Iniziato il 1 maggio, il ritiro delle truppe USA e NATO dall’Afghanistan dovrebbe vedere il clou proprio il 4 luglio, per poi concludersi simbolicamente (?) l’11 settembre. Qual è la situazione nel paese e alle immediate frontiere coi paesi vicini?
Il 30 giugno Stanislav Tarasov scriveva, su IA-Regnum, che le ex Repubbliche sovietiche di Tadžikistan e Uzbekistan hanno già messo le truppe in assetto di guerra: gli americani lasciano l’Afghanistan, ma i politici afghani non riescono a superare le divisioni, i talebani avvertono di avere una tale forza che nemmeno il Pakistan può costringerli a fare concessioni e vari parlamentari afghani sostengono che «il governo ha perso il controllo della situazione».
La questione della forza, vera o presunta dei talebani, è oggetto di discussione sui media russi. Ciò non toglie che i timori dati dagli “sconfinamenti” siano tutt’altro che sottaciuti.
Per la maggior parte del decennio 2001-2011, ricorda ancora Tarasov, le province settentrionali dell’Afghanistan sono state relativamente pacifiche. Pertanto, Turkmenistan, Uzbekistan e Tadžikistan non avevano particolari motivi di preoccupazione.
Dal 2013, però, si erano intensificati gli scontri tra forze di sicurezza afghane, talebani e altre formazioni, spesso proprio sui confini con Turkmenistan e Tadžikistan.
Oggi, Nikolaj Protopopov su RIA Novosti lancia l’allarme su interi distretti, decine di villaggi e basi militari già finiti in mano talebana, con centinaia di morti e feriti. La situazione sarebbe estremamente tesa ai confini afghano-tadžiki, con centinaia di soldati afghani che, non riuscendo a tener testa ai talebani, si rifugiano oltre il confine sudoccidentale del Tadžikistan; più o meno stessa situazione sul confine con l’Uzbekistan, con decine di profughi civili afghani.
Alcuni osservatori citati da Tarasov ritengono che sia difficile rimanere ottimisti sul fatto che le forze governative afghane siano in grado di resistere a lungo ai talebani nel nord dell’Afghanistan, dove rimane anche l’incognita di Abdul Rashid Dostum, il maresciallo di origine uzbeka che nel periodo della Repubblica democratica aveva combattuto dalla parte del governo di Mohammad Nadžibullāh, per poi passare, nel 1992, dalla parte dei mujāhidīn e da allora presidente del Movimento islamico nazionale dell’Afghanistan.
Nella seconda metà degli anni ’90, ricorda Tarasov, con i successi dei talebani nel nord afghano, Taškent aveva preso a sostenere proprio Dostum, mentre Dušanbe appoggiava Aḥmad Shāh Masʿūd, il “leone del Panjshir” di origine tadžika.
Ora che le forze governative afghane sono indebolite, qualcuno a Taškent e Dušambe potrebbe voler cercare uomini di fiducia afghani a difesa dei confini uzbeki e tadžiki. Con quali riscontri a medio-lunga scadenza, vien da chiedersi, è tutto da vedere.
In generale, comunque, sui media russi si ritiene che i successi talebani siano sopravvalutati e i loro attacchi siano destinati a esaurirsi, per mancanza di risorse – ovviamente, se nessuno si preoccuperà di foraggiarli, vorremmo aggiungere – e, inoltre, si osserva che i talebani ambiscono oggi al riconoscimento internazionale e sarebbe fuori luogo per loro creare minacce ai paesi vicini.
Al Dipartimento “Asia” del Ministero degli esteri russo tendono per il momento a sdrammatizzare: «Ci sono circa 300 distretti in Afghanistan; certo, sono in corso combattimenti. Ma, se i talebani avessero conquistato almeno uno o due centri provinciali dalla primavera a oggi, si potrebbero trarre conclusioni. Ma non ne hanno preso nemmeno uno. Ciò significa che anch’essi hanno limitate possibilità».
Meno ottimisti al Ministero della difesa: il Ministro Sergej Šojgù condivide i timori del Presidente afghano Ashraf Ghani, il quale non esclude l’inizio di una guerra civile dopo il 4 luglio. Così al dicastero russo si invita alla massima vigilanza, soprattutto da parte dei paesi della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Russia, Cina, India, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Pakistan, Tadžikistan e Uzbekistan; più una decina di altri paesi in qualità di osservatori o di “partner per il dialogo con la OCS”), che confinano con l’Afghanistan. Secondo Šojgù, «è impossibile sciogliere il nodo afghano senza interagire con Islamabad e Teheran».
Già nel corso della riunione dei Paesi membri del Trattato per la sicurezza collettiva (ODKB: Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia e Tadžikistan) in maggio a Dušanbe, il Ministro degli esteri tadžiko, Sirodžiddin Mukhriddin, aveva lanciato l’allarme sulla questione afghana, che «incide direttamente sulla situazione nella regione centro-asiatica. Esaminato il problema attraverso il prisma del ritiro delle unità militari della coalizione occidentale dall’Afghanistan» si era giunti all’opinione unanime di «rafforzare i confini meridionali della ODKB».
Nei giorni scorsi, poi, alla seduta del Consiglio parlamentare del ODKB, è stato constatato l’aggravamento della situazione ai confini meridionali della coalizione, con l’intensificarsi degli scontri soprattutto nel nord afghano.
Secondo l’osservatore militare Konstantin Sokolov, citato da Protopopov, la situazione ripete alcuni aspetti di quella siriana, in cui, nel caso le forze governative fossero state sconfitte, il grosso degli islamisti si sarebbe riversato sui confini russi.
Pur nella “calma” di alcuni dipartimenti ufficiali russi, opinione abbastanza diffusa è comunque che responsabile della situazione sia «l’affrettata decisione USA di lasciare l’esercito afghano faccia a faccia coi radicali» e la deduzione che se ne trae è che dietro il ritiro delle truppe NATO si nasconda una ben pianificata azione yankee: esacerbare al massimo la situazione ai confini con la Russia.
Anche secondo Sokolov, il ritiro USA è «un atto ben studiato, volto a disturbare la Russia. Washington sa bene che il processo andrà oltre, verso nord e gli Stati Uniti lo guideranno da dietro le quinte. Mosca deve aspettarsi un aggravamento della situazione nelle repubbliche dell’Asia centrale e non è escluso che si arrivi fino alle nostre periferie».
Secondo la direttrice del RusStrat, Elena Palina, lo sviluppo degli avvenimenti afghani segue uno scenario negativo. I talebani dichiarano di controllare l’80% del territorio del Paese e l’obiettivo di questa organizzazione rimane lo stesso: la creazione di un Emirato islamico.
Ora, il governo di Kabul nega che i talebani controllino l’80% del territorio; ma, anche se si tratta non di controllo effettivo, ma di territori contesi, resta il fatto che, coi talebani attestati sulla frontiera, appena un’ottantina di km li separano dalla 201° base russa a Qurǧonteppa (Kurgan-Tjube per i russi) in Tadžikistan.
In territorio tadžiko c’è poi anche un’altra istallazione russa: il complesso optico-elettronico “Finestra”, di controllo dello spazio cosmico, presso la città di Nurek, una sessantina di km a sudest della capitale Dušanbe.
La situazione è aggravata dal fatto che parte della popolazione tadžika simpatizza coi talebani e questo, nota Panina, costituisce il maggiore fattore di rischio per il Paese e per la presenza russa. Una molto probabile variante di sviluppo degli eventi in Afghanistan è infatti la diffusione delle idee del Califfato islamico nei paesi vicini, in primo luogo Tadžikistan e Uzbekistan.
C’è poi da considerare anche un altro fattore nella crisi afghana. Alla fine di giugno, una delegazione del Pentagono era arrivata in Turchia per chiedere di garantire la sicurezza dell’aeroporto internazionale di Kabul, ma il Ministro della difesa Hulusi Akar aveva risposto che Ankara non avrebbe inviato in Afghanistan altri soldati, oltre i 500 presenti, «per garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul dopo la partenza delle truppe USA e NATO».
C’è da dire che, garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul significa in realtà la possibilità di una presenza permanente. Il passaggio del “controllo” in mani turche, aumenterebbe il prestigio di Ankara: se la situazione dovesse precipitare, il personale diplomatico dovrebbe essere evacuato dall’aeroporto di Kabul e varie missioni diplomatiche hanno dichiarato di non voler rimanere nel paese se l’aeroporto internazionale non sarà protetto.
Ciò significa che il paese che garantisce tale protezione rafforzerà il proprio ruolo negli affari afghani e la Turchia potrebbe davvero diventare una delle forze chiave, senza sconvolgere gli equilibri o entrare in conflitto con altri attori regionali influenti.
Ecco quindi che la carta afghana viene vista dalla Turchia quale strumento di pressione su NATO, USA e UE. E, però, il rafforzamento della Turchia, significa anche il rafforzamento del fattore islamista in Afghanistan e a ciò non sono interessati né Mosca, né gli “altri potenti attori regionali”.
D’altronde, gli stessi talebani hanno dichiarato che anche la Turchia, in quanto membro NATO, deve lasciare il paese e la stessa opinione è condivisa da Mosca. All’interno della stessa Turchia, poi, varie voci evidenziano il pericolo, in caso di permanenza di soldati turchi in Afghanistan, di «nuovi problemi sia con Kabul, che con Mosca, Pechino, Teheran».
Sembra proprio che il paese debba esser lasciato in balia di se stesso. Quanto a lungo, è presto per dirlo.
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