Siamo alla canna del gas. Anzi no, assicura Mario Draghi. “Sostituiremo il gas russo in breve tempo, anche perché gli Stati Uniti ce ne venderanno 15 miliardi di metri cubi quest’anno, con la promessa di arrivare a 50 entro il 2030”.
Chiacchiere, propaganda di guerra allo stato puro. Come facciamo a dirlo? Facendo due conti, facili facili.
Al momento l’Europa consuma 390 miliardi di metri cubi di gas l’anno; ne compra dalla Russia ben 155. Con i 15 miliardi sostitutivi ci ricarichiamo gli accendini e poco altro.
Ci sarebbe anche da dire che il gas naturale che arriva via tubo costa abbastanza poco (i contratti con la Russia sono a lungo termine, le oscillazioni di prezzo avvengono dopo e più lentamente, non come sul mercato ‘spot’), mentre il gnl proveniente dagli Stati Uniti costerà molto di più.
Problema politico a parte (il guadagno è tutto per gli americani), c’è anche un problema di infrastrutture molto serio. Come scrive IlFatto, “I tre rigassificatori in attività [in Italia, ndr] hanno una capacità complessiva di 15,3 miliardi di metri cubi, che potrebbero salire a 20 se Snam riesce ad aggiudicarsi un terminale galleggiante (come hanno già fatto Germania e Olanda). Il problema però è la carenza di materia prima…. Per aggiudicarsi il Gnl non vincolato a contratti di lungo periodo ci sarà concorrenza tra Paesi”.
Sul piano della “comunicazione” o dell’ideologia tutto sembra facile (questo al posto di quest’altro, no?), sul piano pratico bisogna fare invece i conti con il quanto e il come.
Dove si trova tutto quel gas? Quanto costa? Come lo facciamo arrivare (non ci sono gasdotti possibili con Usa, Qatar, Emirati, ecc.; solo con l’Algeria ne esiste già uno)?
Il Gnl viaggia su nave, arriva nel giro di settimane invece che immediatamente. Quando la nave arriva deve trovare un rigassificatore funzionante, e non ce ne sono molti in Europa, perché il gas russo, norvegese e algerino arrivavano (e arrivano) molto più comodamente. Ed anche perché a nessuno piace vivere con un impianto a rischio esplosione sotto casa.
Ora, insomma, bisognerebbe costruirne molti e rapidamente. Negli anni scorsi “il ministero dello Sviluppo ha autorizzato altri tre progetti per altrettanti terminali a Falconara Marittima (Api Nòva Energia), Gioia Tauro (MedGasTerminal, participate da Iren e Sorgenia), con una capacità di 12 miliardi di metri cubi l’anno, e Porto Empedocle (Enel), 8 miliardi di metri cubi l’anno”.
Ma alla decisione non è seguita la costruzione, perché – come detto – la situazione di mercato rendeva quei progetti non remunerativi.
Ma anche ammesso che si possano ora costruire in tempi rapidi (e sarebbe una stranezza, in Italia) resta il problema di dove trovare il gas. I fornitori esistenti hanno già impegni su contratti di lungo periodo, e una scarsa possibilità di aumentare la produzione, oltretutto velocemente.
Come spiega Gionata Picchio, vicedirettore de La staffetta quotidiana (giornale online dedicato alle fonti di energia, di proprietà dell’Eni), “Gli Usa nel medio periodo possono sicuramente accrescere l’offerta (hanno in cantiere più del 50% dell’incremento produttivo alle viste nei prossimi anni a livello globale), così come il Qatar, che ha annunciato di voler portare la produzione da 77 milioni di tonnellate l’anno a 126 entro il 2027”.
Ma l’offerta “resterà limitata fino al 2025”, perché ogni fornitore ha contratti già siglati e non può ovviamente venir meno agli impegni con le controparti per dirottare Gnl verso l’Europa.
Chiaro?
Traduciamo: bisogna solo sperare che Mosca non chiuda i rubinetti prima che tutto questo gigantesco progetto di ridisegno delle forniture di gas cominci a diventare concreto. Logica politica seria vorrebbe che si abbassassero i toni, che si aumentasse la capacità negoziale, ecc. E invece persino a Draghi scappa di dire – ammettere – che “siamo in guerra”, dunque non c’è spazio per l’intelligenza.
Anche perché neanche questa situazione straordinaria ha fatto cambiare la scala di priorità nella difesa degli interessi dei singoli paesi. Il lungo Consiglio Europeo di ieri non è arrivato a conclusioni unitarie sulla proposta di porre un tetto al prezzo del gas (unificando gli acquisti come Unione Europea), perché i paesi del Nord – che si servono soprattutto del gas norvegese – non sono d’accordo.
Men che meno lo possono essere gli stessi norvegesi, che nell’attuale situazione di mercato vedono volare i profitti delle loro compagnie estrattive: 150 miliardi in più, come rivelato dallo stesso Draghi.
“I profitti del governo della Norvegia sono stati 150 miliardi di dollari in questi ultimi mesi, per un Paese di 5 milioni di abitanti. Quindi questo dimostra l’entità straordinaria dei profitti e spiega anche la loro resistenza a un price cap che finirebbe per diminuire ma tutt’altro che annullare i loro profitti”.
Con tali squali alla guida della UE c’è solo da essere preoccupati, altro che “andrà tutto bene”...
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