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30/03/2022

La guerra nella guerra

Il precipitare della situazione ucraina dopo l’invasione da parte della Russia dello scorso 24 febbraio ha scompaginato gli equilibri internazionali determinando una ridefinizione dei campi a livello internazionale e, di riflesso, anche alle nostre latitudini. Senza entrare nel merito di una questione complessa, che andrebbe trattata in termini generali nelle sedi opportune e che potremmo sintetizzare come la certificazione dell’irreversibile emersione di un mondo multipolare in sostituzione di quello a guida del “poliziotto americano”, appare sempre più difficile eludere una serie di questioni che, almeno tra chi non si è accorto il mese scorso che alle porte d’Europa si stava per determinare una situazione esplosiva provocata dalla strutturale crisi in cui l’imperialismo è precipitato, dovrebbero essere sciolte.

Diciamo un’ovvietà – guardando al mondo dei compagni – se ricordiamo che questo conflitto ha radici profonde e non è di certo imputabile a quella che la narrazione personalistica delle più grandi testate giornalistiche (per altro con interessi diretti nel riarmo dell’Europa come notavamo sui social in questi giorni) imputano alla follia di un pazzo – ovviamente Putin – o ai deliri imperial-sciovinisti di una ex-potenza mondiale declassata a potenza regionale come la Russia. Quella che oggi è guerra dispiegata nel cuore d’Europa è infatti stata per otto anni un massacro a bassa intensità per le popolazioni russofone del Donbass e della zona orientale dell’Ucraina. Un massacro che ha prodotto all’incirca 14.000 morti frutto di un martellamento incessante da parte di quella che oggi viene ribattezzata in blocco come la “resistenza” ucraina. Operazione di neutralizzazione delle autoproclamate repubbliche del Donbass, portata avanti non da un esercito qualsiasi ma da formazioni militari e paramilitari dichiaratamente naziste, checché ne dicano i vari Nicastro o penne a servizio dell’industria bellica che hanno buttato al cesso, in sole 3000 battute, qualsiasi residuale dignità della professione giornalistica in questo paese[1].

Questa tragedia, grazie alla generosa iniziativa dei compagni della Banda Bassotti e l’esperienza della Carovana Antifascista di cui abbiamo fatto parte, è riuscita ad emergere anche alle nostre latitudini spezzando l’embargo mediatico imposto all’opinione pubblica e ai compagni di tutto il mondo. Quando parliamo della tragedia del Donbass, stiamo guardando infatti a una guerra durata otto anni che ha visto formazioni di stampo ultranazionalistico e naziste portare avanti un’offensiva che rasentava la pulizia etnica, una riconquista – mai completamente avvenuta per fortuna – che non voleva di certo limitarsi ad un nuovo controllo del territorio perduto dopo il 2014 ma puntava intenzionalmente all’annichilimento di un’etnia, quella russa e russofona, e alla messa in opera di un progetto di riconquista di aree storico-geografiche non assimilabili alle aree “europee” dell’attuale Ucraina, quelle che sostanzialmente vanno dall’area occidentale al confine polacco. E questo è un dato collaterale se si guarda alla dinamica generale innescatasi dopo l’invasione decisa da Mosca, ma se si parla di nazismo e rinascita di movimenti d’ispirazione nazista nel cuore d’Europa non lo è per niente. Un elemento che inoltre, se eluso, ci porterebbe inevitabilmente a non comprendere fino in fondo la situazione in atto e a non cogliere che ad est non si sta combattendo solamente una guerra tra potenze, ma si sta combattendo anche una “guerra nella guerra”. Una guerra tra blocchi, certo, ma anche una guerra ideologica e per la sopravvivenza del popolo del Donbass che fino al 23 febbraio era costretto a subire la minaccia di neutralizzazione da parte di un governo che, dal 2014, non ha in nessun modo nascosto le sue volontà di “ucrainizzazione” del territorio delle Repubbliche indipendenti (né con modalità soft sotto la forma della proibizione della lingua russa, né hard sotto la forma del confronto militare).

Fa specie leggere di analisi che provano a derubricare il macroscopico dato – senza pretendere che lo sia agli occhi della stanca opinione pubblica assuefatta da una gestione emozionale e traumatica dell’informazione, ma almeno tra chi ancora si definisce compagno – lo ripetiamo, macroscopico dato della presenza di organizzazioni naziste con piena agibilità e autonomia a problema minore o, peggio ancora, a problema presente su entrambi i fronti. È naturale – ça va sans dire – che la propagandata “denazificazione” da parte della Russia è un espediente ideologico di legittimazione per un’invasione che ha ben altre mire politico-militari (e ci mancherebbe altro: alle porte di Mosca è la NATO a mettere i missili, non di certo l’Internazionale nera).

Se non fosse così, specularmente, dovremmo infatti credere alle stronzate sull’esportazione della “democrazia” o sulla legittima aspirazione da parte dei popoli extraeuropei ad entrare nell’orbita del blocco occidentale con l’obiettivo di poter democraticamente accedere ad una fetta di benessere occidentale senza diventare serbatoio di manodopera o magazzino per le merci occidentali. La denazificazione è una buffonata tanto quanto l’esportazione della “democrazia” a suon di cannonate, basi militari e destabilizzazioni che ogni area del pianeta ancora indipendente ha dovuto sopportare – per fortuna non sempre finendo sconfitta, come in Siria – dalla caduta del muro ad oggi. Ma se la “denazificazione” attualmente non esiste – anche se speriamo forte e chiaro che tra le ricadute dell’invasione ci sia l’annichilimento del più alto numero di nazisti presente sul territorio – i nazisti, dal confine polacco al confine russo, ci sono eccome. E fanno sorridere tutti coloro che per contrabbandare la loro svolta filo-europeista o per non dover smentire che il cavallo su cui avevano puntato si è rivelato un cavallo nazista, oggi sostengono che «i nazisti ci sono su entrambi i fronti». Vorremmo sperare che si tratti di una battuta o che sia il frutto di un’allucinazione di fronte ad uno degli sconvolgimenti più grossi che il nostro mondo sta vivendo dopo la Pandemia anche se, purtroppo, non sembra essere così.

Che la Russia putiniana sia un regime autoritario con caratteri dispotici, dove non solo qualsiasi forma di politica rivoluzionaria è una lotta quotidiana contro una repressione brutale ma lo è anche per chi si limita a semplici rivendicazioni democratiche lo capisce anche un bambino. Ma, a meno che non ci sia sfuggito qualche cosa di molto grosso, né nella Russia oligarchica, né nelle Repubbliche popolari vediamo organizzazioni fasciste o naziste con un grado di agibilità, influenza culturale e peso politico – in poche parole di Potere – in grado di rievocare fantasmi che non vorremmo mai vedere come in Ucraina[2]. Per organizzazioni naziste non intendiamo i quattro scemi con una passione per le telecamere che sono andati a combattere in Donbass, probabilmente più noti ai giornalisti occidentali che ai loro commilitoni. E neanche le organizzazioni paramafiose, anche di carattere nazionalistico, che pullulano in una società come quella russa e in tante altre società capitalistico-oligarchiche come quella. È più che nota infatti la rinascita di movimenti nazionalisti, panslavisti e di estrema destra in tutta l’area est-europea, Russia compresa. Le piazze stracolme di Varsavia che abbiamo visto crescere all’ombra della NATO e del benessere europeista di cui il governo reazionario di Duda si nutre sono forse la prova – da questa parte della neoeretta cortina – più evidente. Ma allo stesso tempo è un fatto che non è di certo a Mosca che si celebrano giornate nazionali in onore di collaborazionisti delle “SS” come Stepan Bandera. Non è di certo a Pietroburgo che si conferiscono onorificenze a comandanti di battaglioni integrati nell’esercito e riconosciuti dallo Stato che si sono resi autori prima di persecuzioni nei confronti di militanti della sinistra rivoluzionaria e poi di una guerra sporca durata otto anni. E non è neanche qui che il Capo dello Stato sprofonda sempre di più, mano a mano che il conflitto si approfondisce, nelle mani dei battaglioni e reparti dell’esercito più fanatici e combattivi: sempre nazisti. È nell’Ucraina di Zelens’kyj invece che tutto questo avviene con il silenzio della comunità internazionale e dei paesi europei, gli stessi che non appena si muove una critica al più pericoloso stato colonialista quale è Israele fanno piovere scomuniche e accuse di antisemitismo con una ferocia e uno zelo che fanno spavento. È nell’Ucraina che era prossima ad entrare nell’Unione Europea e sempre più vicina ad abbracciare la NATO, se non ci fosse stato lo scontro bellico aperto, che il nazismo in forma organizzata, e non come in decine di altri paesi sotto forma di bande di strada o movimenti populistici edulcorati, risorge. Non nella Russia oligarchica di Putin, ma nella “democratica” Ucraina filo-europeista.

E questo dovrebbe dircela lunga anche sulla natura della “resistenza ucraina”. Una resistenza che certamente comprende tutta quella fetta del popolo ucraino che si oppone giustamente ad un’invasione e al pericolo di una guerra di lunga durata che provocherebbe morte e distruzione più di quanto già non stia facendo, ma che comprende anche, e non in forma subordinata, chi morte e distruzione l’ha portata per otto anni in un territorio che concepiva come prateria per scorribande da pulizia etnica. E che se un domani sopravvivesse al conflitto in atto non esiterebbe un secondo a lavorare per la ricostruzione di una Ucraina nazionalista e antirussa che poco ha a che vedere con la cessazione delle ostilità.

Sui paragoni tra “resistenza ucraina” e Resistenza non ci sprechiamo neanche tempo, visto che in una fase in cui la comunicazione politica passa per il continuo cortocircuito politico-ideologico il nesso tra il nome e la cosa ha perso momentaneamente di significato. Crediamo solamente che l’emergere di simili parallelismi, oltre a far accapponare la pelle dovrebbe quantomeno interrogarci sul perché di tanto interesse nel sostegno a una così problematica “resistenza” mentre le decine di resistenze popolari ad un’invasione, da quella palestinese a quella yemenita, vengono sistematicamente eluse e non giudicate degne di essere sostenute. Non stanno forse anche loro combattendo contro un invasore? Oppure il sostegno alle resistenze in giro per il mondo si misura sull’agenda politica dei partiti di governo?

Invece dal 24 febbraio sentiamo crescere – incredibilmente anche tra le nostre fila – la richiesta di sostegno alla “resistenza ucraina” e dell’invio di armi ai “resistenti” prefigurando eclettici parallelismi tra questa e altre “resistenze” dei più disparati colori. Bisognerebbe far notare allora ai cantori orientalisti delle rivoluzioni di ieri, tramutatisi oggi in alfieri dell’interventismo governativo con una verniciatura umanitaristica e da “grandi principi” storico-filosofici, che chi chiede l’invio di armi al nostro “nemico interno” non si sta schierando soltanto nel campo internazionale, ma lo sta facendo anche in casa nostra. Ed è un attimo che le sbandate internazionali, spesso passate in cavalleria e mai fatte pesare in ragione di una relativa lontananza delle questioni trattate rispetto alle priorità del nostro “cortile di casa”, diventano faccende domestiche sui cui è difficile chiudere un occhio.

Una sinistra di classe dovrebbe, in passaggi così delicati, almeno comprendere che organizzare il fronte per una de-escalation è il minimo sindacale per far sì che la situazione non precipiti condannando così l‘Europa ad una condizione di conflitto bellico aperto in un momento in cui questa stessa sinistra si ritroverebbe spiazzata, divisa e in cui anche quelle poche lotte che stanno coraggiosamente portando avanti la prospettiva del conflitto sociale finirebbero inevitabilmente schiacciate dallo sforzo bellico. Se il minimo è questo, dovremmo allora avere la forza di dire che per gettare il cuore oltre l’ostacolo è necessario, a fronte della guerra imperialista in via di dispiegamento, ragionare sull’ hic et nunc per la sinistra di classe. E il “qui e ora”, a fronte di una condannabile e centinaia di volte condannata invasione da parte della Russia, si chiama lotta alla NATO, in tutte le sue forme, sul territorio italiano. Perché a meno che non siamo stati vittima di un’allucinazione collettiva, di basi russe nel nostro paese non ne vediamo come non vediamo testate nucleari controllate da Mosca. Vediamo invece chiaramente le 120 basi NATO, tra cui l’Allied joint force command e il comando del Security force dei Marines americani, oltre che le decine di testate nucleari presenti sul nostro territorio.

Allora sabotare la guerra imperialista da questa parte della barricata, se di questo si tratta, vuol dire sabotare la NATO.

Note

[1] Qui e qui le straordinarie doti giornalistiche dell’attuale corrispondente del Corsera a Mariupl impegnate nella glorificazione del comandante del battaglione Azov, asserragliato nella città sotto assedio dai russi e dalle milizie popolari delle repubbliche.

[2] Qui una recente inchiesta, pubblicata da una rivista non certo di estrema sinistra, dedicata all’influenza delle organizzazioni naziste sulla vita politica ucraina.

Fonte

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