La guerra in Ucraina è la guerra dei rovesciamenti. Valori, parole, ideologie, universi concettuali che avevano mantenuto – con molta fatica, certo – una loro coerenza interna per quasi 80 anni, vengono strumentalmente usati in senso opposto a quello originale.
Non in senso “diverso” – il che sarebbe tutto sommato comprensibile, visto che il tempo scorre e le cose cambiano – ma proprio opposto. Ossia per dire e significare il contrario. Per rendere accettabile qualcosa di orrendo, di defenestrato dalla Storia a prezzo di una guerra mondiale da milioni di morti.
Le cause di questi rovesciamenti stanno nelle cose. Negli ultimi 30 anni la guerra era stata mossa sempre da parte dell’Occidente, in nome di princìpi privi di contenuti precisi (“ingerenza umanitaria”, “esportazione della democrazia”, ecc.) e soprattutto privi di qualsiasi riconoscimento universale. Semplice “ornamento retorico” per una volontà di aggressione motivata da ragioni fondamentalmente economiche, per il controllo di risorse strategiche oppure per frantumare minuziosamente quel blocco unitario alternativo che era stata l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia.
Tutti si erano e ci eravamo abituati a questo schema. Chi sosteneva gli aggressori Usa/Nato lo faceva con scrupolo ma anche lasciando qualche spazio alla critica, o almeno al dubbio. Chi si opponeva, con gli scritti o nelle piazze, lo faceva come si fa qualcosa di doveroso ma in fondo inutile (nessuna guerra Nato si è mai interrotta per la pressione pacifista).
Alla fin fine ognuno poteva tenersi la sua opinione e continuare a dialogare con quelli sull’altro lato della barricata, “democraticamente”. Tanto la guerra la facevano altri e massacrava popoli lontani, trattati come untermeschen senza neanche doverli chiamare così. Persino la guerra nell’ex Jugoslavia – la prima vera guerra dentro l’Europa dopo oltre 50 anni – era stata in fondo derubricata ad evento “esotico” e, infatti, dimenticata da quasi tutti davanti a quella presente.
Tutti si erano abituati a vedere la guerra come un videogioco, attraverso i filmati ripresi dai sistemi di controllo dei droni o dei caccia: un edificio o un veicolo colpito da un razzo arrivato dal nulla, senza sangue, senza corpi per terra, senza sussulti emotivi.
Quella era la “guerra democratica”, asettica come un’operazione chirurgica fatta col laser. Indolore. Le “centinaia di migliaia di morti” venivano digeriti come una frase di prammatica, come se non corrispondessero a nulla di fisico, umano, concreto. Una contabilità da campo di sterminio nazista, ma “depurata” della rivendicazione esplicita, del frame “produttivistico”.
Al punto che persino l’agghiacciante risposta di Madeleine Albright, ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite dell’epoca, sul mezzo milione di bambini iracheni morti per cause “correlate all’embargo” (“È una scelta difficile, ma riteniamo che il prezzo valga la pena”, 12 maggio 1996), era stata fatta passare come una disattenzione, invece che per quel che è.
Erano tutte guerre asimmetriche, in cui uno solo dei contendenti possedeva tutto l’armamentario bellico (dai coltelli alle testate atomiche), mentre l’aggredito poteva opporre solo ferrivecchi, e in numero limitato. Paesi senza un “protettore atomico”, dopo la dissoluzione dell’URSS, e quindi condannati a subire qualsiasi cosa.
Tutte guerre che non potevano dunque contemplare alcuna escalation, nessun rischio di generalizzazione. Al massimo qualche risposta egualmente asimmetrica, come il terrorismo jihadista nelle metropoli dell’Occidente.
L’invasione russa dell’Ucraina ha rovesciato il format usandolo al contrario. Un paese conquistato dall’Occidente con un colpo di stato travestito da “rivoluzione arancione” (ad opera soprattutto di neonazisti) è stato invaso da chi – nell’ottica delle imperiali “aree di influenza” – se l’è visto sottrarre e contrapporre, con manovre militari Nato svolte di frequente su quel territorio e la possibile installazione di missili nucleari.
Lo sconcerto è stato enorme. L’impensabile – o soltanto l’inabituale – è avvenuto. L’espansione a Est ha ricevuto un brusco stop. Gli aggressori sistematici sono stati a loro volta aggrediti in terza persona. I carnefici si sono immediatamente messi i panni della vittima. La loro retorica di guerra – nell’impossibilità pratica di fare guerra, per il visibile rischio di escalation nucleare simmetrica – è andata a nutrirsi di parole, concetti, valori, che le erano estranei. Di più: nemici.
L’operazione più oscena è avvenuta su Resistenza e Partigiani. Utilizzando paragoni fasulli e una disinvoltura storiografica degna dei porci. Lo stesso meccanismo per cui si usa la parola “pace” per invocare l’invio di armamenti e dunque il possibile ingresso in guerra...
In cosa, infatti, sarebbero paragonabili la Resistenza (italiana ed europea) al nazifascismo e la resistenza ucraina all’invasione russa?
Lasciamo stare i dettagli omessi dai guerrafondai “liberali” (l’Ucraina ha uno Stato ed un esercito, i partigiani italiani no, anzi lo combattevano perché collaborazionista con l’invasore). Vediamo le ragioni diverse – e opposte – delle due lotte.
Come ricordato dallo storico e partigiano Claudio Pavone, la Resistenza italiana fu una triplice guerra: di “liberazione nazionale” o “patriottica” contro l’invasore tedesco, “civile” fra italiani fascisti e antifascisti e “di classe” fra componenti rivoluzionarie e classi borghesi.
Le forze irregolari ucraine (civili armati al fianco dell’esercito regolare) stanno sicuramente conducendo una “guerra patriottica” contro un’invasore, solo vagamente assimilabile a quella condotta dai partigiani italiani (fiancheggianti un esercito “liberatore” che bombardava anche la propria popolazione civile e si sarebbe ben presto rivelato un occupante ben più duraturo).
Di sicuro, però, le forze irregolari ucraine non stano conducendo una guerra civile antifascista. Anzi, proprio i nazifascisti sono l’elemento trainante anche sul piano militare (non solo il battaglione Azov, ma anche quelli denominati Dnepr-1, Ajdar, Odessa...).
Tanto meno quelle forze irregolari stanno conducendo una guerra di classe rivoluzionaria, avente per obiettivo un diverso ordinamento sociale, produttivo, redistributivo, politico.
Cianciare di “valori europei” difesi o fatti propri dai “resistenti ucraini” comporterebbe come minimo l’esplicitazione di quali siano questi “valori”. E di quelli sbandierati dagli stessi “resistenti” ucraini...
A nostro modo di vedere non ci sono rilevanti differenze di modello sociale tra Russia e Occidente (e la stessa Ucraina). Il capitalismo regna sovrano da entrambe le parti. Nella forma del neoliberismo anglosassone o dell’ordoliberismo teutonico, qui da noi. Nella forma dell’oligarchia cresciuta sulla privatizzazione di gas, petrolio, ecc., a Mosca, Kiev e dintorni.
Ma quali sarebbero le differenze tra oligarchi russi, ucraini (Kolomojskij, Poroshenko, Ahmetov, Pinchuk, ecc.) e occidentali (Bezos, Gates, Musk, e la non infinita serie di multimiliardari delle “nostre” parti)?
Dunque le forze irregolari ucraine, che certamente “resistono” all’invasione russa, stanno conducendo una “guerra patriottica”, di difesa/liberazione nazionale. Ma non sono né antifasciste né “rivoluzionarie”. Anzi, da anni gli antifascisti ucraini sono silenziati, repressi, incarcerati, uccisi. Sia dallo Stato che dalle milizie irregolari...
Le forze irregolari ucraine hanno insomma tutto il diritto di difendere il proprio paese. Ma chi li utilizza, chiamando “partigiani” i nazisti nostalgici di Bandera e delle SS, lo fa per cancellare l’antifascismo dal “senso comune” italiano ed europeo, da vero falsario ignobile.
Un “porco” – come giustamente venivano definiti i guerrafondai dal movimento pacifista Usa negli anni ‘60 e ‘70.
Il rovesciamento dei valori e delle parole produce un panorama storico fatto di macerie irriconoscibili. Un deserto dove si aggirano porci e topi di fogna. Questi ultimi sono sempre uguali a se stessi, a loro agio nel non doversi nemmeno sforzare di apparire diversi.
I pigs, al contrario, sono sempre al lavoro per sembrare “buoni”. Del resto, sono loro a comandare, e a servirsi anche dei secondi...
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