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17/03/2022

Guerra all’ideologia

Niente come la guerra straccia il velo della chiacchiera ideologica, specie se di bassa lega. Come quella che circola nelle redazioni dei mass media di regime, dove il primo problema di ogni giornalista è quello di non apparire in alcun modo critico con i comandi della proprietà e della direzione.

Quella in Ucraina ha rovesciato in un attimo valori e codici di riferimento, promuovendo nel campo delle “cose positive” pratiche che per decenni erano state demonizzate quasi come Putin adesso.

Abbiamo visto eleganti inviate discettare sulla fabbricazione di molotov – con polistirolo o senza, a seconda dei casi – e compunti opinionisti sdoganare la “resistenza armata” dopo averla combattuta in qualsiasi teatro. A parti invertite, il gioco non cambia.

E in effetti l’attacco russo all’Ucraina è per molti versi il rovescio esatto di trent’anni di guerre Usa e Nato, dell’Occidente, insomma. Sono state tutte definite ai tempi “operazioni di polizia internazionale” e le vittime civili “effetti collaterali”, in nome dell’”ingerenza umanitaria”.

In nome di un diritto di “ingerenza umanitaria” che non esiste in nessun codice, né astrattamente etico né, tanto meno, internazionale.

Ma proprio una valanga di parole sui diritti sgorga dai teleschermi e dalle prime pagine, declinati nei modi più vari e fantasiosi.

Prendiamo il caso del sequestro dei beni di alcuni oligarchi russi. Yacht avveniristici, società industriali, squadre di calcio famose. Tutti – nei media – hanno benedetto questi sequestri in nome del diritto a sanzionare quei mega-ricchi in quanto “colpevoli” di essere russi (divertente, diciamo, la preoccupazione di Israele, visto che quegli oligarchi sono spesso anche ebrei e per questo dotati di un secondo passaporto).

Pochi si sono resi conto che questa logica del sequestro di “proprietà private” fa a cazzotti con il primo principio del neoliberismo imperante secondo cui il “privato” ha sempre ragione ed è intoccabile.

Nella quotidiana lotta di classe, davanti a tante fabbriche che chiudono per delocalizzare altrove la produzione, ad opera di imprese straniere e non, potrebbe diventare presto difficile obiettare che non si può nazionalizzare quegli impianti e tenerli in funzione perché “il pubblico” non si deve impicciare in materia economica.

Perché si può espropriare il Chelsea e non l’Embraco o la Whirlpool? Perché l’occupazione e la capacità produttiva del paese dovrebbero essere meno importanti di una sanzione politico-militare a cittadini di una nazione improvvisamente diventata “nemica”?

Qual è, insomma, l’”interesse superiore” – il valore – in nome del quale si può infrangere il potere della proprietà privata?

Più complicato ancora discutere di “Stati sovrani” o di “diritto all’autodeterminazione dei popoli”. Che sono entrambi valori giusti e condivisi, a carattere universale. E per questo riconosciuti dai comunisti ogni volta che si è posto il problema (fin dall’indipendenza della Finlandia – uno dei tanti territori dell’impero zarista – riconosciuta dai vertici sovietici già nel dicembre 1917, a pochi giorni dalla Rivoluzione).

Fa però un po’ ridere che questo principio venga difeso nel caso dell’Ucraina dopo essere stato sbeffeggiato per oltre un decennio come “sovranismo reazionario” dagli stessi ideologi oggi sulle barricate pro-Kiev.

Il diritto all’autodeterminazione – come la libertà individuale – o è per tutti o non è un diritto esigibile.

Chiedetelo ai catalani, ai nordirlandesi, ai corsi, ai baschi, ai sardi, agli scozzesi, ecc. – solo per restare nei confini della “vecchia Europa” al di qua della “cortina di ferro”.

Il sospetto – o la certezza – è che certi princìpi vengano agitati come stracci utili soltanto se tornano a proprio vantaggio. Perché, per esempio, l’Ucraina e tutto l’Occidente non hanno riconosciuto e – per ora – non vogliono riconoscere lo stesso diritto alla Crimea e al Donbass (abitati quasi esclusivamente da russi, non “filo-russi”)?

Peggio ancora con la “sovranità”. Se serve per aderire alla Nato o all’Unione Europea, allora è “santa”. Se viene invocata per uscirne è un “demone nazionalista” (può naturalmente assumere anche questo volto, ma non è sempre detto).

Peggio di tutti l’accoppiata tra “sovranità” e “democrazia”, specie in un paese – per esempio l’Italia – che ha in Costituzione l’inammissibilità dei referendum popolari solo nel caso dei trattati internazionali. Il che significa che l’appartenenza o meno a un sistema di alleanze – in questo caso la Nato o la Ue – è istituzionalmente sottratta una volta per sempre alla volontà popolare (mutevole del tempo storico, necessariamente, a seconda delle maggioranze democraticamente elette).

Sono solo alcuni esempi, certo. Potremmo parlare dei “crimini di guerra”, evocati solo quando non riguardano quelli commessi dalla “proprie” truppe. Sia che si parli dei massacri commessi dalla Nato a Belgrado, Baghdad o mille altri posti; sia che si parli degli italiani in Abissinia, nei Balcani o in Grecia ed Albania.

Oppure della “pace” da raggiungere inviando armi al belligerante per cui “facciamo il tifo”, dopo averlo illuso con promesse non ben calcolate. Magari ragionando su “no fly zone limitate”, come se il confine potesse essere stabilito in modo unilaterale... in uno scenario di guerra guerreggiata!

Ma, appunto, stiamo parlando di ideologia.

Ossia di quella menzogna sistematica che consiste nell’evitare di parlare concretamente di un problema e cavarsela appellandosi ad “astratti furori” valoriali. Magari anche giusti, ma estranei dal contesto concreto.

Può un paese qualsiasi partecipare a qualsiasi alleanza – economica e/o militare – anche se questo viene considerato un pericolo da un paese vicino?

In astratto sì, nella pratica storica degli ultimi secoli, NO.

L’Italia vive in “sovranità limitata” dai tempi di Yalta (1945), approfondita poi con l’adesione alla Nato e all’Unione Europea (che ha sussunto molti “poteri sovrani”, come quelli su moneta, politiche di bilancio, ecc.).

Cuba, dopo l’aggressione Usa alla Baia dei Porci (1961), si rese disponibile ad ospitare missili nucleari sovietici. Si sfiorò, come si sa, la guerra mondiale. Per il banale motivo che gli Stati Uniti non potevano tollerare simili armamenti a pochi chilometri dal proprio territorio, cosa che avrebbe concesso un vantaggio strategico enorme all’URSS (più lontani sono i missili, più tempo c’è per verificare il pericolo e reagire). E sul territorio di Cuba, gli Usa hanno voluto mantenere la base militare di Guantanamo nonostante l’opposizione del governo cubano.

È la logica delle “aree di influenza”, molto ben nota a chi è vissuto nel “mondo diviso in due”. Ma che ad un certo punto sembrava sepolta nel “mondo unipolare” egemonizzato dagli Stati Uniti.

Tutto poco rispettoso della “sovranità nazionale” e dell’universo dei diritti inviolabili, ma altamente razionale nel mondo concreto, dove bisogna governare i problemi sistemici e confrontarsi con l’avversario che c’è. Dove si deve trattare continuamente, facendo i conti con interessi divergenti e opposti. Altrimenti è guerra.

L’ideologia propone sempre ricette facili e chiare, teoricamente inoppugnabili.

Peccato che, a volerle cucinare davvero, risultino impossibili o tragicamente pericolose.

Siamo sull’orlo dell’abisso, gli ideologi gridano di voler fare un passo avanti...

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