È difficile dare una spiegazione razionale del profluvio di insulti che arriva dalle cancellerie occidentali contro Putin. Il presidente russo non merita certamente l’oscar della simpatia, né tanto meno il premio Nobel per la pace (neanche Obama se lo meritava, ma è un’altra storia...), ma questa modalità “stradaiola” non è davvero usuale nella comunicazione ufficiale della diplomazia.
Non che siano mancate altre esagerazioni dello stesso genere, ma hanno riguardato sempre ed esclusivamente leader di paesi non in grado di confrontarsi militarmente con gli Stati Uniti.
Certo, l’Unione Sovietica, e anche la Cina o il Vietnam durante la guerra erano stati dipinti come “l’impero del male” e tutta la paccottiglia retorica partorita dall’anticomunismo spicciolo.
Ma, appunto, si era nella contrapposizione di sistemi e visioni del mondo. Il leader nemico veniva insomma descritto come crudele, intelligentissimo, perverso negli scopi e nei mezzi, ma non come un “pazzo”. Anche perché i pazzi non sono credibili a lungo come nemici veri. La Russia putiniana non è oltretutto “un altro sistema”, al massimo una variante locale del neoliberismo generale.
Joe Biden, invece, sta da giorni alzando il livello del puro insulto. Ieri, parlando a Varsavia, con davanti soprattutto i leader dei paesi dell’Est, è arrivato a dire che è “un macellaio“, e dunque “Per l’amore di Dio, quest’uomo non può restare al potere“.
Immediatamente tutti hanno capito quel che c’era da capire: gli Usa si danno e si daranno da fare per un “cambio di regime” a Mosca. Del resto è il loro modello di relazioni col resto del mondo negli ultimi 30 anni: “rivoluzioni arancioni” (i colori possono cambiare, ma la sostanza resta) per imporre governi fantoccio. Sanzioni, embargo e intervento militare se la “rivoluzione democratica” non riesce.
È andata così anche in Ucraina, con un doppio colpo (2004 e 2014) che aveva prima portato al governo Yanukovic (come “punto di equilibrio” tra est e ovest, ma con sbilanciamento verso l’Unione Europea), e successivamente con la mattanza di Majdan, affidata direttamente ai nazisti locali (e qualche georgiano...) santificati come “sinceri democratici filo-europei”.
Fatti noti, ma – appunto – riferiti a paesi della “periferia”, quelli abitualmente trattati dall’imperialismo yankee come pezze da piedi. Dichiarare che si sta seguendo lo stesso schema anche per una superpotenza nucleare – per quanto molto meno potente sul piano economico – non è una mossa molto furba. Anche perché espone chiaramente gli oppositori interni di Putin all’accusa di “intelligenza col nemico” (e qualcuno lo è effettivamente già da tempo).
Nelle relazioni internazionali tra “pari peso”, insomma, proprio non si può dire “cercherò di buttare giù il tuo governo”. È nei fatti una dichiarazione di guerra...
Abbiamo quindi assistito a qualcosa di davvero inedito, ma in campo americano. Un anonimo alto funzionario della Casa Bianca, pochi minuti dopo, ha spiegato alla Reuters che “Biden non intendeva parlare di cambio di regime in Russia, ma intendeva dire che Putin non può esercitare potere sui suoi vicini o sulla regione“.
Non avrebbe insomma “messo in discussione il potere di Putin in Russia né chiesto un cambio di regime” a Mosca.
Biden è un vecchio mestierante della politica, per otto anni vice di Obama, una vita da parlamentare. Impossibile pensare a parole sfuggite in un momento di emotività particolare. Anche perché stava leggendo un testo scritto, non andava mica a braccio...
Dunque a chi stava parlando, con quelle frasi? Non certo a Putin o ai russi...
Si possono avanzare almeno due tipi di spiegazione, peraltro abbastanza complementari.
Il primo target è l’opinione pubblica Usa, che vede per la prima volta da 30 anni un “antagonista militare” che si prende o smembra un paese che l’America aveva già classificato come propria “area di influenza”. Anche un compromesso limitato, che lascia ufficialmente la Crimea e il Donbass alla Russia, sarebbe insomma una sconfitta pesante per questa amministrazione Usa.
Che ha fra l’altro il problema delle elezioni di midterm, a novembre, in cui si gioca la maggioranza nel Congresso – già in bilico ad ogni voto – e dunque la possibilità di governare davvero nei prossimi due anni.
Il fantasma di Donald Trump non è affatto scomparso con la sconfitta di due anni fa e il semi-golpe dell’assalto a Capitol Hill. E in ogni caso l’”Amerika” profonda – bianca, razzista e impoverita – è sempre lì pronta a rovesciare gli equilibri.
Insomma, c’è sicuramente un banale interesse elettorale. E già questo è terrificante. Si rischia un’escalation al cui ultimo stadio c’è lo spettro della catastrofe nucleare perché un pezzo dell’establishment Usa ha bisogno si aumentare i consensi interni...
La seconda spiegazione sta nei paesi dell’Est, ex appartenenti al Patto di Varsavia, da decenni vero zoccolo duro “americanista” in Europa. I paesi di Visegrad sono anche una spina nel fianco che rende faticosa la costruzione dell’Unione Europea come polo imperialista “competitivo”. Esaltare l’antagonismo con la Russia, in questo caso, torna utilissimo per allontanare tutta l’Unione Europea da Mosca.
Non solo dal suo gas e petrolio, ma con l’interruzione più o meno totale di legami commerciali, produttivi e dunque anche politici che rendono moderatamente “alternativa” l’Europa unita e moderatamente ricca anche la Russia.
Rompere definitivamente questo legame – cui Putin, con la guerra, ha offerto un formidabile assist – era già un obiettivo piuttosto esplicito della politica Usa.
Naturalmente, per comprendere la “razionalità” di questa frattura che passa dentro l’Occidente – un’Europa completamente staccata dalla Russia è assai meno “competitiva” su scala globale – bisogna far mente locale alla crisi epocale che il capitalismo (soprattutto occidentale) sta affrontando da un quindicennio.
C’è troppo capitale in cerca di valorizzazione, dunque alcuni devono saltare. Ma nessuno si candida al suicidio da solo.
Di solito questo “problema di selezione” si risolve con la guerra, appunto. Ma quella nucleare avrebbe solo vinti e nessun vincitore. Dunque anche mettere un continente (o due) in condizione di non potersi più sviluppare secondo i piani può diventare un surrogato interessante del conflitto generalizzato.
È un gioco comunque rischioso, certo. Ma obbligato. L’escalation delle parole praticata da Biden ha un senso, ma non prevede soluzioni indolori. Neanche se resta un’escalation di sole parole...
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