“Piazze nervose”, da ieri. Non si parla di grandi manifestazioni, che pure sarebbero logiche di questi tempi, ma delle Borse. Là dove si gioca con i miliardi di carta, quelli in parte sottratti al reinvestimento dei profitti in nuove produzioni industriali, ma soprattutto “regalati” da quasi 13 anni di quantitative easing da parte delle banche centrali occidentali.
Il nervosismo è cominciato ieri negli Stati Uniti, fonte e origine di ogni problema sistemico del pianeta. Qualcuno è andato a spulciare le carte della Federal Reserve, che pure in quelle ore confermava le scelte di lunga data: tassi di interesse invariati tra lo 0 e lo 0,25% e identico livello degli acquisti di titoli (pubblici e privati), che resta inchiodato a 120 miliardi di dollari al mese.
È questo, insieme alle identiche scelte della Bce e della Banca d’Inghilterra, il fiume di droga pesante che scorre nelle arterie dei mercati finanziari, impedendo da oltre un decennio quella “correzione” mostruosa che farebbe sembrare un semplice inciampo la crisi del ‘29.
La “carta misteriosa” che ha innervosito gli “investitori” è il dot plot, un banale grafico che registra le previsioni fatte da ogni funzionario del Fomc della Fed. Questa volta 13 banchieri su 18 hanno indicato come probabile un aumento dei tassi di interesse entro la fine del 2023. A marzo (ultima edizione del dot plot) erano solo sette.
Potrà certamente sembrare eccessivo agitarsi per una “stima” così aleatoria che si riferisce comunque ad eventi possibili tra un paio di anni. Ma proprio l’eccesso di reazione – da veri tossicodipendenti – dà la misura della stato reale dei “mercati finanziari”.
Tanto che il numero uno della Fed, Jerome Powell si è sentito obbligato a precisare che al Fomc “non abbiamo avuto nessuna discussione su un rialzo dei tassi su nessun anno, perché sarebbe stato ampiamente prematuro farlo. E i dot plot non sono un grande previsore sulle future mosse, data l’elevata incertezza, vanno presi con cautela“.
“Stime” individuali a parte, il problema reale che innervosisce chi guadagna sui movimenti di borsa è l’aumento congiunturale dell’inflazione, dovuto alla crescita dei prezzi delle materie prime e di alcune componenti indispensabili per la produzione (a partire dai microprocessori) in seguito alla “ripartenza” generalizzata post-Covid.
Cambiare gli obbiettivi giornalieri di produzione nelle miniere non è altrettanto immediato che cliccare sul tasto “compra” o “vendi”. E in quel lasso di tempo il prezzo sale sulla spinta della domanda.
Ma al fondo di tutto c’è la spaventosa crisi economica e sociale statunitense. Il nuovo ministro del Tesoro, nonché ex presidente della Fed, Janet Yellen, è intervenuta ieri alla Commissione finanze del Senato Usa, per sostenere la proposta di budget da 6.000 miliardi di dollari dell’amministrazione Biden per l’anno fiscale 2022. Equivale ad innalzare il debito pubblico di circa il 30%, in un colpo solo.
Le ragioni per fare una manovra così gigantesca le ha spiegate in modo chiarissimo: “La pandemia non è il nostro unico problema economico. Molto prima che un singolo americano venisse infettato dal Covid-19, milioni di persone in questo Paese stavano affrontando una serie di sfide economiche strutturali a lungo termine che hanno minato la loro capacità di guadagnarsi da vivere“.
L’american way of life ha smesso di essere un sogno realizzato e si è trasformata in un incubo: basta ricordare che oltre 100 milioni di persone in età da lavoro (su 260 milioni) sono attualmente disoccupate e senza alcuna speranza di trovare lavoro.
Questa situazione è alla base della radicalizzazione del conflitto sociale e politico negli States (su fronti opposti, dal trumpismo a Black Lives Matter), costringendo la Yellen a citare le diseguaglianze: “mentre chi guadagna di più ha visto crescere il proprio reddito, le famiglie nella fascia più bassa hanno visto la loro retribuzione stagnare“.
E anche sul fronte delle questioni di genere, fiore all’occhiello della propaganda, le cose stanno in modo assai diverso: “anche prima della pandemia, la quota di donne americane nella forza lavoro era molto indietro rispetto a molte altre nazioni ricche“.
Per finire con il cambiamento climatico, per il quale è previsto un raddoppio dei danni da disastri naturali ogni cinque anni, e ovviamente la disuguaglianza razziale.
Implacabile anche il riconoscimento della cause di tutti questi problemi: “Ci sono ragioni chiare per cui queste forze distruttive si sono inasprite. Il settore privato non fa abbastanza investimenti per invertirli, come programmi di formazione che possono portare a salari più alti, assistenza all’infanzia e congedi retribuiti che aiutino le persone a reinserirsi nel mondo del lavoro o infrastrutture che abbasserebbero le emissioni di carbonio e stimolerebbero la crescita nelle comunità trascurate. Per 40 anni non lo abbiamo fatto. Non quanto avremmo dovuto“.
È il fallimento di un sistema economico che è stato egemone sul pianeta per 70 anni. La dimostrazione vivente che i “valori” sbandierati sono solo “chiacchiere e distintivo”.
Ma per quanto cruda possa essere l’autodiagnosi di un funzionario di altissimo livello di quel mondo – Yellen non è certo innocente per questa situazione, visti i ruoli ricoperti da un trentennio – non potrà mai essere spietata quanto quella di chi osserva da un altro punto geografico e “di potenza”.
A questo compito assolve perfettamente l’editoriale di Guido Salerno Aletta pubblicato ieri su TeleBorsa. Il quale inquadra sia la Storia degli errori commessi fin qui sia la follia della “soluzione” immaginata dall’amministrazione Biden per uscirne fuori: la “guerra alla Cina”. Guarda caso, nel momento in cui questa diventa la prima potenza commerciale, superando proprio gli Usa.
Tutto per non rinunciare al vero dogma neoliberista: la “politica” al servizio dell’impresa, mai viceversa…
Buona lettura.
Il nervosismo è cominciato ieri negli Stati Uniti, fonte e origine di ogni problema sistemico del pianeta. Qualcuno è andato a spulciare le carte della Federal Reserve, che pure in quelle ore confermava le scelte di lunga data: tassi di interesse invariati tra lo 0 e lo 0,25% e identico livello degli acquisti di titoli (pubblici e privati), che resta inchiodato a 120 miliardi di dollari al mese.
È questo, insieme alle identiche scelte della Bce e della Banca d’Inghilterra, il fiume di droga pesante che scorre nelle arterie dei mercati finanziari, impedendo da oltre un decennio quella “correzione” mostruosa che farebbe sembrare un semplice inciampo la crisi del ‘29.
La “carta misteriosa” che ha innervosito gli “investitori” è il dot plot, un banale grafico che registra le previsioni fatte da ogni funzionario del Fomc della Fed. Questa volta 13 banchieri su 18 hanno indicato come probabile un aumento dei tassi di interesse entro la fine del 2023. A marzo (ultima edizione del dot plot) erano solo sette.
Potrà certamente sembrare eccessivo agitarsi per una “stima” così aleatoria che si riferisce comunque ad eventi possibili tra un paio di anni. Ma proprio l’eccesso di reazione – da veri tossicodipendenti – dà la misura della stato reale dei “mercati finanziari”.
Tanto che il numero uno della Fed, Jerome Powell si è sentito obbligato a precisare che al Fomc “non abbiamo avuto nessuna discussione su un rialzo dei tassi su nessun anno, perché sarebbe stato ampiamente prematuro farlo. E i dot plot non sono un grande previsore sulle future mosse, data l’elevata incertezza, vanno presi con cautela“.
“Stime” individuali a parte, il problema reale che innervosisce chi guadagna sui movimenti di borsa è l’aumento congiunturale dell’inflazione, dovuto alla crescita dei prezzi delle materie prime e di alcune componenti indispensabili per la produzione (a partire dai microprocessori) in seguito alla “ripartenza” generalizzata post-Covid.
Cambiare gli obbiettivi giornalieri di produzione nelle miniere non è altrettanto immediato che cliccare sul tasto “compra” o “vendi”. E in quel lasso di tempo il prezzo sale sulla spinta della domanda.
Ma al fondo di tutto c’è la spaventosa crisi economica e sociale statunitense. Il nuovo ministro del Tesoro, nonché ex presidente della Fed, Janet Yellen, è intervenuta ieri alla Commissione finanze del Senato Usa, per sostenere la proposta di budget da 6.000 miliardi di dollari dell’amministrazione Biden per l’anno fiscale 2022. Equivale ad innalzare il debito pubblico di circa il 30%, in un colpo solo.
Le ragioni per fare una manovra così gigantesca le ha spiegate in modo chiarissimo: “La pandemia non è il nostro unico problema economico. Molto prima che un singolo americano venisse infettato dal Covid-19, milioni di persone in questo Paese stavano affrontando una serie di sfide economiche strutturali a lungo termine che hanno minato la loro capacità di guadagnarsi da vivere“.
L’american way of life ha smesso di essere un sogno realizzato e si è trasformata in un incubo: basta ricordare che oltre 100 milioni di persone in età da lavoro (su 260 milioni) sono attualmente disoccupate e senza alcuna speranza di trovare lavoro.
Questa situazione è alla base della radicalizzazione del conflitto sociale e politico negli States (su fronti opposti, dal trumpismo a Black Lives Matter), costringendo la Yellen a citare le diseguaglianze: “mentre chi guadagna di più ha visto crescere il proprio reddito, le famiglie nella fascia più bassa hanno visto la loro retribuzione stagnare“.
E anche sul fronte delle questioni di genere, fiore all’occhiello della propaganda, le cose stanno in modo assai diverso: “anche prima della pandemia, la quota di donne americane nella forza lavoro era molto indietro rispetto a molte altre nazioni ricche“.
Per finire con il cambiamento climatico, per il quale è previsto un raddoppio dei danni da disastri naturali ogni cinque anni, e ovviamente la disuguaglianza razziale.
Implacabile anche il riconoscimento della cause di tutti questi problemi: “Ci sono ragioni chiare per cui queste forze distruttive si sono inasprite. Il settore privato non fa abbastanza investimenti per invertirli, come programmi di formazione che possono portare a salari più alti, assistenza all’infanzia e congedi retribuiti che aiutino le persone a reinserirsi nel mondo del lavoro o infrastrutture che abbasserebbero le emissioni di carbonio e stimolerebbero la crescita nelle comunità trascurate. Per 40 anni non lo abbiamo fatto. Non quanto avremmo dovuto“.
È il fallimento di un sistema economico che è stato egemone sul pianeta per 70 anni. La dimostrazione vivente che i “valori” sbandierati sono solo “chiacchiere e distintivo”.
Ma per quanto cruda possa essere l’autodiagnosi di un funzionario di altissimo livello di quel mondo – Yellen non è certo innocente per questa situazione, visti i ruoli ricoperti da un trentennio – non potrà mai essere spietata quanto quella di chi osserva da un altro punto geografico e “di potenza”.
A questo compito assolve perfettamente l’editoriale di Guido Salerno Aletta pubblicato ieri su TeleBorsa. Il quale inquadra sia la Storia degli errori commessi fin qui sia la follia della “soluzione” immaginata dall’amministrazione Biden per uscirne fuori: la “guerra alla Cina”. Guarda caso, nel momento in cui questa diventa la prima potenza commerciale, superando proprio gli Usa.
Tutto per non rinunciare al vero dogma neoliberista: la “politica” al servizio dell’impresa, mai viceversa…
Buona lettura.
*****
La Nuova Grande Muraglia, Anti-cinese
La Nuova Grande Muraglia, Anti-cinese
Guido Salerno Aletta – Agenzia TeleBorsa
Sono proprio orfani della Cortina di Ferro, alcuni Americani: al Vertice Nato di Bruxelles, dopo il G7 in Cornovaglia, è stato il Presidente americano Joe Biden, a chiamare a raccolta gli alleati europei per confinare la Cina, il colosso asiatico che cresce da due decenni a ritmi vertiginosi, macinando record sconosciuti alle economie del Vecchio Mondo.
È il modello cinese che non va: è la Politica, a Pechino, che decide. Non subisce, come avviene a Londra ed a New York, il ricatto dei Mercati e della Finanza: sono loro, la City e Wall Street a dettare Legge, non i Parlamenti. Le democrazia è succube: la linea politica mercatista è una sola, ed è sempre la stessa, anche se i commedianti si alternano sulla scena.
La piroetta geopolitica, a cinquant’anni esatti dal viaggio compiuto da Henry Kissinger a Pechino per preparare l’incontro tra Richard Nixon e Mao Tse-Tung, che ha aperto una lunghissima stagione di cooperazione in funzione antisovietica, la Cina si è ormai trasformata in un incubo per gli Usa. Un colosso economico, un nemico politico che sta allargando pericolosamente la sua area di influenza.
Si ripete, da parte americana, il voltafaccia di Harry Truman nei confronti dell’URSS, alleato di comodo per combattere gli eserciti del Reich che avevano invaso l’Europa. E Stalin già si lamentava con Roosevelt per i ritardi ingiustificabili della invasione americana che avrebbe dovuto quanto meno distogliere un po’ di truppe tedesche dal fronte orientale, per alleggerirne lo sforzo dei soldati sovietici.
Fu Churchill, il Premier inglese, ad auspicare che una Cortina di Ferro finalmente isolasse l’URSS ed i suoi Paesi satelliti dal resto del mondo occidentale. Solo un nemico potentissimo e letale poteva tenere unito insieme l’Occidente frastornato dopo due Guerre Mondiali.
La crescita travolgente dell’economia cinese, a ben vedere, ripete il paradigma degli Usa che approfittarono delle due guerre mondiali, combattute sul suolo europeo, per divenire nei trent’anni che vanno dal 1915 al 1945 la più grande e prospera nazione del mondo. Mentre gli europei si scannavano a milioni, l’America produceva per tutti, arricchendosi.
La Cina ha fatto lo stesso: ha approfittato della guerra economica antipopolare che è stata combattuta in Occidente a partire dall’Era di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, a suon di liberalizzazioni, deregolamentazioni, delocalizzazioni, abbattimenti del welfare e precarizzazione del lavoro: il loro mantra era “There Is No Alternative“.
A partire dagli Anni Ottanta, l’Occidente ha deindustrializzato la produzione: la Old Economy, la produzione manifatturiera, era sinonimo di Classe Operaia, di diritti sindacali, di scontri sociali, di scioperi a ripetizione e di rivendicazioni salariali.
Con la Caduta del Muro di Berlino, nel ’92, venne finalmente meno la paura che i Partiti Comunisti europei potessero prendere il potere democraticamente: da allora, è stato un gioco al massacro contro la classe media, quella che aveva beneficiato della crescita economica facendo da argine alla Sinistra.
E così, nel 2001, il Presidente americano Bill Clinton spalancò le porte del WTO alla Cina, garantendole condizioni economiche e valutarie eccezionalmente favorevoli: avendo costi del lavoro irrisori e beneficiando della disponibilità gratuita dei brevetti delle imprese che andavano a produrre in quello Stato come azionisti di minoranza, la Cina poteva sbaragliare la concorrenza sull’intero mercato mondiale.
Mentre la Cina cresceva a ritmi, lo ripetiamo, vertiginosi, l’Occidente si baloccava con la finanziarizzazione dell’economia, subendo dapprima lo scoppio della bolla di Internet nell’inverno del 2001, avvenuto per ironia della sorte solo pochi giorni dopo l’annuncio trionfale dato da Clinton a Davos dell’ingresso della Cina nel WTO, e poi quella devastante del 2008, causata dai mutui sub-prime erogati in America ad individui e famiglie che non potevano rimborsarli, per rivenderli all’estero dopo essere stati cartolarizzati.
Chi li intermediava fece affari d’oro, lasciando ai gonzi che compravano i titoli una assai triste sorpresa: d’improvviso, i titoli persero ogni valore.
La Grande Crisi Finanziaria è stata catastrofica, come quella del ’29: non erano state solo le famiglie americane ad indebitarsi senza limiti per acquistare beni immobili, ma anche quelle spagnole. E le banche spagnole, così come quelle irlandesi e greche, si erano indebitate all’estero.
Anni di pandemonio finanziario presentavano il conto.
In Occidente, il collasso è derivato dall’azzeramento dei risparmi delle famiglie, che sono state illuse di poter accedere a livelli superiori di benessere indebitandosi: bassi salari ed alti debiti. Una follia.
In Cina, al contrario, le famiglie sono state costrette a risparmiare: all’inizio non c’era quasi nessuna forma di welfare pubblico e per di più i rendimenti sui depositi bancari erano plafonati al ribasso mentre gli interessi sui debiti erano tenuti al di sotto dell’inflazione.
Così, in Cina si favoriva la produzione a discapito del risparmio, che veniva ad essere ancor più importante: le famiglie non si arricchivano con gli interessi maturati sui depositi bancari.
In Occidente si è fatto il contrario, ma usando la Borsa: tanti si sono illusi di diventare ricchi scommettendo su un titolo piuttosto che su un altro asset.
In Occidente, la ricchezza finanziaria cresce a vista d’occhio, giorno dopo giorno, anche se l’economia reale ristagna. Perfino quando c’è una crisi economica generalizzata, come quella che abbiamo sotto gli occhi per via dell’epidemia di Covid-19, le Borse continuano a salire. Le banche centrali immettono liquidità, e la giostra vola.
Fa un po’ sorridere, questa chiamata alle armi contro la Cina: Pechino è solo il risultato della combinazione tra la turbo-finanza americana e l’ordoliberismo tedesco.
Squassato dalle crisi, l’Occidente viene chiamato a fare Muro contro la Cina: ma non ha da decenni un modello di crescita economica credibile, con la finanza che spadroneggia e con gli imprenditori che devono fare i conti con un sistema bacato, basato solo sull’export.
Dopo aver distrutto la domanda interna, la manifattura e la classe media, ora l’Occidente si scaglia contro la Cina che ormai cresce da oltre dieci anni seguendo questi paradigmi, proprio che furono alla base della economia Occidentale subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Non essendo riusciti ad omologare la Cina all’Occidente, ora bisogna isolarla: è inammissibile che il Capitalismo venga regolato dalla Politica.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento