In Cuore di cane di Mikhail Bulgakov, il professor Preobraženskij sta pranzando con il suo assistente doktor Bormental e gli raccomanda: «Se Le sta a cuore la digestione, ecco un consiglio da amico: a pranzo, non parli né di bolscevismo, né di medicina. E, dio ne guardi, non legga quotidiani sovietici prima di pranzo!».
«Beh…, ma non ce ne sono altri», risponde Bormental. «Ecco, non ne legga nessuno. In clinica ho condotto uno studio su trenta casi. E cosa immagina? I pazienti che non leggono quotidiani si sentono meravigliosamente. Quelli che ho obbligato apposta a leggere la Pravda, sono calati di peso... ridotti riflessi rotulei, pessimo appetito e senso di oppressione».
C’è qualche attinenza al presente, a parti invertite? Personalmente, ho estrema riluttanza, in genere, anche soltanto ad accedere ai siti web di qualsiasi fogliaccio nostrano; in questo periodo, poi, autocostringendomi a osservare le loro “primizie”, pur sapendo in anticipo cosa ci troverò, mi sento davvero come un paziente dell’antibolscevico professor Preobraženskij.
Prendiamo, ad esempio, la notizia del missile ucraino lanciato lunedì sul centro di Donetsk, che ha provocato 23 morti e decine di feriti: messa in rete già dalle 10-11 del mattino, fino a tarda serata non si riusciva a trovarne traccia sui grandi media, e alla fine si è potuta scovare solo su un’agenzia che non gode delle solite attenzioni redazionali.
Probabile che venga snobbata anche la notizia passata ieri pomeriggio dalla Tass, secondo cui gli USA hanno destinato all’Ucraina altri 800 milioni di dollari in forniture militari (1 miliardo solo in questa settimana), oltre a 9.000 sistemi anticarro, 800 di difesa antiaerea e 20 milioni di proiettili.
Per il resto: sul “senso di oppressione”, subito dopo essersi ripresi dai conati, prevale quello dell’impotenza. Ma non è una resa al nemico; non è la sola constatazione della sproporzione stratosferica tra le possibilità (finanziarie) di diffusione, martellamento “di falsità e silenzi” dei media al servizio del polo imperialista europeo – e, strada facendo, di quello italiano – e le capacità dei comunisti di far sentire la propria voce.
Non è una resa: è un continuo scervellarsi per cercare, pur con le nostre piccole ma decise forze, di sfondare la rete della propaganda di guerra – «alla fine, hanno semplicemente gettato la maschera», dice un caro amico che vive fuori Mosca – nella consapevolezza che, quello che si scrive, sia soltanto un ausilio – un “servizio sedentario”, tanto per adeguare il linguaggio ai tempi che corrono – a ciò che veramente è in grado di frantumare quella rete.
Vale a dire la mobilitazione di massa, ovunque, nei luoghi di lavoro e nelle strade, contro chi vuole la guerra, a partire dai social-imperialisti del PD. Come pesa l’assenza di una (grande) organizzazione dei comunisti!
Chiedendo sinceramente scusa per lo sfogo, veniamo a noi.
Oleg Karpovič e Mikhail Trojanskij, prorettori dell’Accademia diplomatica del Ministero degli esteri russo, scrivono sulle Izvestija che la guerra «dell’informazione, che dai primi minuti accompagna l‘operazione militare speciale russa in Ucraina, ha dato luogo, sui media mondiali, ma soprattutto in Occidente, a ripetute false interpretazioni degli obiettivi e delle motivazioni russe. Nel corso di molti anni, i tentativi di Mosca di far conoscere alla comunità internazionale la reale situazione e le nostre preoccupazioni, sono stati dimostrativamente ignorati».
Cosa dicono in sostanza i due accademici russi?
Prima causa dell’intervento in Ucraina è stata senza dubbio l’inasprirsi della crisi in Donbass, con il sabotaggio degli accordi di Minsk da parte di Kiev, ignorato da Francia e Germania, firmatarie – insieme a Russia e Ucraina – di quegli accordi.
Se «l’interazione tra Kiev e L-DNR si fosse sviluppata sulla falsariga di quella tra Moldavia e Transnistria, la situazione avrebbe potuto essere ancora accettabile». Ma Kiev ha assolutamente ignorato i dettami degli accordi, mirando anzi a una soluzione sul tipo della liquidazione della Republika Srpska Krajina nel 1995; lo stesso schema tentato dalla Georgia nel 2008 per l’Ossetija meridionale. Rispetto al 2008, «questa volta la leadership russa ha deciso di giocare d’anticipo».
In secondo luogo, in tutta l’Ucraina, e soprattutto nelle sue regioni sudorientali, per anni si è proceduto alla metodica oppressione della popolazione di lingua russa. «Nel 2014, decine di attivisti filo-russi sono stati eliminati fisicamente a Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk e in altre città. Poi sono arrivate le condanne di Kiev nei confronti dei propri cittadini dissidenti e la chiusura dei media “sleali”, mentre si procedeva al rafforzamento delle formazioni neonaziste, quali Azov, Aidar, C14, Pravyj sektor, ecc». Nemmeno le critiche dell’ONU hanno avuto effetto su Kiev, sempre sostenuta da Washington.
In terzo luogo, la situazione venutasi a determinare «prima del 24 febbraio, con il rifiuto di Kiev di riconoscere la scelta degli abitanti di Crimea e Donbass, insieme all’inserimento nella Costituzione del percorso di adesione alla NATO e alle ripetute recriminazioni circa lo status non nucleare del Paese (punto culminante: il discorso di Vladimir Zelenskij a Monaco del 19 febbraio) tutto ciò aveva creato un serio rischio di conflitto su scala globale».
La ritrosia occidentale a dichiarare la moratoria sull’espansione della NATO e a rinunciare a integrare l’Ucraina nell’Alleanza, ha mostrato «chiaramente che Bruxelles e Washington erano convinte a puntare all’escalation».
Dunque, la Russia continua in queste ore a «denazificare e demilitarizzare» l’Ucraina con carri armati, razzi, aerei da guerra. L’Ucraina, però, a oltre tre settimane dall’inizio della “operazione speciale russa”, non ha ancora dichiarato guerra alla Russia.
Secondo il politologo Andrej Sidorov, che ne scrive sulla Komsomol’skaja Pravda, la ragione è evidente: limitandosi a prorogare la legge marziale, senza dichiarare guerra, Kiev può “legittimamente” continuare a ricevere armi dall’estero, dal momento che, secondo il diritto internazionale, è proibito rifornire di armi gli Stati in guerra.
Formalmente, potremmo aggiungere noi, è proibito anche da varie Costituzioni, che però vengono ignorate quando la voglia di guerra è tanto grande...
Inoltre, Kiev non intende rinunciare, nemmeno durante il conflitto armato, a intascare i proventi dal pompaggio del gas russo (secondo Gazprom: attualmente, 100 milioni di mc al giorno) attraverso il proprio territorio. Se Mosca e Kiev fossero ufficialmente in guerra, afferma Sidorov, l’Ucraina dovrebbe nazionalizzare ogni proprietà russa: ad esempio, vagoni ferroviari russi in Ucraina sono già stati nazionalizzati.
Ma, per il gas, il discorso non è così semplice, e Zelenskij non pare intenzionato a «mettersi a litigare con un Austria, una Germania o un’Ungheria che sono al freddo, anche perché da esse riceve gli aiuti e a loro invia profughi. E Kiev stessa ha bisogno del nostro gas, pur se lo compra non direttamente da noi, ma dalla UE, a prezzi di mercato».
L’ex diplomatico Vasilij Korčmar’ parla anche di una terza ragione: in caso di dichiarazione di guerra, Mosca potrebbe appellarsi al Trattato per la sicurezza collettiva (come fece il Kazakhstan a gennaio) quale Stato aggredito. Dunque: quella in corso, ufficialmente, “non è una guerra“. Prendiamone atto e comunichiamolo anche alle famiglie delle vittime, di Donbass e di Ucraina...
Ma, ancora sulla Komsomol’skaja Pravda, Aleksej Ovčinnikov sembra prospettare ragioni ancor più materiali, che spingerebbero Kiev a non dichiarare lo stato di guerra. «Nonostante i rapporti ostili con la Russia, molti “nuovi ricchi” ucraini non hanno mai cessato di fare affari nel nostro paese. E continuano a farli», dice Ovčinnikov.
Il caso più eclatante è quello del predecessore di Zelenskij, Petro Porošenko, che nel 2001 aveva comprato la fabbrica dolciaria di Lipetsk, facendola funzionare correttamente, anche dopo che Kiev aveva dichiarato la Russia “paese aggressore”. Dal 2013 al 2015, l’impresa ha versato più di 1 miliardo di rubli nelle casse russe e altri 8 milioni di dollari nel 2016, provocando lo sdegno dei duri del majdan.
Nel 2017, la filiale di Lipetsk della “Roshen” è stata chiusa e i 667 dipendenti licenziati. Forse per questo, ancora un mese fa, quando Petro rischiava un procedimento penale in Ucraina, Vladimir Putin gli aveva offerto “rifugio politico” in Russia. Nella medesima regione russa, Petro possedeva però ancora due imprese (registrate a Cipro): una dolciaria e una cerealicola, che nel 2015, mentre era Presidente, gli avevano fruttato 700.000 dollari netti.
Il principale miliardario dell’Ucraina, Rinat Akhmetov (patrimonio: 7,6 mld di dollari), a metà del 2012 ha acquisito tre miniere nella regione di Rostov: quelle di “Obukhovskoe”, “Donskoj antratsit” e “Sulinantratsit”. Nel 2020, la sola “Donskoj antratsit” ha versato 266 milioni di rubli di tasse al bilancio russo.
Altro ucraino in vista che ha continuato a fare affari con la Russia, nella regione di Voronež e anche in Crimea, il “re del pollame” Jurij Kosjuk (uno dei cinque uomini più ricchi d’Ucraina) e per un po’ di tempo anche vicedirettore dell’amministrazione presidenziale con Porošenko.
Anche il boss dell’azienda agricola “Kernel Group”, Andrey Verevskij (500 milioni di dollari) è rimasto a lungo in Russia. Per i suoi sentimenti anti-russi, e il sostegno al presidente Vladimir Zelenskij, nel 2018 era stato inserito tra le persone sanzionate dalla Russia; nonostante questo, pare che fino marzo 2020 fosse ancora comproprietario di un terminal per il grano nel porto di Taman’, sul mar Nero.
L’ex Primo ministro (dal 2014 al 2016) Arsenij Jatsenjuk sembra che abbia ancora vari interessi, diretti o per interposta persona, in Crimea, in cui era stato Ministro per l’economia a inizi anni 2000.
Proprio la Crimea continua a essere un «gustoso boccone per molti ricchi ucraini», che intestano le proprietà a russi compiacenti. Tra questi ricchi ucraini, ci sarebbero anche ex della cerchia del deposto presidente Viktor Janukovič. Anche in questo caso, dato che, nelle zone di confine, i cittadini ucraini non possono detenere proprietà immobiliari (si parla di terreni e alberghi nei luoghi di vacanza in Crimea), essi ricorrono a partner con passaporto russo.
Legami con la Crimea (alberghi, ville, depositi di carburante) anche per Igor Kolomojskij, a suo tempo “boss” di Pravyj Sektor e, in occasione delle presidenziali del 2019, principale “sponsor-ombra” di Vladimir Zelenskij: si dice che più nulla sia intestato a suo nome nella penisola.
Discorso a parte, scrive Ovčinnikov, per gli affari russi del “servo del popolo”. Almeno fino al 2019, Vladimir Zelenskij controllava tre società russe di distribuzione cinematografica e televisiva, messe in piedi dal fondatore di “Kvartal 95 Studio”, cioè lo stesso Zelenskij. Le tre società erano state fondate dalla cipriota “Green Family Ltd” che, secondo alcuni media ucraini, farebbe sempre capo a Zelenskij.
Come direbbero i gangster americani: «nulla di personale; è solo business». E nel business, a certi livelli, le vittime sono nel conto. Nel business condotto a livelli planetari, le vittime sono popoli interi. C’è chi lo è da otto anni; chi da qualche settimana.
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