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18/03/2022

La fine della seconda “globalizzazione”, vista da dentro

Tenere sott’occhio la complessità del presente è difficile, perciò guardiamo con interesse a tante informazioni che arrivano anche da fonti lontanissime da noi – i giornali finanziari, per esempio.

E in questi giorni di guerra, invasi in ogni neurone dalla propaganda penosa dei media “generalisti”, alcune notizie contribuiscono a fare chiarezza più di tanti “servizi” tutti uguali.

Una prima notizia, nei giorni scorsi, era relativa al tentativo in corso tra Arabia Saudita e Cina di raggiungere un accordo per la compravendita di petrolio in yuan.

Non è da oggi che paesi petroliferi di prima grandezza provano a trovare alternative allo scambio fatto in dollari. Alcune guerre – contro l’Iraq nel 2003, per esempio – sono state scatenate anche dal tentativo di usare – allora – l’euro al posto del dollaro.

La moneta Usa è stata definita – non certo da un “antipatizzante”, ma da Franco Bernabè – come “un’arma militare”, rafforzata dal controllo statunitense sul sistema Swift, che registra tutti i pagamenti internazionali e da cui si può – per Washington e nessun altro – rendere effettive le sanzioni economiche altrimenti scritte nell’aria.

Sulla moneta Usa sono state scritte intere biblioteche, ma la sostanza è che – svincolata da ogni rapporto con l’oro, a partire dal 1971 – la sua “credibilità” internazionale è fondata non sulla solidità dell’economia stelle-e-strisce, ma sul potere militare straripante del Pentagono.

Ma dopo l’Afghanistan anche questo potere è stato messo in dubbio...

“Le dinamiche sono cambiate radicalmente. Le relazioni degli Stati Uniti con i sauditi sono cambiate, la Cina è il più grande importatore mondiale di greggio e sta offrendo molti incentivi redditizi al Regno“, ha affermato un funzionario saudita al Wall Street Journal.

Del resto gli Stati Uniti ha recuperato, “grazie” all’ambientalmente catastrofico shale oil, la propria “autonomia petrolifera”. Dunque non c’è più una ragione stringente per cui un paese che vive di esportazioni di greggio mantenga la dipendenza da una moneta internazionale che risponde ad altre volontà geopolitiche.

Ma non è una cosa facile. Lo stesso Wall Street Journal spiega che la mossa intaccherebbe il dominio del dollaro Usa sul mercato petrolifero globale nonché come valuta di riferimento negli scambi internazionali. Un pilastro dell’egemonia comincia a traballare...

Una seconda notizia è il rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve americana. Il primo dopo quattro anni di tassi a zero, ma anche il primo di una serie che dovrebbe riportare il tasso minimo intorno al 3-4%, ufficialmente per contrastare l’inflazione galoppante (ormai oltre il 7% negli Usa).

Ma gli alti tassi di interesse sono anche sempre serviti a Washington per attirare capitali (finanziari, e questo è il limite) da tutto il mondo. Non solo per finanziare politiche interne e/o militari che non possono essere coperte con la tassazione (bassissima per gli ultramiliardari). Ma anche per sottrarre “liquidità” ai concorrenti potenziali, reali, ufficiali e ufficiosi.

Nel mazzo c’è anche l’Unione Europea, che si ritrova con la guerra alle porte, i mercati più importanti (Russia per le forniture energetiche e Cina per le esportazioni) sempre più “allontanati a forza”. E con una massa di liquidità che prende la via di Wall Street o dei Treasury Bond proprio quando servirebbe come il pane qui.

Ed è a questo punto che arriva l’illuminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza. Che vi proponiamo integralmente, perché ogni passaggio – sia storico che d’attualità – va meditato a fondo.

La “seconda globalizzazione” è definitivamente chiusa. La fine della prima (tra la fine dell’800 e i primi dieci anni del '900) portò a due guerre mondiali.

La Terza è ora cominciata. E il teatro principale è proprio “casa nostra”, noi ci siamo dentro. Anche se le bombe che ci cadranno presto in testa non sono – per ora – né testate convenzionali né nucleari.

Come canta il poeta,

“Il mio nemico non ha divisa
Ama le armi ma non le usa
Nella fondina tiene le carte visa
E quando uccide non chiede scusa”


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Con la guerra Russa-Ucraina il vero muro è stato costruito intorno alla Germania

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

L’indice Zew, che misura il sentimento economico, questo mese ha segnato un terrificante -39,3 rispetto al +54,3 del precedente, mentre ci sì attendeva un già penosissimo +5: è la peggiore variazione in assoluto, dall’inizio delle rilevazioni nel dicembre 1991.

Gli effetti negativi derivanti dalla guerra in corso in Ucraina, le conseguenza delle sanzioni irrogate alla Russia, i postumi della crisi sanitaria da Covid-19, e la fiammata di inflazione che ha annichilito le granitiche certezze nelle politiche monetarie e fiscali, sottendono una crisi più strutturale, il venir meno di tante certezze: anche oggi, come nel 1991, c’è tutto da rifare, un futuro da reinventare.

Ma non c’è l’euforia di trent’anni fa, perché, al contrario, c’è una Nuova Cortina di Ferro con cui la Germania guidata dal cancelliere Olaf Scholz deve fare i conti eretta dagli Usa e dalla Gran Bretagna nei confronti della Russia per via della guerra in Ucraina: scendendo dal Mar Baltico per arrivare al Mar Nero, passa per Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e la stessa Ucraina.

Del pari, c’è il rischio che una Nuova Grande Muraglia possa stavolta isolare la Cina, divenuta il principale competitor globale degli Usa, limitando così quella salvifica proiezione al di fuori dal recinto della Ue ed al di là del rapporto con gli Usa, che la cancelliera Angela Merkel aveva deciso di intraprendere dopo la Grande Crisi Finanziaria del 2009 e quella europea del biennio successivo.

La scoperta della duplice inaffidabilità finanziaria, prima quella degli Usa e poi dei Piigs europei, aveva imposto alla Germania di ricercare nuove partnership e nuovi mercati di sbocco per le esportazioni, unico suo volano di crescita. Questa nuova strategia tedesca si scontrava con la geopolitica statunitense che al contrario, già nel 2013 durante la prima presidenza Obama, aveva deciso di arpionare a sé gli alleati oltre Atlantico con il TTIP e quelli oltre Pacifico con il TPP, isolando da una parte Mosca e dall’altra Pechino.

Berlino mirava all’esatto contrario: le relazioni strategiche instaurate con la Russia in campo energetico attraverso la costruzione del duplice North Stream, e quelle promosse con la Cina in campo economico che avrebbero dovuto culminare a livello europeo con l'approvazione del Comprehensive agreement on investment (Cai), andavano infatti al di là del ruolo storico che era stato affidato alla Germania nel 1991: doveva solo agglutinare nella sfera occidentale i paesi ex-comunisti, prima di tutti la DDR con la Riunificazione, portandoli dapprima nell’orbita della Unione europea e quindi nella Nato.

La Cortina di Ferro andava dunque solo spostata, più a ridosso di Mosca: né più né meno. Le due diverse visioni strategiche non potevano portare che continui, reciproci, irrigidimenti tra Germania e Stati Uniti.

Fu già dirompente, in occasione della crisi greca del 2010, la proposta avanzata da autorevoli economisti americani di concedere ad Atene «una vacanza dall’euro», adottando una nuova dracma per svalutare e sistemare così più velocemente e con minori traumi i propri squilibri: non solo il sacrificio del marco tedesco sarebbe stato vano, ma si sarebbe sgranata quella catena valutaria che, proprio per legare i paesi più deboli, andava a tutto beneficio delle esportazioni tedesche.

L’euro deve essere a un tempo tanto irreversibile quanto debole nel rapporto di cambio.

Le relazioni con gli Usa sono state poi punteggiate dai continui rimbrotti del presidente Donald Trump per via dello squilibrio commerciale strutturale a danno di Washington, neppure compensato dall’apporto di spesa militare per il mantenimento della Nato, e dal Dieselgate, che ha minato in America la credibilità dell’industria automobilistica tedesca.

La Germania ha dunque spostato il baricentro del suo commercio estero verso la Cina, che nel 2020 è diventata il suo primo partner per interscambio complessivo (213 miliardi di dollari) superando ampiamente gli Usa (172 miliardi). Ed era d’altra parte inimmaginabile che, dopo aver definitivamente mandato a monte le trattative sul TTIP già nel 2016, un Trattato che in tanti settori e non solo nella protezione degli investimenti avrebbe sostanzialmente limitato i poteri di Bruxelles a favore di Washington, sarebbe stato poi possibile procedere con la approvazione del Cai nei confronti della Cina.

Nell’inverno del 2021, le trattative sono state fermate dal Parlamento europeo, usando come leva le controversie in materia di tutela dei diritti umani e delle minoranze che avevano portato le autorità cinesi ad assumere misure ritorsive contro Bruxelles. Dietro, ad allungarsi, c’era l’ombra di Washington.

In fondo, mentre l’adesione italiana alla Via della Seta configurava una sorta di accettazione passiva della strategia di espansione internazionale di Pechino, il Cai rappresentava uno strumento di reciproca tutela tra Ue e Cina in materia di investimenti che in via bilaterale ed esclusiva neppure gli Usa erano stati in grado di elaborare e che anzi, con Trump, non facevano altro che elevare dazi ed imporre sanzioni commerciali.

La libertà strategica coltivata dalla cancelliera Angela Merkel è stata viziata dalla consueta arroganza tedesca. Imponendo l'inflessibile disciplina fiscale all’intera Europa, l’ha indebolita inutilmente pensando solo al proprio tornaconto: tacciandole di ogni nequizia, ha lasciato che la Grecia, la Spagna e l’Italia venissero dilaniate dalla speculazione; ha tutelato solo le proprie frontiere, facendo fermare dalla Turchia le ondate migratorie che percorrevano la via balcanica, mentre le Ong tedesche recapitavano a migliaia nei porti italiani i profughi raccattati ovunque nel Mediterraneo; non ha sostenuto l’Italia che aveva messo in piedi il South Stream, voracemente raddoppiando il proprio gasdotto, né l’ha sostenuta ai tempi dell’intervento anglo-francese in Libia. Solo disprezzo, neppure malcelato.

Dovunque la Germania rivolga lo sguardo, ora è tutto un disastro: l’Europa è alle prese con un debito pubblico divenuto gigantesco per via del biennio di crisi sanitaria, vanificando gli sforzi compiuti per anni col Fiscal Compact; l’inflazione è a livelli senza precedenti per l’aumento dei costi delle importazioni, con i prezzi della sua produzione industriale che a gennaio erano cresciuti addirittura del 25% rispetto all’anno precedente, rendendo impossibile qualsiasi calcolo di redditività e la stessa capacità di proseguire l’attività; il suo sistema di approvvigionamento energetico deve essere ripensato completamente; il pilastro della industria automobilistica vacilla; le prospettive di industrializzare la Russia sono svanite mentre la collaborazione con la Cina, presa di mira dagli Usa, è sempre più avvolta nell’incertezza.

Dall’euro, i capitali ormai fuggono verso il dollaro. Non ha più libertà di azione, la Germania: mentre l’ Europa non le basta e gli Usa le dettano i compiti a casa, un nuovo Muro la separa dal resto del mondo

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