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23/03/2022

Il nuovo disordine mondiale / 8: mai più per un pugno di conchiglie

di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu un commercio tra eguali, basato su diverse valute. Soprattutto conchiglie importate dalle Maldive e dal Brasile. Nel corso del tempo, le relazioni tra Africa ed Europa si incentrarono sempre di più sul commercio degli schiavi, danneggiando il relativo potere politico ed economico dell’Africa, mentre i valori di scambio monetario si spostarono drasticamente a vantaggio dell’Europa.

Questo, almeno, è quanto raccontato e analizzato da Toby Green, Senior Lecturer di Storia e cultura lusofona africana presso il King’s College di Londra, in un testo molto importante e sicuramente destinato a diventare di riferimento per quanto riguarda la storiografia sul colonialismo[1].

Se l’imposizione di un sistema monetario basato sul denaro, come feticcio e valore equivalente per gli scambi commerciali, si rivelò decisivo per lo sviluppo degli scambi avviati dalla prima grande globalizzazione coloniale e capitalistica, oggi l’assoluta e trionfale diffusione del sistema su cui si fondò l’accumulazione primitiva e l’instaurazione di un autentico regime di rapina, basato sullo scambio ineguale, causa, sia al cuore che alla periferia dell’impero occidentale, sconvolgimenti pari soltanto a quelli che la rapida diffusione della rete e dei social ha causato al sistema di informazione e disinformazione mediatica, politica e militare operativo tra gli Stati e tra i governi di questi e i loro cittadini[2].

Apparentemente, fino ad ora, la narrazione dell’attuale conflitto russo-ucraino sembra essere stata relegata ad una guerra tra due nazioni, in cui una è formalmente aggredita mentre l’altra riveste i panni dell’aggressore, oppure ad una guerra tra Russia e Nato con l’Unione Europea come addentellato. In realtà, se osservata con maggior distacco e su un piano storico più ampio, questa guerra, soltanto per ora non ancora trasformatasi in mondiale, porta alla luce contraddizioni e criticità che per lungo tempo, sicuramente in Occidente, sono state nascoste sia dai governi, sia dalla comunicazione mainstream.

Non solo, però, ma anche da una concezione, ancora figlia del colonialismo e dell’idea, ereditata spesso anche da certo socialismo e anarchismo di ispirazione tardo ottocentesca, del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” ovvero della necessità per la “razza bianca” di farsi carico dell’educazione politica e morale, oltre che economica, dei popoli “altri”.

Da qui lo sfoggio in gran spolvero, in ogni occasione e soprattutto in tempi di giustificazionismo di guerra, delle idee di democrazia, libertà civili e individuali e diritti formali che hanno finito spesso col coinvolgere nelle diatribe interimperialistiche, militari ed economiche, anche porzioni di classi e partiti che, invece, avrebbero avuto interesse a tenersi ben lontane da tali questioni. Non per indifferenza, ma proprio per presa coscienza della truffa, esercitata soltanto in nome degli interessi proprietari e finanziari, contenuta in tali immorali chiamate alle armi (ideologiche prima e militari successivamente) di coloro che dai conflitti militari ed economici del capitale hanno sempre e soltanto da perdere, spesso la vita ma mai le “storiche” catene.

Ora, di fronte al baratro della natalità occidentale, in vista di un 2050 in cui le stime demografiche prevedono che su circa dieci miliardi di abitanti del pianeta soltanto un miliardo o poco più sarà dislocato in Europa e Nord America, è evidente che, in maniera prima impercettibile poi sempre più evidente, la lotta per le risorse e le ricchezze del pianeta ha cominciato a vedere protagoniste nazioni che, fino a qualche decennio or sono, l’idea colonialista del mondo ereditata dall’Occidente insieme alle sue fortune dai secoli precedenti contribuiva a definire come sottosviluppate, in via di sviluppo oppure appartenenti al Terzo Mondo (quando il secondo era rappresentato dal cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico).

Alcune di queste nazioni (come India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Nigeria, Etiopia, Congo e Tanzania) non soltanto appartengono al gruppo di quelle destinate ad avere il maggior incremento demografico nel prossimo futuro, ma sono anche tra quelle che alla votazione avvenuta recentemente alle Nazioni Unite si sono astenute dal condannare la Russia e dall’approvare le sanzioni internazionali nei confronti del suo regime e della sua economia. Tra queste appunto, oltre alla Cina, troviamo infatti l’India, il Pakistan, il Congo, la Tanzania e altre trenta variamente dislocate tra Asia, Africa e America Latina[3].

Quella astensione, occorre ribadirlo con forza, non ha segnato certamente un appoggio più o meno mascherato all’autocrate del Cremlino, erede a sua volta della tradizione di un impero sovranazionale, sia in epoca zarista che in epoca staliniana e post-staliniana, ma piuttosto una sorta di rivendicazione di indipendenza di diverse nazioni, certo non tutte di pari grado e importanza o estensione spaziale e demografica, dall’ormai insopportabile e antistorica pretesa dell’Occidente di essere punto focale e riferimento per il mondo intero.

Sono stati e nazioni spesso di diverso credo religioso, in alcuni casi divise da rivalità economiche, militari e talvolta etniche, quasi sempre governate da partiti e personaggi tutt’altro che progressisti, ma accomunate sempre dall’essere state in precedenza colonie degli imperi occidentali e dal far parte di un’umanità colorata e non bianca.

Intravedere in tutto questo una prosecuzione della lotta anti-coloniale sarebbe certamente illusorio e fuorviante, ma occorre coglier in tutto ciò un aspetto importante di quel “nuovo disordine mondiale” di cui si va parlando, anche in questa serie di articoli, da diverso tempo a questa parte.

In prospettiva, una separazione di interessi anche dal dollaro e dal suo sistema, che, sicuramente, le drastiche sanzioni prese dall’Occidente nei confronti della Russia, in primo luogo l’esclusione dal circuito Swift per i pagamenti interbancari e le transazioni finanziarie internazionali, hanno contribuito indirettamente a incoraggiare.

Da questo punto di vista si può iniziare a cogliere proprio ciò che si diceva in apertura, ovvero che quello che era diventato strumento di dominio ed accentramento economico alle origini del capitalismo (la moneta europea nelle sue varie forme nazionali, auree e cartacee), rafforzatosi poi, dopo Bretton Woods[4], con la “folgorante” carriera del dollaro come strumento monetario internazionale per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie su scala planetaria, inizia a rivoltarsi proprio contro coloro che per secoli oppure decenni ne hanno mantenuto il controllo. Dando vita a guerre, non solo “monetarie”, di cui anche la creazione dell’euro è stato un effetto, che sempre più si orientano alla sostituzione della moneta americana con altre, bitcoin compresi.

Come era già stato proposto al decimo summit dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Johannesburg, in Sud Africa nel 2018. In tale contesto, nella più totale indifferenza europea, un atteggiamento miope che ha rivelato tutta l’impotenza politica dell’Unione europea di fronte ai grandi cambiamenti geopolitici che stanno determinando la storia, i cinque paesi, soprattutto Russia e Cina, avevano confermato politiche di diversificazione delle loro riserve monetarie e di progressiva dedollarizzazione delle economie.

In Russia, per esempio, nell’ultimo decennio la quota dell’oro è decuplicata, mentre gli investimenti nei titoli di debito del Tesoro USA sono calati al minimo. Se nel 2010 Mosca deteneva obbligazioni americane per 176 miliardi di dollari, nel 2018 ne deteneva 15 miliardi. La Russia è poi fra i primi cinque paesi per riserve auree. Secondo alcune stime, all’epoca del summit deteneva circa 2.000 tonnellate di oro, pari al 18% di tutte le riserve auree nel mondo. Simili processi erano in corso anche in Cina, che negli anni precedenti il 2018 aveva acquistato 800 tonnellate d’oro, e, anche se in modo più attento, aveva diminuito gli investimenti in titoli di debito americano, scesi dal picco di 1,6 trilioni di dollari del 2014 ai circa 1,2 trilioni[5].

Mentre l’Europa, nel frattempo, ha preferito trascurare i Brics intesi come gruppo, sottovalutando che esso, nel frattempo, rappresentava all’epoca il 23% del pil mondiale e il 18% dell’intero commercio globale, limitandosi a rapporti bilaterali.

Se tale processo andrà avanti, sarà certamente lungo e richiederà scelte dolorose soprattutto per le classi lavoratrici di quegli stessi paesi, se non sanguinose sul piano politico-militare, mentre la centralizzazione finanziaria e monetaria a livello mondiale non è certo per ora ancora in discussione. Però iniziano ad essere messe in discussione l’autorità della moneta e delle istituzioni che la hanno fino ad ora rappresentata. Certo è che non saranno più le conchiglie di ciprea o nzimbu, di cui si parlava in apertura, a soddisfare le intenzioni e le mire dei rappresentanti di tutte quelle economie che definire emergenti costituirebbe ormai soltanto un pallidissimo eufemismo.

Intanto si possono citare alcuni episodi “esemplari”. Iniziando dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che in un Tweet avrebbe definito boomers (vecchi coglioni o qualcosa del genere) i rappresentanti del Senato americano che rimproveravano minacciosamente il suo governo nello stesso momento in cui relativizzava il dollaro (scelto nel 2001 come «moneta nazionale» dai predecessori) instaurando il bitcoin come seconda «moneta nazionale» nel giugno 2021.

«Ok boomers», ha twittato Bukele. «Non siamo la vostra colonia, il vostro cortile o il vostro zerbino. Non immischiatevi nei nostri affari interni. Non cercare di controllare qualcosa che non puoi controllare». Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno «zero giurisdizione» in El Salvador, «una nazione sovrana e indipendente».

Bene, non siamo certamente davanti ad uno delle economie più importanti del pianeta e nemmeno davanti ad un governo rivoluzionario, anzi, ma cogliamo la connessione con gli altri Stati latino-americani astenutisi nel voto alle Nazioni Unite, esattamente come El Salvador (Bolivia, Nicaragua, Cuba e Venezuela che, semplicemente, non ha nemmeno votato), senza dimenticare, però, nemmeno quei vertici militari brasiliani che scoraggiarono Trump, più delle mobilitazioni pro-Maduro in Venezuela, dal posare gli stivali militari americani sul terreno sudamericano per risolvere il fallito tentativo di rovesciamento del regime venezuelano messo in atto da Juan Gaidò.

Movimenti e soggetti nazionalisti? Certamente. Rivoluzionari? Per niente. Ma che rappresentano un autentico pain in the ass per l’amministrazione degli Stati Uniti proprio nel continente che pensava di avere assoggettato una volta per tutte.

Di maggior peso, invece, appare sul piano internazionale l’atteggiamento del primo ministro pakistano Imran Khan il quale, dopo che i capi di 22 missioni diplomatiche, comprese quelle degli stati membri dell’Unione Europea, avevano rilasciato una lettera congiunta il 1° marzo, sollecitando il Pakistan a sostenere la risoluzione nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, ha affermato, durante un raduno politico: «Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi... che qualsiasi cosa voi diciate, noi la faremo?»

Opportunismo tattico? Molto. Spirito di rivalsa di una nazione islamica sempre ambigua nel comportamento nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani? Probabile. Retorica nazionalista adatta a nascondere i veri propositi e obblighi di un governo comunque considerato filo-occidentale? Ancor più probabile.

Dall’Africa non sono giunte voci altrettanto “chiare”, ma l’elenco di nazioni astenute è davvero impressionante, a partire dal Sud Africa e continuando, oltre alle due citate prima, con Algeria, Angola, Burundi, Repubblica Centro Africana, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudan del Sud, Uganda e Zimbabwe. Mentre Etiopia, Marocco, Guinea, Togo, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale e Burkina Faso non hanno nemmeno votato.

È evidente non soltanto che la presenza militare russa e quella economica cinese esercitano ormai una forte influenza sulle politiche interne ed estere di quei governi, ma anche che un certo spirito di rivalsa anti-occidentale, condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica locale e utile a sedarne in anticipo le eventuali proteste per condizioni di vita dovute alle politiche economiche messe in atto da quegli stessi governi, agita gran parte dei paesi ex-coloniali.

Occorre qui ripeterlo: non si tratta più di lotte di liberazione nazionale, com’era avvenuto fino alla metà degli anni Settanta o, ancora, con il passaggio di poteri in Sud Africa nei primi anni Novanta, ma piuttosto di una sorta di rivendicazione della possibilità di partecipare, con voce in capitolo, al gran banchetto della spartizione delle ricchezze mondiali che, a quanto pare, l’Occidente e il suo imperialismo sembrano ben determinati a trattenere tra le proprie mani o, per meglio esprimere il concetto, grinfie.

La favoletta della globalizzazione che avrebbe reso tutti più ricchi e moderni con relativa equità è fallita da tempo[6], ma la diffusione dei sistemi produttivi ad essa associati ha portato a risultati imprevisti. Come la scalata cinese al predominio nella produzione industriale e lo sviluppo dell’economia indiana e l’importanza di entrambe le nazioni nella formazione di ingegneri e tecnici dalle conoscenze e abilità che spesso superano quelle occidentali in diversi settori avanzati. Mentre l’espansione del capitalismo cinese in Africa, come si è già detto, ha poi contribuito al resto.

Nulla che spinga in direzione di quel superamento del modo di produzione attuale cui sarebbe giusto aspirare ormai in ogni parte del mondo, ma sicuramente tutti elementi di contraddizioni ormai insanabili, che rivelano l’intima essenza di quel disordine mondiale di cui abbiamo parlato così spesso. Di cui l’esplosione della guerra in Ucraina potrebbe costituire nient’altro che l’aperitivo per le portate principali che devono ancora essere messe in tavola.

Impressione rafforzata poi da altri fatti, spesso inerenti paesi legati tradizionalmente all’Occidente e che hanno votato a favore della condanna di Mosca. Come la Turchia che, da anni, sta conducendo un gioco diplomatico e militare a sé, sia nel Medio Oriente sia in Asia Centrale e in Libia, talvolta convergente e talvolta divergente da quello condotto dalla Russia. Motivo per cui l’impegno di Erdogan nelle attuali trattative avrà sicuramente un prezzo anche per l’Occidente.

Oppure l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo che non hanno accettato la proposta di Biden di regolamentare il prezzo del petrolio aumentandone il flusso verso Ovest, ma rivendicato piuttosto il diritto di trattare prezzo e quantità dello stesso con la Cina. Così, sempre per l’area del Golfo, va segnalato che, se dall’inizio della guerra in Siria, 11 anni fa, il presidente siriano Bashar al-Assad ha viaggiato pochissimo al di fuori del Paese, e solo per recarsi in Russia e in Iran, il 18 marzo scorso si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, facendosi fotografare nel sontuoso palazzo dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. Cosa che ha scandalizzato non poco il governo degli Stati Uniti.

Infine, occorrerebbe osservare ancora i comportamenti dell’India, che acquista il 70% dei suoi armamenti dalla Russia e che si è già dichiarata pronta ad acquistare gas e petrolio russo in quantità. Certamente in relazione alla sua rivalità economica e militare con la Cina, ma con un gioco diplomatico e finanziario che riduce, al momento, il ruolo dell’Occidente per quanto riguarda i suoi interessi i immediati.

Sarebbero ancora molto numerosi i casi e le contraddizioni che si potrebbero citare e soltanto i rappresentanti del capitalismo occidentale e i suoi media ed intellettuali asserviti sembrano non essersene accorti, continuando a raccontare storie che, come la strage al Teatro di Mariupol, poi smentita dagli stessi che l’avevano gonfiata ad uso propagandistico come autentica “carneficina”, rinverdendo i fasti della campagna di disinformazione europea ai tempi della caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, non costituiscono altro che continue fake news di cui, forse, stanno addirittura perdendo il controllo. Con il rischio ulteriore di far precipitare il conflitto attuale, ancora locale, in uno su scala mondiale. In cui le classi meno abbienti avrebbero soltanto da perdere, in ogni angolo del pianeta.

Come c’è da attendersi, in fin dei conti, da un ambiente politico-culturale in cui l’imbecillità trionfante spacciata per informazione fa sì che personaggi del calibro di David Parenzo possano zittire in malo modo un esperto di questioni internazionali come Alessandro Orsini, se soltanto quest’ultimo osa criticare l’operato della Nato e degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan; oppure in cui i discorsi di Zelensky vengono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie televisiva che lo lanciò verso l’attuale presidenza. Tra gli applausi dei media e dei politici europei e nord americani.

Note

1) Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021

2) Su quest’ultimo tema si veda su Carmilla il contributo di Gioacchino Toni contenuto in Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa, 20/03/2022

3) Sullo stesso tema si confronti: Dario Fabbri, Una guerra per procura nel mondo che cambia, “Scenari”, 18 marzo 2022, pp. 2-3

4) Accordi di Deliberazione della Conferenza monetaria e finanziaria che si tenne dal 1° al 24 luglio 1944 presso la città di Bretton Woods, in New Hampshire (USA), con la partecipazione dei delegati di tutti i paesi alleati contro il Patto tripartito, compresa l’URSS. Entrati in vigore il 27 dic. 1945, oltre a prevedere la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli accordi istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi tra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Tra i paesi firmatari, tra gli attuali appartenenti ai Brics attuali, risultava soltanto la Russia, all’epoca URSS.

5) Fonte: www.tendenzamercati.net

6) Se n’è parlato qui

Fonte

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