo stesso una persecuzione giudiziaria che l’Adrià evita dandosi alla latitanza e che Tamara subisce per tre anni. La recente archiviazione del procedimento contro l’Adrià conferma che l’obbiettivo dello stato non era accertare e perseguire un crimine, bensí spaventare il movimento con una delle accuse più gravi del codice penale spagnolo.

Pur cadendo l’accusa di terrorismo, nel caso di Tamara la fiscalia continua a chiederne l’incriminazione per incitamento ai disordini pubblici.

Pensata per disinnescare la protesta contro le prevedibili condanne ai leader indipendentisti del primo ottobre, l’operazione Judas viene condotta dalla Guardia Civil nel 2019 con un grande spiegamento di forze e con metodi assai discutibili: gli avvocati di Alerta Solidària denunciano che Ferran Jolis, arrestato a Santa Perpètua de Moguda, fa tutto il tragitto fino a Madrid con una benda sugli occhi e ammanettato mentre gli agenti lo minacciano di ritorsioni alla famiglia.

Secondo l’organizzazione antirepressiva il militante dei CDR è stato sottoposto a un regime di isolamento, privato dell’assistenza dell’avvocato scelto dai propri familiari e drogato per estorcergli una confessione.

Anche Jordi Ros fa il viaggio fino alla prigione bendato, dopo che un agente della Guardia Civil gli punta la pistola alla testa durante l’irruzione in casa. Oltre alle minacce, i familiari sospettano che Jordi sia stato drogato e indotto a fare dichiarazioni che non rispecchiano la sua personalità.

Sebbene siamo lontani dal livello di tortura più volte denunciata dalla sinistra abertzale, l’operato delle forze dell’ordine è più che discutibile. Anche nel caso dell’operazione Judas, il dato più significativo è l’incriminazione per terrorismo degli indipendentisti (fondata su indizi risibili riguardo la preparazione di esplosivo a cui si sarebbero dedicati).

Nonostante la pesante accusa però, tutti i detenuti sono stati progressivamente scarcerati; Ferran Jolis dopo due mesi di detenzione preventiva, Jordi Ros dopo circa tre mesi, anche se la causa resta aperta e in attesa del processo.

Chi invece è già stato condannato a quattro anni e sei mesi (sentenziati a dicembre dall’Audiencia di Madrid) è Dani Gallardo, un giovane di 22 anni accusato di aver preso parte ai tafferugli scoppiati dopo una manifestazione indetta nella capitale per rivendicare il diritto all’autodeterminazione e in solidarietà con i leader indipendentisti. La sproporzione tra i fatti e la pena comminata evidenzia la volontà di colpire qualsiasi dimostrazione di solidarietà con il popolo catalano che venga da altri territori dello stato.

Sono numerosi anche i giovani di origine magrebina finiti sotto accusa per aver partecipato alle proteste indipendentiste del 2019. A questi giovani la fiscalia dedica una speciale attenzione volta a scongiurarne la politicizzazione.

È il caso di Mohcine e Abdessabour, per i quali la fiscalia di Girona ha chiesto una condanna esemplare a 9 anni per aver partecipato alle proteste dell’ottobre 2019. Evidentemente la possibile saldatura tra la lotta per la repubblica catalana e la rivendicazione di una società in cui non ci sia spazio per la discriminazione, aperta all’accoglienza e impegnata nella lotta contro la disuguaglianza sociale, non viene sottovalutata dall’apparato repressivo dello stato. Che non ha esitato a espellere senza processo, e deportare in Marocco, i giovani Mohammed, Ayoub e Ashraf, detenuti a Lleida anch’essi nel corso delle proteste indipendentiste dell’ottobre 2019.

Per il blocco stradale organizzato da Tsunami Democràtic alla Jonquera e a Salt, che nel novembre 2019 interruppe per ore il transito con la Francia, sono invece indagate rispettivamente 197 e 52 persone, attualmente in attesa di processo.

E non c’è giustizia neppure per Roger Espanyol, che perse un occhio a causa di una pallottola di gomma il primo ottobre 2017, un episodio rispetto al quale il giudice ha rifiutato ogni indagine volta ad accertare le responsabilità della polizia. Una impunità che si è ripetuta anche nel caso delle quattro persone che, ancora a causa delle pallottole di gomma, hanno perso un occhio nella settimana di scontri dell’ottobre 2019.

La via repressiva, intesa come unica risposta alla radicale richiesta di democrazia del movimento per la repubblica catalana, risponde a un’esigenza di conservazione degli equilibri politico-economici (basati sull’unità dello stato e la tranquillità dei mercati) che è condivisa da tutto il cosiddetto regime del ’78, di cui il PSOE è un pilastro fondamentale.

Tanto è vero che quando i socialisti arrivano al governo, nel gennaio dell’anno scorso, mantengono intatta la repressione inaugurata dal PP. E il governo PSOE-Podemos si è finora guardato bene da dare un segnale di netta discontinuità con il passato, quale sarebbe stata un’amnistia per i detenuti politici catalani, un provvedimento recentemente richiesto anche da varie personalità di fama internazionale, tra cui Gerry Adams e Dilma Rousseff.

L’amnistia è stata votata nella camera catalana (in modo puramente simbolico) e ha raccolto il prevedibile rifiuto dei socialisti e la sorprendente astensione di Catalunya en Comù-Podemos. Eppure per una decisione differente non mancava un chiaro precedente storico: quando nel 1936 il Fronte Popolare vince le elezioni, la repubblica spagnola scarcera immediatamente il Presidente della Generalitat Lluís Companys, detenuto in seguito alla fallita insurrezione del 1934 contro il governo della destra, un tentativo nel corso del quale Companys aveva proclamato lo stato catalano dentro la repubblica federale spagnola.

Gli eredi del socialismo degli anni ’30 sembrano più prudenti dei loro predecessori.

Se prima del referendum dell’ottobre 2017 la direzione di ERC si mostrava convinta che, davanti alla reazione repressiva dello stato, Podemos si sarebbe avvicinato all’indipendentismo, abbandonando gli equilibrismi, i fatti hanno smentito la previsione.

È accaduto esattamente il contrario: davanti alla repressione, ERC è ripiegata su una posizione di attendismo, invocando un dialogo che il PSOE non si degna di considerare. Di fatto ERC rinvia ormai la costituzione della repubblica catalana a un futuro imprecisato, a condizione di varie e reiterate affermazioni elettorali che mantengano stabilmente sopra il 50% lo schieramento indipendentista.

Dal canto suo, l’articolazione catalana di Podemos rivendica il referendum per l’autodeterminazione del Sarawi, ma non considera più una questione urgente il referendum in Catalunya. La sinistra radicale dello stato coincide con i socialdemocratici catalani anche nel proporre una tavola di dialogo con il PSOE, di fatto rinunciando alla lotta per la costruzione di una repubblica dagli equilibri sociali più avanzati e preparandosi per la gestione della regione autonoma catalana, nel pieno rispetto della costituzione del ’78 e del disegno europeo.

Nettamente differente, anche se minoritaria, la posizione dell’esquerra independentista e anticapitalista, caparbiamente attestata su una linea che vede il conflitto come l’unico motore per avanzare sul terreno della liberazione nazionale e della lotta di classe.

“Meridiana resisteix” è un esempio di questa caparbietà: dalla sentenza di condanna dei leader indipendentisti dell’ottobre 2019, gli abitanti di Sant Andreu bloccano quotidianamente l’arteria di Barcellona (con alcune pause dovute alla pandemia), non solo per rivendicare la repubblica bensì per lottare contro la speculazione edilizia e per la difesa dell’alloggio.

Nella prospettiva del conflitto rimane anche la Candidatura d’Unitat Popular che, accanto alla battaglia indipendentista, rivolge una critica serrata alla UE: la CUP sostiene che il Next Generation EU beneficerà soltanto le grandi imprese spagnole dell’Ibex35 e comporterà pesanti contropartite per i lavoratori e le classi popolari, a cominciare dalla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.

Niente a che vedere con la programmazione economica e la ripubblicizzazione dei settori strategici rivendicata dagli indipendentisti e anticapitalisti catalani. Perciò i due deputati della CUP al Congresso spagnolo hanno recentemente votato contro il decreto del governo PSOE – Podemos che regola la gestione degli aiuti europei e che, a causa dell’opposizione incrociata di ERC, di Junts e del PP, è stato approvato solo grazie alla benevola astensione di Vox.

Come se non bastasse, i neofascisti sono stati ringraziati dal PSOE, nel silenzio imbarazzante della sinistra radicale dello stato, mai apparsa così ininfluente e subalterna al progetto della UE.

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