Non è certamente una novità il fatto che epidemie e guerre siano alla base di una spirale di speculazioni che incidono poi nella nostra vita quotidiana in maniera deleteria, così come è successo all’avvento dell’euro.
I recenti folli aumenti di energia e carburante di questi giorni costituiscono un’ulteriore riprova, e il timido intervento del ministro Cingolani – che si è tra l’altro limitato a richiamare i rivenditori ignorando i veri responsabili che sono produttori e importatori, cioè i Soliti Noti nostrani con ENI ed ENEL in testa – non ha fatto altro che rafforzare costoro, evidenziando ancora una volta la debolezza nonché l’inadeguatezza dei vari governicchi che si alternano in Parlamento dal dopoguerra in poi.
La Main Excuse, la scusa classica dell’emergenza che giustifica i soprusi – ieri il Covid, oggi la guerra in Ucraina – è sempre l’arma principale di Lorsignori che in realtà organizzano il loro percorso molto tempo prima di tali eventi.
Accise letali e ipocrisia
Recentemente il segretario del “Partito comunista”, Marco Rizzo, ha dichiarato, riportando i dati forniti dal Ministero della Transizione Ecologica: “Il 27 ottobre 2008 la benzina costava 1266,53 euro al litro con un costo del petrolio di 145,81 euro al barile. Il 28 febbraio 2022 si registra un costo della benzina a 1868,86 euro al litro, con un prezzo del petrolio al 6 marzo 2022 di 115,81 euro al barile.
Come mai la benzina costava meno quando il prezzo al barile di petrolio costava molto di più? Semplice: non è la guerra in Ucraina, sono le accise, ne paghiamo ancora per la guerra d’Etiopia 1935/36, per l’alluvione di Firenze 1966, per emergenza immigrati dopo la crisi libica, ect.”.
E sull’altra sponda, la Confindustria, il Sole 24Ore conferma: “il petrolio rappresenta appena un terzo del prezzo finale, mentre i due terzi sono dovuti alle penalizzazioni fiscali. Alla rilevazione condotta il 6 settembre dal ministero dello Sviluppo economico, la benzina costava in media 1,65 euro al litro, di cui 62 centesimi di costo industriale e 1,03 euro di disincentivo fiscale, e il gasolio 1,50 euro al litro di cui 61 centesimi di costo industriale e 89 centesimi di fisco.”
In effetti, se andiamo a spulciare i dettagli, l’accisa sulla benzina incide per 728,40 € ogni 1000 litri. Sul gasolio: 617,40 € ogni 1000 litri.
Gpl: 138,72 ogni 1000 litri (applicando una conversione di 520 kg/m3); metano: 4,93 € ogni 1000 kg (applicando una conversione di 1,49 kg/m3). Ad es: se il prezzo alla pompa è di 1,549 €/litro, la cifra si suddivide in 0,541 €/litro (35%) per il costo industriale e ben 1,008 €/litro (65%) per la fiscalizzazione, cioè accise + IVA.
Malgrado ciò, se le accise sono fisse – tranne la componente IVA che cambia in percentuale sul costo totale – appare evidente chi è a fare la parte del leone sui folli aumenti odierni.
La piattaforma Platts, dove la domanda e l’offerta di carburanti a livello internazionale si incrociano, determinando il valore di ogni prodotto petrolifero. Su questa voce finisce il guadagno della parte iniziale della filiera, cioè quello delle compagnie petrolifere. La Platts è un monopolio privato che ha come investitori Barclays Global, Goldman Sachs, Vanguard Group, Deutsche Asset Management Americas, Barclays Global Investors e dove interagisce tra i produttori la “nostra” ENI.
La parte minoritaria dell’industria petrolifera è costituita dalla filiera di distribuzione e vendita al dettaglio, il cui guadagno è molto inferiore rispetto alle multinazionali che estraggono e producono petrolio e derivati come ENI, importando anche con ENEL gas russo e metano da riscaldamento.
Il fabbisogno di gas italiano è al momento coperto per il 46% dal gas in arrivo dai giacimenti siberiani. Una ventina di anni fa, le forniture russe non andavano oltre il 30-35%.
Il Mare del Nord rimane il secondo fornitore con una quota del 17%, mentre il recente gasdotto TAP nell’Adriatico che sfrutta il gas dell’Azerbaijan (altro stato a forte rischio bellico) copre appena il 9% del fabbisogno nazionale, ma attualmente è in crisi per via del fatto che tra Mataggiola e Massafra in Puglia il diametro della rete SNAM si riduce da 56″ a 18″ penalizzando notevolmente il passaggio del gas.
Ma gli aumenti di bollette e carburanti erano stati già annunciati lo scorso anno con percentuali vertiginose: +30% per il gas, +20% per l’elettricità, e vale fino a un certo punto la scusa della guerra, poiché comunque – per via dei contratti long term con la Russia – sia ENI che ENEL hanno accumulato scorte per oltre un anno, senza contare che il Cane a 6 zampe estrae il grosso della sua produzione petrolifera in Africa, Nigeria soprattutto, e in Italia ricava 20,6 milioni di tonnellate di greggio (17,5 milioni solo in Basilicata) con un presunto risparmio sulla fattura energetica nazionale di 10 miliardi, che ovviamente non si riversa sulle bollette dei consumatori, tutt’altro.
A oggi, ricevo testimonianze di prezzi alla pompa sul Servito di benzina e gasolio tra 2,2-2,4 €/Lt, fino a toccare oscillazioni tra 2,3/3,4 € al Kg per il metano in autostrada!
Dai dati riportati poc’anzi, appare evidente che ai gestori di questa Grande Abbuffata vanno le briciole, tranne ovviamente abusi sporadici, però Cingolani continua a guardare il dito, senza puntarlo invece verso la Luna dei potentati nostrani, anche se il governo ha ridotto del 20% le accise e l’IVA del 5%.
Costoro lucrano sulla differenza tra i bassi prezzi previsti dai contratti pluriennali in base ai quali si approvvigionano tuttora dalla Russia e le tariffe oscene incassate dai grossisti, a cui rivendono la materia prima.
Senza contare la speculazione in Borsa sui contratti petroliferi futures comprati quando il costo del barile era più basso, che verranno pagati a scadenze future, sempre però ai prezzi passati. Per cui più il costo del greggio si alza, più quei titoli acquistano valore.
Una settimana fa De Scalzi, AD Eni, ha annunciato che la compagnia “non firmerà nuovi contratti per l’acquisto di petrolio russo, ma manterrà solo quelli vigenti”, senza specificare però che detiene contratti a lungo termine proprio con Gazprom, il colosso principale del gas, non a caso risparmiato dalle roboanti sanzioni UE e mantenuto nel circuito Swift dei transfer bancari.
Aldilà della propaganda e ipocrisia occidentale, la Russia guadagna ogni giorno 490 milioni di dollari per le esportazioni di greggio. Le destinazioni principali sono l’Ue e l’Uk, la Cina e la Corea del Sud. Dal mercato europeo e inglese ogni giorno la Russia ricava 285 milioni di dollari con il greggio e 100 milioni con il gas.
E l’Inghilterra è costretta per l’insufficienza delle riserve nazionali a non rinunciare al carbone russo: un carico di 30mila tonnellate è arrivato di recente a Belfast.
Mosca è anche uno dei principali produttori mondiali di carbone.
Armiamoci e partite
Se lo sciacallaggio su energia e carburanti è odioso perché salassa ulteriormente il portafoglio della cittadinanza – già sfiancata da due anni duri di pandemia tra licenziamenti e lockdown – la frenesia degli armamenti che assale i vertici dell’Unione Europea è oltremodo criminale.
Secondo il report di ENAAT (European Network Against Arms Trade) l’Unione europea avrebbe stanziato un budget per i nuovi armamenti che nel bilancio 2021-2027 (quindi prima della guerra ucraina) supera 13 volte quello precedente.
Aumento che pare sia stato determinato da multinazionali e lobbisti che fanno parte degli organi di consiglio della Commissione UE: dai 600 milioni stanziati nel 2017, si sarebbe passati agli attuali 8 miliardi versati per l’European Defence Fund del periodo 2021-2027.
Nel rapporto si denunciano episodi palesi di conflitti d’interesse, corruzione, e violazioni costituzionali che coinvolgono in primo luogo l’italiana Leonardo – una delle maggiori produttrici mondiali di armi, elicotteri da guerra, sistemi elettronici per la difesa ect. – così come Indra, Safran, Thales, Airbus e Saab. Questo denaro verrà impiegato anche per sviluppare la tecnologia che riguarda droni bellici, intelligenza artificiale e i sistemi d’attacco aereo senza pilota.
Ma il fatto più grave denunciato, è che nove dei sedici rappresentanti del Gruppo di Personalità per la ricerca sulla difesa della Commissione europea, fanno parte di società e istituti di ricerca a loro volta coinvolti nelle lobby dell’industria delle armi. Non solo: il Fondo Europeo per la Difesa sarebbe basato su un rapporto presentato dal GdP, con sezioni copiate dalla relazione del gruppo e incollate nella proposta per il Fondo stilato dalla Commissione Europea.
Nella denuncia ENAAT viene evidenziato “che i sei maggiori beneficiari di questa linea di finanziamento della Ue sono coinvolti in esportazioni di armi altamente controverse verso Paesi che stanno vivendo conflitti armati o dove sono al potere regimi autoritari che violano sistematicamente i diritti umani”.
I sei “eletti” si sono già accaparrati circa 90 milioni di euro, ma a Leonardo sarebbe toccata la fetta più grande.
E ancora: “Queste linee di finanziamento richiedono esplicitamente che i Paesi Ue acquistino poi le armi e le relative tecnologie, aggiungendole al proprio arsenale di difesa o promuovendo la loro esportazione verso paesi extraeuropei”.
Tutto ciò aggravato da standard di controllo risibili su armi letali che violano basilari principi etici e leggi internazionali.
In realtà questa vicenda non stupisce affatto: è quasi inevitabile che le lobby degli armamenti detengano il potere decisionale all’interno dei governi, gli Stati Uniti ne sono il fulgido esempio con la loro NRA (National Rifle Association) che influenza in egual modo le varie amministrazioni Repubblicane e Democrat che si alternano al timone USA.
D’altra parte se pensiamo al latinismo adottato di recente dai vari leoni da tastiera dei social, il pluri-abusato Si Vis Pacem Para Bellum cioè “se vuoi la pace prepara la guerra” capiamo perché i mercanti delle armi si sentano rassicurati da quella (gran) parte dell’opinione pubblica che si è riscoperta interventista, giustificando oltretutto – avallata dai soliti opinionisti da strapazzo – il dissennato invio degli armamenti nei luoghi del conflitto, che rischiano tra l’altro di finire nelle grinfie dei mercenari siriani e ceceni al soldo di Putin, dato che comunque le principali città ucraine sono ormai circondate.
Concludo con il quesito cruciale posto da un lettore: “Che cosa è rimasto della famosa penuria di risorse pubbliche con cui viene giustificato il taglio di servizi essenziali che all’improvviso si trasforma in miliardi di euro per arricchire i mercanti d’armi e continuare nella demolizione delle costituzioni europee, tra le quali quella italiana “in primis” che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali?
D’altra parte, dopo 2 anni di annichilimento dei diritti costituzionali di base, il declassamento della Costituzione a mero orpello formale è ben consolidato” (cit.)
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