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13/03/2021

Cina - La pandemia accelera i processi interni al paese

di Michelangelo Cocco, autore di Una Cina "perfetta". La nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale, Carocci editore, pubblicato su Centro Studi sulla Cina Contemporanea

L’epidemia di SARS-CoV-2 – manifestatasi per la prima volta a Wuhan – si è trasformata in una pandemia che sta imprimendo una forte accelerazione a una serie di cambiamenti già in corso nel capitalismo globale, nonché nelle politiche della Repubblica popolare cinese. Le “due sessioni” (liănghuì) plenarie annuali dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento, Anp) e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (Cpcpc) che si sono chiuse l’11 marzo scorso a Pechino hanno fornito interessanti conferme in tal senso.

Come tutti gli appuntamenti istituzionali degli ultimi mesi, anche le liănghuì hanno anzitutto esaltato la risposta delle autorità che – «sotto la guida del Partito comunista» – ha permesso al Paese di uscire in pochi mesi dall’emergenza coronavirus.

Dopo il +2,3% registrato l’anno scorso, la crescita – ha previsto il premier, Li Keqiang – nel 2021 sarà «superiore al 6%». La seconda economia del pianeta dunque riparte di slancio, mentre i paesi avanzati arrancano tra deficit colossali per contrastare le conseguenze del coronavirus e massicci interventi delle banche centrali a sostegno dell’aumento della spesa pubblica.

Ma la narrazione trionfalistica della vittoria popolare nell’epica battaglia contro il Covid – fondamentale ai fini di propaganda interna – non esime il Partito dall’affrontare i problemi di un’economia il cui Pil è generato ancora per il 17% dall’export (36% nel 2006) e che per il suo ulteriore sviluppo ha tuttora bisogno di approvvigionarsi dall’estero di componenti chiave, sempre più difficili da reperire in una fase nella quale i paesi avanzati hanno iniziato a trattare la Cina non più solo come un partner, ma come un competitor economico e un rivale politico.

È toccato a Miao Wei – durante i lavori della Cpcpc – avvertire che alla manifattura cinese serviranno altri 30 anni per raggiungere quella statunitense o tedesca. Nella dichiarazione dell’ex ministro dell’industria c’è probabilmente anche il tentativo di non allarmare ulteriormente i paesi avanzati come quando, nel 2015, il piano “Made in China 2025” venne pubblicato tra squilli di trombe e rullii di tamburi. Ma è certo che l’embargo decretato dall’amministrazione Trump ha reso più evidenti i ritardi cinesi per quanto riguarda componenti chiave, materiali e tecnologie. La manifattura cinese produce 1/3 del Pil globale, ma – come sottolineato da una recente ricerca del Consiglio di stato – è ancora indietro per quanto riguarda qualità, innovazione, competitività, eco-compatibilità.

Così, per la prima nella storia della Repubblica popolare, non è stata annunciata alcuna previsione del tasso medio di crescita per il periodo (2021-2025) oggetto del Piano quinquennale. Il XIV Piano si caratterizza piuttosto per la promozione di una crescita qualitativa, per incentivare la quale è prevista un aumento medio della spesa in ricerca e sviluppo superiore al 7% annuo. «Negli ultimi anni la Cina ha compiuto grandi passi avanti per quanto riguarda la tecnologia e l’innovazione – ha ricordato in chiusura dell’Anp il premier, Li Keqiang – Abbiamo anche sviluppato rapidamente il campo dell’innovazione applicata, ma persistono chiaramente ancora delle carenze in quello della ricerca di base».

La Cina punterà inoltre sulla promozione dello sviluppo verde; l’aumento dei residenti urbani fino al 65% della popolazione; il mantenimento dei livelli di disoccupazione al di sotto del 5,5%.

Nel 2025 il Paese punta a diventare un’economia “ad alto reddito”, cioè – secondo la definizione della Banca mondiale – con un reddito procapite superiore a 12.536 dollari annui, cifra che tuttavia dice poco sulla distribuzione della ricchezza e sul reale stato dell’economia.

Nell’anno in cui il coronavirus ha colpito più pesantemente la Cina, il settore dei servizi ha raggiunto il 54,5% del Pil, mentre, nello stesso 2020, il peso della manifattura è sceso dal 39% del 2019 al 37,8%, un declino che l’ex ministro Miao ha definito «prematuro» e che sta causando un afflusso di forza lavoro dalle pmi fallite o ristrutturate in conseguenza del Covid ai settori meno garantiti dell’economia, mentre si fanno sempre meno rosee le prospettive d’impiego per i neolaureati (nel 2021 saranno 9,1 milioni) che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro e per i lavoratori migranti (270 milioni). Parlando del 2021 – quando la Cina punta a creare 11 milioni di nuovi posti di lavoro – ma riferendosi a una tendenza che va avanti da tempo – Li Keqiang ha ricordato che «la pressione sull’occupazione rimane molto forte» e che la creazione di posti di lavoro degni di questo nome è uno dei prerequisiti fondamentali per l’aumento dei consumi, al centro della cosiddetta “doppia circolazione” che prevede una riduzione della dipendenza dall’export, per puntare sempre di più sulla domanda interna.

Dopo la parentesi isolazionista trumpiana, la leadership cinese prevede continuità tra le mosse delle amministrazioni Obama e quelle che farà Biden sullo scacchiere indo-pacifico. «L’attuale situazione della sicurezza del nostro paese è fondamentalmente instabile e incerta» ha dichiarato martedì scorso Xi Jinping ai rappresentanti delle forze armate nell’Anp, per cui l’esercito deve «essere pronto a rispondere in qualsiasi momento a una varietà di situazioni complesse e difficili, difendendo con determinazione la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo», un riferimento alle tensioni con gli Usa nel Mar cinese meridionale e su Taiwan. Per questo le spese militari continueranno ad aumentare, del 6,8% nel 2021.

Per quanto riguarda Hong Kong – dopo il varo, il 30 giugno scorso, della Legge sulla sicurezza nazionale che permette a tribunali speciali della Cina continentale di processare per «separatismo», «eversione», «terrorismo», e «collusione con un paese straniero o elementi esterni per minacciare la sicurezza nazionale» gli attivisti e i gruppi più radicali della dissidenza nell’ex colonia britannica – la linea di un maggiore controllo diretto da parte di Pechino sulla Regione amministrativa speciale (Hksar) decretata dal quarto plenum del XIX Comitato centrale verrà ulteriormente implementata col varo di una importante riforma elettorale, la cui bozza l’Anp ha inoltrato al suo Comitato esecutivo, col mandato di approvarla in tempi brevi.

Al centro c’è l’idea secondo la quale solo «i patrioti governano Hong Kong». Verrà dunque istituita una commissione ad hoc, col potere di invalidare le candidature di chi abbia messo in discussione il sistema socialista che governa l’intero Paese.

I rappresentanti del Consiglio legislativo (LegCo, il parlamentino locale) passeranno da 70 a 90, ma diverrà maggioritaria la quota di quelli nominati, mentre finora erano eletti per metà a suffragio universale. Il Comitato elettorale (a cui spetta l’elezione del Chief executive) passerà da 1.200 a 1.500 membri (dai quali arriveranno alcuni tra gli ulteriori membri non eletti del LegCo) e la sua composizione verrà allargata a un quinto gruppo di rappresentanti (hongkonghesi membri dell’Anp, della Cpcpc e altre istituzioni della Cina continentale) che andrà ad aggiungersi ai quattro preesistenti (imprenditori, professionisti, associazioni della società civile, gruppi politici).

Quando il nuovo sistema elettorale entrerà in vigore, per l’opposizione democratica sarà impossibile non solo eleggere il capo del governo della Hksar, ma anche ottenere la maggioranza nel LegCo, come prevedeva il piano dei dissidenti che mirava a bocciare ripetutamente il bilancio per conquistare infine il parlamento.

E dopo quella giudiziaria, anche l’autonomia politica dell’ex colonia avrà subìto un forte ridimensionamento, tanto che il principio in base al quale Deng Xiaoping si era accordato per ottenere Hong Kong dai britannici porrà l’accento molto più su “Un Paese” che su “due sistemi”.

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