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28/03/2022

Momento populista e rivoluzione passiva

In varie occasioni ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe ha assunto da quando la controrivoluzione liberista ha sconfitto le classi lavoratrici, annientandone l’identità socioculturale e inibendole la possibilità di rappresentare politicamente i propri interessi. Questa definizione è stata erroneamente interpretata come una legittimazione “ideologica” del populismo, benché chi scrive abbia sempre sostenuto che il populismo non è né è mai stato un’ideologia; sia perché non esiste un corpus teorico e ideologico condiviso dai movimenti populisti, sia perché gli sforzi di definire elementi comuni a tutti i movimenti populisti del passato e del presente non hanno prodotto altro che degli “idealtipi” inadeguati a cogliere la complessità del fenomeno. Dire che il populismo è la forma in cui oggi si manifesta la lotta di classe non implica attribuirgli connotati positivi. Chi ritiene che il conflitto di classe abbia sempre e comunque valenza progressiva dimentica che le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti, ed è per questo che, in assenza di un progetto politico controegemonico, ogni moto sovversivo tende a risolversi in una “rivoluzione passiva” che cavalca le lotte delle classi subalterne per rivolgerle contro i loro stessi interessi. Dal momento però che non penso neppure che il populismo sia di per sé un fenomeno regressivo, necessariamente destinato ad assumere connotati “di destra”, le mie tesi sono state impropriamente associate a quelle del filosofo argentino Ernesto Laclau.

Laclau sostiene che la diffidenza e il disprezzo nei confronti del populismo è un riflesso – apparentemente anacronistico – della paura delle oligarchie tardo ottocentesche nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena del conflitto politico: paura della democrazia insomma. Anacronismo apparente, dal momento che la paura in questione torna ad essere attuale nel momento in cui, dopo una lunga fase di neutralizzazione dei conflitti sociali da parte del sistema liberal democratico, quest’ultimo attraversa una crisi radicale che crea le condizioni di un “momento populista”. Di momento populista, sostiene Laclau, si può parlare allorché un sistema egemonico non riesce più a rispondere in modo differenziale alle domande del corpo sociale. In tale situazione tende a instaurarsi una “catena equivalenziale” fra le domande inevase: ci troviamo cioè di fronte, per dirla con le sue parole, a un “accumulo di domande inascoltate e una crescente incapacità del sistema istituzionale di assorbirle in modo differenziale (ognuna isolata dalle altre) [per cui] tra di loro si stabilirà una relazione di equivalenza”. Tale relazione si rafforza a mano a mano che cresce la distanza fra popolo e istituzioni, fino a produrre una dicotomizzazione fra un noi e un loro, a tracciare un confine amico/nemico fra popolo e potere. Se l’equivalenza si estende oltre un limite critico, “diventa difficile determinare quale sia l’istanza cui andrebbero indirizzate”. Emergono così uno o più “nemici” sui quali tende a concentrarsi la rabbia, creando le condizioni per l’unificazione politica dei soggetti che avanzano le rivendicazioni.

Le differenze con la visione marxista sono evidenti: mentre quest’ultima associa i conflitti sociali e la possibilità di unificarli alle contraddizioni socioeconomiche generate dai rapporti di produzione, per Laclau le rivendicazioni sono eterogenee, condividono solo l’opposizione a un regime oligarchico (élite, casta, ecc.) vissuto come “cattivo”, per cui l’unificazione si dà sul piano simbolico-discorsivo. Del resto, argomenta Laclau, la società capitalista non genera solo l’antagonismo fra capitale e lavoro, ma una miriade di punti di rottura, la maggior parte dei quali (crisi ecologiche, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc.) esterni al mondo produttivo, perciò non esiste alcuna necessità che indichi negli operai i soggetti privilegiati del conflitto sociale: tutto ciò che sappiamo è che questi ultimi saranno “gli esterni al sistema, gli emarginati, i derelitti”. Il riferimento ai derelitti introduce un tema “morale” estraneo all’approccio strutturalista di Laclau, quasi costui volesse salvare in questo modo la sua originaria anima marxista: da un lato rinnega la categoria di classe sociale, ma dall’altro evoca un “popolo” sì interclassista ma dai connotati plebei. Non meno eclettica la sua rilettura del concetto gramsciano di egemonia: Laclau rimpiazza l’egemonia di classe con la capacità di una particolare rivendicazione di incarnare simbolicamente l’intera catena equivalenziale. È vero che gli obiettivi di un gruppo in lotta per il potere possono essere realizzati solo mobilitando forze più ampie, costruendo un blocco sociale, ma ciò, sostiene Laclau, non ha a che fare con la composizione di classe, bensì con la ”performatività” di un discorso capace di integrare il contenuto simbolico di tutti i discorsi della catena equivalenziale. Ecco perché parla di un Gramsci che avrebbe “anticipato la possibilità di comprendere le identità collettive secondo modalità sconosciute al marxismo”. Ho smontato questa tesi in un capitolo sui Quaderni dal carcere di un mio recente libro, al quale rinvio; qui mi limito a ribadire come la peculiare concezione di “autonomia del politico” adottata da Laclau – diversa da quella di Mario Tronti e altri autori – veda nel politico il prodotto di forze esterne alla sfera dei rapporti socioeconomici.

Sono dunque chiare le ragioni per cui sostiene che il linguaggio populista deve restare impreciso e fluttuante: non a causa di un deficit di chiarezza ideologica, ma in quanto l’unificazione populista avviene su un terreno sociale eterogeneo. Parole come ordine, giustizia, uguaglianza non indicano contenuti univoci e positivi, ma sono “significanti vuoti” che evocano cose diverse per soggetti diversi, ancorché partecipi della stessa catena equivalenziale. Ciò detto, per Laclau il linguaggio è un fattore fondamentale ma non sufficiente per la costruzione del popolo: per realizzare tale obiettivo occorrono processi di identificazione che si sviluppino sia in orizzontale (identificazione reciproca fra i membri del gruppo) sia in verticale (identificazione fra i membri del gruppo e il leader). L’insorgenza populista vince solo se si dota di una dimensione verticale che può assumere l’aspetto dell’organizzazione o quello dell’identificazione con il leader (o entrambe). Prima di entrare nel merito del peso che questa concezione ipertrofica del ruolo del linguaggio e del leader ha avuto nel causare il fallimento dei movimenti populisti dopo un’effimera stagione di successi, è il caso di introdurre un altro elemento di criticità che emerge chiaramente dalle tesi di Chantal Mouffe, autrice che non ha solo condiviso il percorso teorico di Laclau ma ne ha raccolto l’eredità. Mentre Laclau definisce il popolo come l’insieme degli ultimi, degli esclusi, degli sconfitti, la Mouffe non associa le rivendicazioni che convergono nella “catena equivalenziale” a soggetti sociologicamente definiti: rescindendo i legami fra discorso politico e società concreta, costei definisce il sociale “come spazio discorsivo, prodotto di articolazioni politiche puramente contingenti, che non hanno nulla di necessario e potrebbero sempre assumere una forma differente”. Di più: gli ultimi sviluppi del suo pensiero, successivi alla morte di Laclau, depongono ogni velleità antisistemica, indicando obiettivi compatibili con la conservazione dei rapporti di produzione capitalistici e del regime liberaldemocratico. L’attuale ordine egemonico, secondo Mouffe, può essere rovesciato senza distruggere le istituzioni liberaldemocratiche, soprattutto dopo che il crollo del sistema socialista ha dimostrato che esso è inadeguato per l’Europa, per cui la sinistra deve riconoscere sia la necessità della democrazia pluralista, sia il fatto che la domanda di democrazia radicale “non implica stabilire un modello completamente distinto che richiederebbe una rottura totale con la democrazia pluralista”, ma deve limitarsi a rivendicare “una radicalizzazione dei principi di libertà e uguaglianza sviluppati in modo insufficiente dalla socialdemocrazia”.

Mettendo a confronto quest’ultima dichiarazione programmatica con la storia recente dei populismi di sinistra, è difficile non trarne la conclusione che tanto i principi teorici che ne hanno inspirato l’azione quanto i tentativi di metterli in pratica, sono falliti. Il momento populista si è dunque esaurito? La risposta non è scontata e, per tentare di sciogliere il nodo, occorre operare una netta distinzione fra il discorso di Laclau e Mouffe in quanto teoria politica nel senso “leninista” del termine, cioè come guida per l’azione, e lo stesso discorso in quanto descrizione empirica di alcune dinamiche attuali del conflitto sociale. Nella seconda parte di questo articolo cercherò di dimostrare che, mentre il momento populista non si è esaurito, le illusioni di poterne canalizzare l’energia in un progetto di radicalizzazione della democrazia, senza mettere in discussione le strutture socioeconomiche del sistema, sono svanite.

L’illusione si è dissolta a partire dal continente che ne è stato la culla: le teorie di Laclau sono inspirate dal peronismo argentino, ma il momento populista che si è a più riprese presentato in quel Paese e in altri Paesi latinoamericani a partire dal “giro a la izquierda” che ha visto nascere molti governi post neoliberisti fra la fine dei Novanta e l’inizio del Duemila, ha subito un duro contraccolpo a partire dalla crisi del 2008, è solo in pochi casi – come in Bolivia e in Venezuela – è riuscito a mettere in atto concreti processi di trasformazione sistemica. Significativa, in tal senso, l’evoluzione della Revolucion Ciudadana in Ecuador, che rappresenta un tentativo da manuale di applicare le teorie di Laclau. Dopo una serie di rivolte popolari contro le politiche neoliberiste che avevano avuto come protagonisti prima i contadini di origine indigena poi le classi medie urbane, un gruppo di docenti universitari concepisce a tavolino un progetto di unificazione simbolica di questi movimenti, convincendo Raphael Correa, economista già noto e popolare in quanto aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, a presentarsi alle elezioni presidenziali. Leader dotato di grande talento comunicativo, Correa costruisce una macchina elettorale “personale”, che non si lega né alle sinistre, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani, vincendo a sorpresa le elezioni. Salito al potere, realizza una serie di riforme e di politiche economiche di taglio socialdemocratico ma, a mano a mano che la situazione economica peggiora, paga lo scotto di avere puntato tutto sul governo dell’opinione pubblica, senza costruire salde relazioni con i gruppi sociali che ne avevano favorito la vittoria. Così, quando i suoi successori tornano a praticare politiche neoliberiste, nel Paese non esistono forze organizzate in grado di contrastarle efficacemente.

In Europa le teorie di Laclau-Mouffe, ancorché ampiamente note e discusse in ambito accademico, hanno inspirato un solo tentativo sistematico di metterle in pratica, cioè l’esperienza spagnola di Podemos. Podemos nasce nel 2014, aggregando militanti dei movimenti sociali del 2011-2013 e attivisti dei partiti e dei movimenti di sinistra radicale attorno a un progetto elaborato a tavolino da un gruppo di docenti dell’Università Computense di Madrid, i quali si inspirano appunto alle teorie di Laclau, alla concezione “moltitudinaria” di Antonio Negri e alle rivoluzioni bolivariane in America Latina. La strategia si basa sul ruolo strategico della comunicazione e del linguaggio: la Web Tv che ospita La Tuerka, un talk show condotto da Pablo Iglesias, fustiga la corruzione e le politiche antipopolari delle oligarchie al potere e agisce da collante per le rivendicazioni di un ampio spettro di gruppi sociali (il soggetto di riferimento non sono le classi ma i “cittadini”), oltre a costruire la figura del leader. I fondatori si propongono di assemblare nel più breve tempo possibile una macchina da guerra elettorale in grado di conquistare la maggioranza (usando una definizione scontata, si potrebbe dire che aspirano a essere “maggioranza di governo e di opposizione”). La strategia frutta una rapida crescita dei consensi elettorali che tocca l’acme alle politiche del 2016, quando Podemos ottiene poco più del 20%. Dopodiché inizia un riflusso che tocca il fondo in occasione delle recenti elezioni amministrative di Madrid (il cui esito disastroso ha indotto Iglesias a rassegnare le dimissioni).

Facciamo un passo indietro. A mano a mano che il progetto di conquistare la maggioranza si rivela irrealistico, Podemos si rassegna alla necessità di stringere alleanze, ma si divide fra la maggioranza di Iglesias, che sceglie la coalizione con Izquierda Unida, e la destra di Inigo Errejon favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe. Dal 2016 Iglesias parla di fine del ciclo populista e della necessità di restituire al partito una chiara identità di sinistra (nei primi anni di vita il movimento aveva rivendicato un’identità né di sinistra né di destra, per strappare voti all’intero arco delle forze politiche tradizionali). Da quel momento, Podemos imbocca un percorso che lo porterà a distinguersi sempre meno dalle sinistre radicali europee. Rispetto alle quali, del resto, presenta la stessa composizione sociale, sia della base militante che dell’elettorato: rappresenta cioè le esigenze e i valori (vedi il cambiamento del nome in Unidas Podemos, in omaggio all’ideologia politicamente corretta) dei ceti medi riflessivi, per cui è votato soprattutto da studenti e lavoratori “creativi”, mentre, pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta nettamente indietro rispetto al Psoe.

Paradossalmente, questa “svolta a sinistra” non si traduce nello sforzo di costruire una forza di opposizione dotata di radicamento sociale, capace di affondare le radici nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei territori, né mette in discussione l’orientamento “comunicazionista” e “governista” del movimento – orientamento che gli consente finalmente di approdare al governo ma in posizione subordinata rispetto al Psoe, del quale è costretto a condividere tanto le politiche antipopolari della Ue quanto la linea aggressiva e imperialistica della Nato (questa scelta, che causa l’abbandono del movimento da parte di molti militanti provenienti dalle fila della sinistra anticapitalista, viene giustificata con la necessità di fare fronte unito contro la minaccia delle destre).

In questo contesto suona beffardo l’esito elettorale di Madrid, dove il partito di Errejon, uscito da destra da Podemos e rimasto fedele al rifiuto di collocarsi lungo l’asse oppositivo destra/sinistra e alla originaria visione “cittadinista” del movimento, ottiene il triplo dei voti di Podemos. Se tutto il partito avesse seguito questa linea sarebbe arrivato assai prima al governo e si sarebbe potuto giocare rapporti di forza più favorevoli con il Psoe? Il collasso dell’M5S in Italia ci fa capire che tale ipotesi è illusoria. Il paragone non è arbitrario, perché, al di là delle differenze ideologiche e del fatto che il M5S non si è mai inspirato alle teorie di Laclau, senza dimenticare che la sua cultura, rispetto a quella di Podemos, non è solo anticasta ma radicalmente impolitica – se non antipolitica – la composizione sociale dei due movimenti e dei rispettivi elettorati sono in larga misura sovrapponibili, lo stesso dicasi della strategia comunicazionista, del ruolo esorbitante attribuito alla figura del leader, della scelta di costruire un partito “leggero” privo di strutture articolate sul territorio, nonché dell’ambizione di agire come forza al tempo stesso di governo e di opposizione. Inoltre l’M5S, al pari dell’ala destra di Podemos, non si è mai caratterizzato come una forza antisistema, ha sempre rivendicato come proprio obiettivo strategico la democratizzazione del sistema esistente, non il suo abbattimento. Non è dunque un caso se l’approdo finale è stato lo stesso: andare al governo in posizione subordinata con due “sinistre” come il PD e il Psoe, europeiste e atlantiste in tema di politica estera e neoliberiste in tema di politica economica.

Né hanno avuto un destino molto diverso le sinistre populiste francesi, americane, inglesi e tedesche (vedi l’arretramento della Linke alle ultime elezioni), per tacere della catastrofica avventura di Syriza in Grecia. Dobbiamo quindi recitare il de profundis per il populismo di sinistra? I populismi di sinistra (non diversamente da quelli di destra) hanno funzionato come contenitori della rabbia degli strati sociali più esposti ai disastri provocati da decenni di globalizzazione neoliberista ma, non avendo saputo né potuto offrire concrete e credibili alternative politiche all’esistente, sembrano destinati a sparire o a venire integrati nel sistema, a conclusione di un processo di mutazione e adattamento. Ciò significa che il momento populista è finito?

Per rispondere occorre ripartire da Laclau e dalla distinzione fra la sua teoria come guida per l’azione e la sua analisi empirica del fenomeno populista: se si guarda alla prima la risposta è sì, se si considera la seconda è no. No, perché un fenomeno come il movimento NoVax risponde pienamente ai requisiti dell’analisi empirica di cui sopra: catene equivalenziali in cui convergono rivendicazioni eterogenee sotto l’aspetto “ideologico” (estrema destra vs estrema sinistra), socioeconomico (piccoli e medi imprenditori che temono l’immiserimento vs frange sindacali che temono l’uso del Green Pass come strumento di discriminazione sui luoghi di lavoro), psicologico (paura della potenziale dannosità del vaccino vs insofferenza per le limitazioni alla libertà individuale) e l’elenco potrebbe proseguire. Altrettanto eterogeneo il ventaglio dei nemici su cui si indirizza la rabbia: i media che fanno terrorismo e diffondono false notizie, Big Pharma che sfrutta la pandemia per accumulare sovraprofitti, i governi e i partiti politici che li sostengono e sfruttano la situazione per instaurare uno stato di emergenza permanente e ridurre i diritti individuali e collettivi. Tutti questi motivi di insofferenza hanno fondamento reale, ciò che manca è invece un soggetto politico che interpreti razionalmente le diverse ragioni di conflitto, le ordini gerarchicamente e le imputi a una logica sistemica, invece di affogarle in una melassa complottista in cui tutto si confonde. Manca cioè un reale momento di verticalizzazione che può essere solo politico-organizzativo e non “affettivo”, discorsivo/simbolico.

Quando Lenin lancia la parola d’ordine pace e terra fa un’operazione “populista”, identifica un valore simbolico in grado di unificare, in un concreto contesto storico, forze sociali eterogenee, ma l’operazione riesce solo perché può contare su macchina politica organizzata che mira più in alto. Certo: c’è autonomia del politico e c’è egemonia, ma senza perdere di vista la natura di classe di tale egemonia, l’interesse di classe che tale autonomia si propone di servire. Viceversa l’egemonia “discorsiva” che emerge dal fenomeno di cui ci stiamo occupando è una generica rivendicazione di “libertà” (un significante vuoto se mai ve n’è uno!), esalta cioè la stessa ideologia su cui si fonda il potere politico, economico e culturale contro cui ci si ribella. È così che funzionano le rivoluzioni passive e, in assenza di un consapevole e organizzato progetto politico di natura antisistemica, le dinamiche conflittuali che l’analisi empirica di Laclau descrive tanto accuratamente possono produrre solo rivoluzioni passive.

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