Il 24 marzo del 1999 aerei NATO partiti da aeroporti italiani bombardarono le città di Belgrado e Pristina. Domani, rispetto a quando scrivo, ricorrono 23 anni da quella infausta data.
Una premessa: ricordando questa data e alcuni fatti connessi a questa guerra non intendo suggerire alcun giudizio sull’attuale conflitto russo – ucraino. La presente è solo una considerazione su come l’attuale informazione dall’alto è intrisa di menzogna e violenza psicologica. Ognuno tragga le conseguenze che vuole o che può. Come suol dirsi, ogni riferimento a vicende attuali è puramente casuale.
Torniamo alla guerra della NATO contro la Jugoslavia. Durante i tre mesi di bombardamenti di città e villaggi, sono stati uccisi 2.500 civili, tra i quali 89 bambini, 12.500 feriti. In queste cifre non sono comprese le morti di leucemia e di cancro causate dagli effetti delle radiazioni delle bombe a uranio impoverito. Queste le parole di Boris Tadić, presidente della Serbia dal 2004 al 2012, nel decennale dei bombardamenti, davanti al Consiglio di Sicurezza della Nato, ricordando i 2.300 attacchi aerei che hanno distrutto 148 edifici, 62 ponti, danneggiato 300 scuole, ospedali e istituzioni statali, così come 176 monumenti di interesse culturale e artistico.
Come si vede i bambini (e le donne) vengono ovviamente uccisi in tutte le guerre, anche se si usano “bombe intelligenti”. Oggi ben sappiamo che le guerre, per essere giustificate presso l’opinione pubblica, devono essere umanitarie (Iraq, Afganistan, Libia, Siria...). Nel caso specifico venne tutto preparato psicologicamente in anticipo per influenzarla, secondo i nuovi canoni delle guerre umanitarie.
Jože Pirjevec, autore de Le guerre jugoslave 1991-1999 (ed Einaudi, 2001), che all’epoca era professore di Storia dei paesi slavi all’Università di Trieste, scrive nel libro:
Per rafforzare tale convinzione (cioè che in Kosovo erano in atto massacri da parte dei serbi, nota di chi scrive) nella coscienza dei telespettatori occidentali, furono mobilitati alcuni noti psicologi e manipolatori dell’opinione pubblica, fatti venire espressamente da Washington, Londra, Bonn, Parigi e Roma a Bruxelles, dove fu organizzato, dopo la prima settimana della campagna, un Centro Operativo Media (MOC) incaricato di informare i giornalisti accreditati presso la NATO nella maniera “giusta”. L’unica battaglia che avremmo potuto perdere, disse Alain Campbell, il Rasputin di Blair che lo aveva mandato a dirigere questa postazione chiave, era quella per i cuori e le menti. Le conseguenze sarebbero state la cessazione dei bombardamenti da parte della NATO e la sconfitta in guerra. (pag.617)
Presidente del Consiglio in Italia allora era Massimo D’Alema, e Lamberto Dini era ministro degli esteri. Il primo, come ricorderete, era uomo di spicco della sinistra mentre il secondo era attribuito al centro destra. Scrive ancora Pirjevec:
In questa atmosfera di demonizzazione dei serbi (fosse comuni a iosa in Kosovo), furono vani gli appelli di Dini, che, sotto pressione di buona parte dell’opinione pubblica italiana, propose più volte l’interruzione dei bombardamenti. Alla vigilia della Pasqua, che cadeva il 4 aprile, egli fece proprio l’invito del Papa affinché almeno durante le feste i raid aerei fossero sospesi. Ma Joschka Fisher (decantato leader dei verdi tedeschi,) – per quanto vicino agli italiani – tagliò corto: "Che cristiano è quello che si ferma per permettere ad altri cristiani di ammazzare i musulmani?" I principi etici della campagna furono ribaditi anche dal segretario della NATO, che il 7 aprile tenne dinanzi alla Commissione dei Diritti dell’uomo delle Nazioni Unite un discorso in cui, oltre a sostenere che in Kosovo veniva attuato con ogni probabilità (Sic! Corsivo dello scrivente) un genocidio, affermò che stava emergendo una nuova norma internazionale contro la repressione violenta delle minoranze, la quale doveva avere la precedenza sulle preoccupazioni relative alla sovranità: nessun governo aveva il diritto di nascondersi dietro la sovranità nazionale per violare i diritti dell’uomo. (pagg. 618/619)
In altra occasione Dini aveva insistito nella proposta d’interrompere i bombardamenti e fu freddato da Madelene Albright che nel clima di falsa familiarità che vige in queste riunioni, lo gelò dicendo Proprio non ti capisco, Lamberto. Ricordo anche che D’Alema, nel corso di una riunione tenutasi 10 anni dopo, interrogato se avesse cambiato opinione sulle ragioni della guerra dopo che indagini di una commissione delle Nazioni Unite aveva cambiato sostanzialmente il quadro conoscitivo, affermò che l'avrebbe rifatta. L’inganno delle etichette. Per inciso Madeleine Albright, segretario di stato statunitense, giocò un ruolo fondamentale per scatenare la guerra della NATO tanto che questa fu definita dallo stesso Washington Post come la guerra di Madeleine.
Sulle cifre del presunto genocidio elevate all’ennesima potenza c’è stata una danza infernale (fino a ottocentomila vittime, si disse per sollecitare l’intervento!). In Italia Walter Veltroni, sempre all’erta per non essere da meno dell’eterno rivale D’Alema di fronte all’opinione pubblica, sposò la menzogna, affermando che il Kosovo era scenario del “più terribile genocidio degli ultimi cinquant’anni dopo l’Olocausto”. L’ONU anni dopo ridimensionò i morti totali in Kosovo a meno di diecimila. Ancora tanti, certo. Tutti in carico ai serbi? No certamente, come certificò la stessa ONU. La letteratura oggi disponibile per ricostruire la verità è vasta e consolidata ma, come sappiamo, nell’opinione pubblica è la prima versione quella che resta. Serbi infami...
Nell’introduzione al libro Menzogne di guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo di Jürgen Elsässer, redattore del mensile tedesco Konkret (ed. La Città del Sole, 2002) Andrea Catone racconta come la Hill&Knowlton, ditta USA di pubbliche relazioni, specializzata nella creazione d’immagini positive per le dittature di tutto il mondo, si fosse adoperata per diffondere l’immagine serbi=nazisti dopo che il New York Times del 23 agosto 1992 aveva pubblicato: I servizi d’informazione USA hanno raddoppiato gli sforzi ma non hanno trovato alcuna prova di sistematici massacri dei prigionieri croati o musulmani nei campi serbi. Sempre nell’introduzione, si riporta una intervista a James Hart, direttore dell’agenzia Ruder&Finn, una delle agenzie implicate nel piano per influenzare l’opinione pubblica mondiale e dalla quale estraiamo una parte:
[…] La cosa è andata in maniera formidabile: l’ingresso in gioco delle organizzazioni ebraiche a fianco dei bosniaci fu uno straordinario colpo a poker. Automaticamente abbiamo potuto far coincidere, nell’opinione pubblica, serbi e nazisti. Il dossier era complesso, nessuno capiva cosa succedeva in Jugoslavia, ma in un colpo solo potevamo presentare una situazione semplice, con buoni e cattivi. Immediatamente ci fu un cambiamento molto netto nel linguaggio della stampa con l’uso di termini ad alto impatto emotivo, come “pulizia etnica”, “campi di concentramento”, ecc., il tutto evocante la Germania nazista, le camere a gas di Auschwitz. La carica emotiva era così forte che nessuno poteva più andarvi contro che quello che dicevate era vero”, a rischio di venire accusato di revisionismo.
Domanda: Ma tra il 2 e il 5 di agosto voi non avevate nessuna prova che quello che dicevate era vero.
Risposta: Il nostro lavoro non è verificare l’informazione. Noi non abbiamo affermato che esistevano dei campi della morte in Bosnia, noi abbiamo fatto sapere che lo affermava Newsday.
D.: Vi rendete conto della vostra enorme responsabilità?
R.: Noi siamo professionisti. Avevamo un lavoro da compiere e l’abbiamo fatto. Noi non siamo pagati per fare la morale.
Continuiamo a farci raccontare da TV e giornali la guerra ora in corso.
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