Un rilievo interessante del dibattito antropologico sulla guerra a seguito del conflitto del Vietnam lo troviamo nell’antologia, curata da Johnathan Haas, Anthropology of war (Cambridge University Press, 1990). Il libro, che è un riflesso di un dibattito collettivo su origini ed evoluzione della guerra durato dal conflitto del Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino, ci porta sul terreno antropologico delle origini dell’evoluzione della guerra come strumento di lettura dei conflitti in corso.
Nel testo curato da Haas emergono una serie di categorie di lettura delle origini della guerra (materiali, ambientali e storiche) che possono combinarsi tra loro assieme a quelle legate al mantenimento della guerra. In questo modo si mostra come la razionalità dello scatenamento della guerra sia differente da quella del suo mantenimento che inoltre trova, strada facendo dopo l’esplosione del conflitto, nuove origini, nuove motivazioni e nuove cause di spiegazione. E, non finisce qui, non solo il mantenimento dello stato di guerra ha cause, e motivi, autonomi rispetto alle sue origini ma è anche un elemento propulsore dell’evoluzione dei sistemi culturali che hanno prodotto la guerra.
In poche parole la guerra, interrogata in quella striscia di vent’anni di analisi antropologica nel libro curato da Haas, è un fenomeno socialmente devastante le cui cause variano, individuate da uno schema concettuale che deve adattarsi a un contesto sempre originale, mentre le dinamiche di durata sfuggono alle stesse ragioni originarie e, in questo scenario, il sistema culturale delle società in guerra è irrimediabilmente sottoposto a mutazioni. La guerra è quindi un fenomeno socialmente dirompente, estremo negli effetti materialmente distruttivi, le cui dinamiche tendono a sfuggire a chi l’ha causata e a chi la sostiene e, va aggiunto, tendono a sfuggire anche a chi vince come evidenziava lo stesso Kant nel rapporto tra stato, guerra e peso del debito pubblico.
In questo senso la questione della Crimea e del Donbass è, sicuramente, tra le prime cause del conflitto russo-ucraino, il mantenimento della guerra corre già su altre dinamiche – quelle di una crisi globale, di una guerra finanziaria, della costruzione del consenso tramite lo spettacolo del conflitto – e i sistemi culturali evolvono verso schemi di contrapposizione tra occidente e Russia persino più rigidi di quelli della guerra fredda. La stessa evoluzione del pensiero bellico rende poi difficilmente pensabile una messa a ordine, non solo concettuale, della guerra specie quando si tratta di prendere atto di una netta separazione tra filosofia e teoria della guerra che è caratteristica, da tempo, dello stesso episteme occidentale. Insomma, se la complessità è sovrapposizione tra livelli di ordine e di caos, la guerra e la pensabilità della guerra riproducono continuamente caos, l’ordine e la capacità ordinatrice non sembrano stare dalla parte della politica. La guerra oggi è la continuazione della politica con altri mezzi semplicemente passando da uno stato caotico all’altro.
Qui, se diamo un’occhiata ai due grandi classici della teoria della guerra, Sun-Tzu e appunto Clausewitz, vediamo come entrambi siano inquadrabili come filosofie. Clausewitz applicando esplicitamente l’idea di sistema filosofico alla pratica della guerra, Sun-Tzu, contemporaneo di Confucio, scrivendo l’Arte della guerra anche come trattato di disciplina personale, di filosofia interiore. La guerra è quindi, in entrambi, il fatto sociale totale che deve essere domato nell’intreccio tra filosofia e teoria dell’uso delle armi.
Certo in Cina subito dopo Sun-Tzu come in occidente prima ancora del medioevo, con Sant’Agostino, le modalità di separazione tra filosofia e teoria dell’uso delle armi si mostrano in tutta la loro forza: quella di dare, progressivamente, alla filosofia un ruolo di giustificazione della guerra, lasciando la teoria dell’uso delle armi ai militari. Un processo di apparente smilitarizzazione della filosofia, di sua specializzazione nella giustificazione teorica della guerra per conto dello stato, di estensione della capacità militare di produrre teoria dell’uso delle armi. Agli albori del capitalismo la separazione tra etica ed efficienza, rintracciabile in Hume, rende poi la distinzione tra filosofia e teoria della guerra più produttiva e proiettata nella futura nuova dimensione tecnologica della guerra. In questo senso Clausewitz rappresenta, in epoca romantica, un tentativo di sfuggire a questa separazione per domare il caos degli eventi tenendo assieme filosofia, politica e teoria della guerra.
Nella nostra contemporaneità il rapporto tra filosofia e guerra risente strutturalmente della cesura operativa tra pensiero filosofico e teoria della guerra che ha visto un ultimo tentativo di chiusura, nella prima metà dell’800, in Clausewitz. Inoltre, tanto più le società evolvono in termini di complessità tanto più proliferano le differenti etiche di giustificazione della guerra, o della critica alla guerra, e tanto più emergono teorie della guerra concorrenti tra loro, capaci di adattarsi alle mutazioni delle dinamiche di conflitto.
Fermandoci al caso ucraino, quello che abbiamo davanti agli occhi, vediamo come la separazione tra filosofia, in questo caso rappresentata quasi esclusivamente dall’etica, e teoria della guerra alimenti sempre di più il caos piuttosto che portare livelli di ordine nell’alta complessità, e drammaticità, sociale alimentata dalla guerra.
Si pensi allo scontro tra etiche, giustificazioniste, delle ragioni del governo Zelensky o del Donbass oppure alle etiche equidistanti tra le parti in guerra. Oltre ad alimentare il conflitto tra loro, è nella natura dei processi di giustificazione di generare conflitti culturali e politici, ognuna di queste etiche si basa soprattutto sui principi piuttosto che sul governo della forza tramite la teoria militare. Abbiamo così un’etica senza una reale forza materiale ma anche una forza materiale che si esprime tramite la teoria della guerra e quindi a prescindere dai principi etici. In entrambi i casi un contributo centrifugo alla dinamica caotica della guerra già ingovernabile fino dalle cause scatenanti.
Domare il caos è un compito tremendo, quanto necessario, durante la guerra. Senza analisi antropologica delle dinamiche di scatenamento della guerra, specie quando il caos è alimentato dallo spettacolo mediale e dei social, non c’è comprensione delle dinamiche, sociali e di potere, in atto. Ma senza un processo di riunificazione tra filosofia e teoria della guerra, che può chiamarsi anche politica, si alimenta ulteriormente il caos, culturale e materiale, credendo di portare ordine. Specialisti dei processi di giustificazione, di processi che non controllano, e analisti di una guerra inquadrata in formule di narrazione mediale non servono a molto di fronte a un abisso, quello della guerra, che è il più profondo e inquietante di tutti.
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