Il salto qualitativo evidenziato dalla guerra in Ucraina è il prodotto diretto di un accumulo di contraddizioni irrisolte nei rapporti di forza internazionali che si trascinano almeno dalla crisi finanziaria del 2008. Il processo è stato complesso e per certi versi “carsico”, ma oggi irrompe alla luce del sole con una forza inaspettata come sono stati inaspettati anche i tempi rapidi della precipitazione militare.
Naturalmente al primo posto oggi per noi ci sono i compiti da svolgere nel nostro paese ed in Europa nella lotta contro la guerra, contro l’espansionismo NATO e soprattutto contro il coinvolgimento in questa guerra del popolo italiano e di quelli europei, e contro l’economia di guerra che costerà lacrime e sangue ai settori popolari, come si vede già dal rallentamento della crescita prevista al 4% dopo la pandemia già scesa all’1%, e dall’inflazione galoppante.
Siamo anche contro la logica del "né né", perché la NATO è un’alleanza politico-militare mentre Putin è un individuo. Siamo contro perché non possiamo farci condizionare da un approccio ideologico che vede da trent’anni i “buoni” contro i cattivi che sono di volta in volta Milosevic, Saddam Hussein, Gheddafi, Bin Laden, Assad, i vari Kim nordcoreani e via discorrendo.
Questa logica infatti è il ricatto che ci viene imposto per tenerci legati al carro del padrone. Ragione per cui, per non farci demonizzare a nostra volta, dovremmo rinunciare ad ogni ragionamento che guardi al processo storico in atto. Questo è quanto ha esplicitamente affermato Draghi in Parlamento. Altro che fine della Storia, come sempre gli stessi ci hanno raccontato, la Storia non si è mai fermata ed ora rischia un nuovo punto di rottura.
Il problema infatti non è Putin ma cosa è diventata la Russia dopo il crollo dell’URSS, come è stata e come viene governata dagli oligarchi fino a ieri alleati dell’occidente e dai malavitosi politici ed economici al potere.
Dunque il punto da chiarire è che se per qualcuno un Putin subalterno all’occidente sarebbe anche accettabile, per noi non lo è, nemmeno in questo caso. Putin infatti fa parte di quel gruppo dominante che ha svenduto l’URSS e per noi questo non è affatto accettabile.
Dunque stiamo ben oltre il "né né" e quello che appare incredibile è la rimozione totale che su questo viene fatta della Storia recente, anche da parte di settori che si definiscono comunisti.
Ma questa è, appunto, un’altra Storia. Certamente da riprendere.
Una crisi di strategia
Parlare però solo di quello che sta avvenendo in Ucraina non è sufficiente a comprendere la dinamica in atto che ha portato a questa situazione.
Da anni in un mondo ormai “ex globalizzato” – come stiamo sostenendo da tempo – esiste un riequilibrio nelle relazioni internazionali di tipo finanziario, economico e militare che ha contenuto l’egemonia USA a partire dalla crisi finanziaria del 2007/2008, determinando così un sostanziale stallo nei rapporti di forza mondiali in cui nessuno poteva prevalere chiaramente sugli altri.
Stallo in cui la crescita della Cina e la costruzione della UE hanno avuto un ruolo crescente.
Questo equilibrio, a causa dell’incremento dell’ipercompetizione come evocato dalla von der Leyen, oggi è in via di superamento tranne, per ora, per quanto concerne l’armamento nucleare che rimane come deterrente generale. L’evento che ha “ufficializzato” il manifestarsi di questo squilibrio è la fuga degli USA e della NATO dall’Afghanistan nell’agosto scorso.
La scomposta ritirata dall’Afghanistan non è stata solo la certificazione di una sconfitta politico-militare, ma è stata la manifestazione di un fallimento strategico che – secondo la teoria avanzata negli anni ’80 da Brzezinski – intendeva occupare il centro dell’Asia per determinare gli equilibri mondiali.
Dunque la fuga USA/NATO non ha fatto altro che rivelare la velleità statunitense di poter continuare ad essere l’unica potenza mondiale egemone.
In base a questa strategia, dal 1991 in poi, sono stati fatti gli interventi militari in Iraq, in Siria, in Libia, in Afghanistan e incrementati i tentativi di destabilizzazione dell’Iran. Gli USA volevano costruire un asse politico/militare che dal Mediterraneo arrivasse nel cuore dell’Asia occupando una posizione strategica per avere “sotto tiro” sia la Russia sia la Cina. Ma hanno fallito.
Questa impotenza occidentale ha dato vita ad un nuovo centro “gravitazionale” egemonicamente competitivo costituito in primis dalla Cina, che con Russia ed Iran sta dando vita ad una serie di accordi per costruire una vasta area economica continentale con una propria possibilità di crescita autonoma dagli imperialismi euroatlantici.
I contraccolpi in Europa
La forzatura fatta sull’adesione dell’Ucraina alla NATO nasce da e in questo contesto e non è affatto un incidente di dimensione regionale.
D’altra parte se si rivedono le conclusioni del G7 di Giugno 2021 in Cornovaglia, l’ipotesi di rafforzare i legami e la tenuta interna all’area euroatlantica era già evidente in quella sede, dove si è parlato di una “via della seta democratica” in contrapposizione a quella cinese.
Ma il ridimensionamento degli USA riguarda anche le relazioni transatlantiche, in quanto il riequilibrio internazionale in atto riguarda anche quest’ambito.
Il balletto fatto all’inizio della crisi ucraina è stato significativo, in quanto gli USA hanno adottato la stessa tattica utilizzata negli anni ’80 con la crisi degli euromissili in Europa, dove da una parte minacciavano l’URSS ma dall’altra intendevano anche ridimensionare le velleità degli Stati europei. In particolare della Germania, che cercava una sua autonomia con quella che fu definita l’Ostpolitik promossa dal premier tedesco occidentale Willy Brandt.
La forzatura sull’Ucraina da una parte ha puntato ad una crisi della Russia con l’obiettivo di indebolire il blocco euroasiatico in via di costituzione, dall’altra ha inteso rimettere in “trincea” la UE cercando di riaffermare l’egemonia USA in occidente.
Purtroppo per Biden, i suoi calcoli si sono rivelati fallaci. Putin infatti ha deciso di andare all’attacco militare avendo la copertura dell’armamento atomico e le spalle coperte dalla Cina, che a sua volta ha dichiarato che il rapporto con la Russia è “forte come la roccia” eludendo i tentativi di dividerli, anche perché deve fare i conti con le provocazioni USA su Taiwan.
La UE, che non può più retrocedere dalla propria prospettiva imperialista, ha rilanciato e dopo i primi fallimentari tentativi di mediazione ha fatto di “necessità virtù”, rivelandosi più militarista degli stessi Stati Uniti, promuovendo lo scontro diretto con la Russia ed alzando la soglia del pericolo di guerra generalizzata.
Solo a quel punto Biden, ben sapendo che una guerra atomica non si sarebbe svolta solo sul teatro europeo, ha denunciato i rischi di un conflitto nucleare limitando le ritorsioni alle sole sanzioni e ad un supporto finanziario e di armamenti all’Ucraina.
L’ultimo miglio per l’Unione Europea
Quello che è rilevante ai fini della nostra condizione politica è il nuovo salto in avanti che ha fatto la UE con il vertice straordinario di Versailles per sostenere il proprio ruolo internazionale.
Da più di venti anni c’è chi sostiene che la UE sia solo “una espressione geografica” continuando a negare una realtà che si viene affermando in modo sempre più palese, senza valutare che siamo dentro un processo che non presenta i caratteri “classici”, se mai ce ne fossero stati, di costituzione di una nuova entità statale sovranazionale.
La UE come potenza imperialista si sta costruendo proprio attraverso le crisi!
Quella del 2008 ha avviato una fase avanzata di integrazione economica e finanziaria, di cui la presidenza Draghi alla BCE con il “quantitative easing” ne è stata la gestione più funzionale alla costruzione continentale.
La crisi pandemica ha portato non solo al rafforzamento degli strumenti finanziari comuni, con il Recovery Fund, ma anche ad avviare una fase di integrazione della struttura industriale europea che riporta nel continente produzioni delocalizzate a livello mondiale, che propone un salto tecnologico a costo di far chiudere settori economici ormai obsoleti, tesi esplicitata da Draghi affermando che non tutte le imprese si possono salvare.
Il tutto condito con una ideologia “ambientalista”, che ora sotto i colpi della guerra si sta sgretolando, privilegiando in realtà ancora una volta il profitto privato alla salvaguardia dell’ambiente.
Infine la guerra in Ucraina ha offerto l’occasione, che l’UE intende cogliere, di percorrere “l’ultimo miglio” ovvero di avviare concretamente il processo di militarizzazione della produzione, il warfare, che permetta il rilancio economico e la costruzione dell’Esercito Europeo più volte evocato ma ormai a portata di mano.
La riunione dei capi di Stato a Versailles dell’11/12 marzo chiarisce ogni ambiguità nel merito. Intanto emerge una verità chiara da tempo ovvero che la NATO ha due soggetti protagonisti, gli USA e la UE, i quali tendono alla parità strategica di cui gli USA dovranno prendere finalmente atto.
Inoltre si mette nero su bianco il processo di riarmo europeo con un piano di investimenti e programmazione che non può lasciare dubbi. D’altra parte in altri tempi qualcuno affermava che se gli Stati Uniti d’Europa dovessero nascere non potevano che essere reazionari, tant’è!
Quali prospettive?
Naturalmente non è facile fare delle previsioni perché oggi si può precipitare rapidamente nell’escalation militare oppure fare i conti una fase più o meno lunga di trattative e conflitto non necessariamente limitato all’Ucraina.
Ma l’errore insito nell’avventurarsi sulle “previsioni” e dare per scontati alcuni esiti, è quello di partire da una logica meramente geopolitica senza considerare i dati strutturali che sono maturati nel passaggio al XXI secolo.
In realtà la situazione che stiamo vivendo è quella dell’esaurimento dei margini di crescita mondiale, complessivamente intesi, del “Modo di Produzione Capitalista”, ovvero della riduzione storica del tasso di profitto rispetto all’enorme massa finanziaria in circolazione nel mondo e prodotta dallo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni.
È questo che determina l’ipercompetitività tra capitalismi che sono il prodotto di storie e interessi specifici.
Tale condizione non può che accentuare il conflitto internazionale al di là delle ragioni degli Stati o della ragionevolezza delle classi dirigenti. Dunque l’esito che razionalmente possiamo intravvedere ora non è affatto positivo, anche se i tempi di una precipitazione non saranno obbligatoriamente brevi ma non si possono nemmeno proiettare su un lungo lasso di tempo.
Questo pone ai comunisti, alle forze di classe e sociali e a quelle democratiche, la necessità di capire come affrontare i prossimi anni in cui la necessità dell’unità di tutti gli “esclusi” da questo sviluppo, a cominciare dai settori popolari, è a noi tutti chiara come il Sole.
Ciò è però possibile avendo coscienza che costruire l’unità senza produrre nel confronto la qualità dell’analisi, dei contenuti e della prospettiva del superamento dei rapporti sociali capitalisti è, come spesso avvenuto, condannata a durare solo una stagione.
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