di Guido Salerno Aletta
L'aumento incontrollabile dei prezzi all'importazione ed il pessimo contesto economico che, dopo due anni di crisi sanitaria, deriva dalla guerra in corso in Ucraina, rischiano di abbattere il saldo strutturale attivo del commercio estero dell'Italia: questo risultato, che è stato conquistato a partire dal 2011 con una deflazione salariale senza precedenti e con l'abbattimento per via fiscale della domanda di beni importati, aveva consentito di portare in positivo per la prima volta nella storia la posizione finanziaria netta dell'Italia, compensando così completamente anche il peso del debito pubblico in mani straniere.
Poiché le attività complessive sull'estero avevano finalmente superato le passività, l'Italia poteva dirsi finanziariamente solvibile: ma questa garanzia di stabilità rischia ora di venire meno.
Il fatto è che, stavolta, non c'è più niente da tagliare: il reddito disponibile delle famiglie è già falcidiato dall'aumento delle bollette e del prezzo dei carburanti, mentre le erogazioni sociali non possono essere ridotte a meno di rischiare che lo stato di prostrazione così indotto porti a reazioni incontrollabili. Il piano di investimenti pubblici previsto dal PNRR rischia a sua volta di vanificarsi in termini reali per via dell'aumento dei prezzi impliciti.
Non è solo l'Italia a trovarsi in questa difficoltà. Eurostat ha rilevato un andamento analogo in tutta l'area: nei rapporti extra Ue, la Germania ha più che dimezzato il saldo attivo che si è ridotto dai 13 miliardi di euro del gennaio 2021 ai 6,1 miliardi dello scorso mese di gennaio; il Belgio è passato dalla parità a –3 miliardi; la Grecia da -0,7 miliardi a -1,9; l'Olanda da -10,6 miliardi a -19; la Francia ha ribaltato il segno passando da +1,4 miliardi a -1,4; l'Italia è passata da +1,8 miliardi a -4,2.
Per l'Italia, il ritorno in negativo del saldo commerciale complessivo sull'estero, che è stato di -0,9 miliardi per l'area Ue e dei citati -4,2 miliardi per l'area extra-Ue, è dunque un segnale di allarme pericolosissimo: l'andamento dei prezzi all'importazione non è recuperabile a livello interno né con nuovi tagli ai costi ed ai salari né con incrementi di produttività. Le imprese con il conto economico strutturalmente in rosso per via dei costi aumentati, chiuderanno.
Mentre l'attenzione dei media è tutta concentrata sulle vicende della guerra in Ucraina, occorre cominciare a stimare gli effetti per l'Europa, e per l'Italia in particolare, di questo conflitto che si verifica in un momento estremamente difficile.
Già all'inizio di gennaio c'era un vivissimo allarme per l'andamento dell'inflazione dei prezzi all'importazione e per le difficoltà di approvvigionamento di una serie di prodotti: dal gas ai fertilizzanti, dal grano ai minerali usati dalle industrie, tutti andavano contemporaneamente fuori scala.
In Italia, come del resto in tutta Europa, veniva già ad essere pregiudicata la previsione di un ritorno ai livelli di produzione pre-pandemia: il rimbalzo dei primi mesi del 2021 si era cominciato ad affievolire già durante l'estate per via dell'aumento dei prezzi alla produzione che cominciavano ad incidere sull'attività industriale e della contrazione della disponibilità di reddito delle famiglie.
Il conflitto in Ucraina comporta una serie di conseguenze: il venir meno, per via delle sanzioni alla Russia, dell'export verso quel Paese; la prospettiva di dover trovare approvvigionamenti energetici alternativi rispetto al gas attualmente proveniente dalla Russia, con incertezze crescenti circa la continuità degli approvvigionamenti in corso; la carenza di una serie di prodotti finora importati dalla Russia e dalla Ucraina, sia per il blocco dell'export già deciso per ritorsione verso i Paesi ostili sia per oggettive difficoltà dei trasporti dall'area interessata al conflitto. Non c'è più solo un problema di prezzi in aumento, dal grano ai fertilizzanti come rilevato in precedenza, ma anche di indisponibilità sul mercato: la prospettiva è quella di un razionamento di questi prodotti.
Siamo in una fase di stallo.
La politica monetaria della Bce non può essere più espansiva, perché altrimenti verserebbe altra benzina sulle fiamme dell'inflazione che già arde con aumenti dei prezzi alla produzione superiori al 20% ed aspettative di crescita anche del 7% nel 2022 di quelli al consumo.
Le politiche fiscali, già ampiamente espansive nel biennio 2020-2021 per contrastare gli effetti della crisi sanitaria sull'economia, si trovano alle prese con la necessità di contenere il deficit per non aggravare le tendenze inflattive e per non esasperare il rapporto debito/PIL, ingigantitosi per via degli eventi del biennio pandemico a causa del concomitante aumento delle spese pubbliche in disavanzo e della caduta del prodotto.
C'è un terzo elemento di cui tener conto: le politiche economiche dell'Unione europea, e quelle dell'Italia in particolare, sono state orientate al perseguimento degli obiettivi del NGUE attraverso i PNRR: verso la transizione energetica e quella digitale. Gli investimenti sono dunque prevalentemente orientati all'incremento delle fonti di energia rinnovabile, solare ed eolico in primo luogo. A livello europeo, la cosiddetta tassonomia della transizione energetica considera comunque compatibili ancora l'uso del gas e del nucleare in tutta questa fase. Per quanto riguarda l'Italia, si considerava fermo il sistema degli approvvigionamenti in essere.
La decisione strategica assunta a livello europeo e condivisa dal governo italiano di non dipendere più dal gas russo nel più breve tempo possibile ha dunque cambiato il quadro di riferimento degli approvvigionamenti energetici in essere: occorre innanzitutto aumentare quelli di gas metano che provengono dall'Algeria e dal Kazakhistan, ed aprire al GNL proveniente dal Qatar e dagli Usa con investimenti per nuovi rigassificatori e per le strutture interne di distribuzione. In pratica, occorre rivedere l'intera strategia di transizione energetica elaborata in precedenza, ivi compresa quella del passaggio all'auto elettrica entro il 2035: la riduzione del reddito disponibile alle famiglie per via della inflazione in atto e le incertezze sul futuro rendono assai poco verosimile anche l'obiettivo della sostituzione del parco automobilistico esistente con altre vetture ibride o full-electric che, nonostante i contributi pubblici, sono molto più care rispetto a quelle dotate di motori a combustione interna.
Il quadro economico italiano si avvia dunque ad una profonda recessione in un quadro di elevata inflazione, senza poter contare né su nuove politiche fiscali espansive né su nuove politiche monetarie accomodanti.
A Bruxelles si ipotizzano nuove emissioni di prestiti, ripercorrendo l'esempio del Recovery and Resilience Plan, sia per affrontare i maggiori costi dell'energia sia per finanziare le maggiori spese della difesa.
Tutto le politiche europee vengono rottamate, un giorno dopo l'altro.
Il sistema delle aste per i diritti di emissione della CO2, ad esempio, che pure era stato considerato indispensabile per aumentare continuamente i prezzi dell'energia ed indurre così i consumatori a risparmiare elettricità sembra un fantasma del passato: ci ha pensato la realtà dei mercati speculativi a far andare alle stelle i prezzi.
Pure il sistema delle aste spot per comprare il gas alla giornata, anziché con contratti a lungo termine, verrebbe ora rimpiazzato da un coordinamento europeo degli acquisti e da un sistema di stoccaggio centralizzato.
Ad un ritmo sempre più accelerato, ogni nuova emergenza seppellisce le precedenti: del Fiscal Compact non si parla più, della riforma del MES ancor meno, mentre sembra scomparso anche l'obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 che pure era stato al centro del dibattito politico del G20 di Roma, il 30 ed il 31 ottobre: appena sei mesi fa.
Abbiamo visto di tutto ed il contrario di tutto: dall'austerità senza eccezioni, con le condizionalità inflessibili dappertutto, alle politiche fiscali espansive ed alle politiche monetarie ultra accomodanti.
Mentre a Bruxelles si continua a discutere dei massimi sistemi, l'Europa affonda.
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