di Marco Veronese Passarella
“L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario” – così ammoniva Milton Friedman nella sua celebre Storia monetaria degli Stati Uniti (1867-1960), scritta a quattro mani con Anna Schwartz. In termini semplici, l’inflazione sarebbe da attribuire al fatto che la base monetaria immessa dalla banca centrale nel sistema economico e i depositi bancari creati su quella base crescerebbero più rapidamente della produzione reale.
Troppa moneta spalmata su pochi prodotti causerebbe una crescita generalizzata del loro valore nominale: è questa la cosiddetta teoria quantitativa della moneta, elaborata da David Hume alla metà del Settecento e rilanciata proprio da Milton Friedman ed altri economisti della Scuola Monetarista negli anni sessanta del Novecento.
Se le cose stessero effettivamente così, la banca centrale sarebbe sempre in grado di regolare il livello generale dei prezzi agendo sulla base monetaria e, tramite questa, sull’offerta complessiva di liquidità – giusta la teoria del moltiplicatore monetario.
O, vista da un’opposta angolazione, l’inflazione (o la deflazione) sarebbe sempre riconducibile ad errori della politica monetaria che non si rassegnerebbe a limitarsi ad assecondare le forze di mercato, ma tenterebbe di spingere il tasso di disoccupazione al di sotto (o al di sopra) del suo livello naturale.
La narrazione monetarista ha l’indubbio vantaggio di fornire una spiegazione semplice ed intuitiva delle cause dell’inflazione. Forse anche per questo, sembra essere ancora molto popolare tra i non addetti ai lavori e persino tra gli analisti finanziari e gli economisti accademici. Così, non è mancato chi, di fronte all’impennata dei prezzi post-pandemica, ha puntato il dito contro le maggiori banche centrali mondiali, ree di aver inondato i mercati finanziari di liquidità per far fronte alle crisi finanziarie ed economiche che si sono susseguite senza soluzione di continuità a partire dal 2008. L’enorme massa monetaria, creata per sostenere il prezzo dei titoli di Stato e delle altre attività finanziarie quotate in borsa, si sarebbe infine riversata sul mercato dei beni, innescando una crescita vertiginosa dei prezzi. Ma è davvero così?
Non esattamente. Anzitutto, l’offerta di moneta è largamente fuori dal controllo delle banche centrali, le quali – in tempi normali – si limitano a fissarne il prezzo, ossia ad annunciare il tasso di interesse di riferimento per il sistema finanziario. Dato questo tasso, la quantità offerta di moneta si aggiusta alle richieste degli attori economici, imprese in testa. Se, per esempio, i prezzi delle materie prime crescono, le imprese chiederanno più finanziamenti per la produzione. Più prestiti vengono concessi, più depositi vengono creati e dunque più base monetaria sarà immessa nel sistema per consentire alle banche di rimpinguare le proprie riserve. Il contrario avviene quando i prezzi si riducono. In entrambi i casi l’offerta di moneta si adeguerà alla domanda. Ecco perché un “eccesso” di emissioni monetarie è davvero improbabile. Nel mondo reale, è il livello dei prezzi a determinare la quantità di moneta in circolazione, non viceversa.
Si dirà che oggi non viviamo in tempi normali, dato che nell’ultimo quindicennio le banche centrali hanno fatto ampiamente ricorso ad operazioni quantitative (ispirate proprio alla celebre immagine della “moneta lanciata dagli elicotteri” di Friedman), ossia ad acquisti massicci di attività finanziarie presso le banche accreditate, tramite i quali si è realizzata un’immissione forzata di liquidità nel sistema. Si tratta di un’osservazione corretta, che trascura però il fatto che tali interventi non hanno alcun impatto diretto sui prezzi dei prodotti. Da un lato, essi comportano una modificazione della composizione di bilancio delle banche che non ha alcun effetto necessario sull’ammontare di prestiti da esse erogato (dato che questo dipende anzitutto dalla domanda solvibile di finanziamenti da parte di imprese e famiglie), né tanto meno sui costi di produzione. Dall’altro lato, il sostegno al prezzo di mercato delle attività finanziarie oggetto di operazioni quantitative può soltanto avere un effetto molto mediato su tali costi, per il tramite della speculazione rialzista, la quale richiede però che una tendenza alla crescita dei prezzi sia già in atto o almeno attesa.
In secondo luogo, è la definizione stessa di inflazione ad essere fuorviante. Sia che considerino l’insieme dei beni scambiati in un’economia (come fa il cosiddetto “deflatore del PIL”) che i soli prezzi al consumo, i principali indicatori sintetici di crescita dei prezzi tendono ad offuscare il fatto che l’inflazione viene sempre calcolata come una media ponderata dei tassi di crescita dei prezzi di beni e servizi diversi.
Questo significa che a fronte di un’inflazione crescente (o decrescente) i prezzi di alcuni prodotti staranno in effetti accelerando, mentre altri potranno essere stabili o addirittura decrescenti. Ne consegue che la perdita di potere di acquisto che si associa ad un aumento dei prezzi non sarà affatto omogenea, ma varierà sensibilmente da un settore all’altro, da un gruppo sociale all’altro.
In terzo luogo, la ragione per cui l’inflazione nasconde sempre una modificazione dei prezzi relativi è che essa è in ultima istanza la risultante di conflitti sociali. Se è vero che l’alta inflazione che investì l’economia italiana nel corso degli anni Settanta fu in buona misura il prodotto di due shock petroliferi, è altrettanto vero che a far salire il livello dei prezzi negli anni precedenti e in quelli successivi contribuirono anche, in modo determinante, le rivendicazioni salariali di una classe lavoratrice ancora relativamente agguerrita, ossia l’aumento del prezzo di quella merce particolare che prende il nome di “forza-lavoro”. L’elevata inflazione fu, insomma, la risultante di una duplice, feroce, lotta di classe all’interno della società italiana (che spingeva le imprese a cercare di scaricare sul prezzo dei prodotti il maggior costo del lavoro, specie nei periodi in cui la Lira era lasciata libera di fluttuare sui mercati valutari) e al di fuori di questa, in forma di conflitti geopolitici che alimentavano il costo delle materie prime (anche attraverso un deprezzamento della Lira rispetto al Dollaro).
Anche oggi la causa principale dell’inflazione va ricercata nell’aumento dei costi di produzione dei prodotti energetici e nei colli di bottiglia che affliggono la produzione di alcuni beni intermedi (si pensi a semiconduttori e microchip) a fronte di un rimbalzo fisiologico della domanda, facendone lievitare i prezzi. La differenza, rispetto a mezzo secolo fa, è che oggi l’aumento del prezzo dei beni di consumo avviene a fronte di una stagnazione, se non di una caduta, del prezzo della forza-lavoro. Questo fatto, unito alla relativa tenuta dei prezzi delle attività finanziarie, genera una compressione reale dei redditi da lavoro a cui si contrappone un aumento reale dei profitti di monopolio e delle rendite finanziarie. Continua, cioè, quell’enorme processo di redistribuzione di redditi e ricchezze che, cominciato già nel corso degli anni Ottanta, e favorito dalle molteplici riforme fiscali di segno regressivo, sembra addirittura uscire rafforzato dalla crisi pandemica.
Ancora una volta, l’inflazione, lungi dall’essere la malattia del banchiere centrale progressista diagnosticata da Friedman, è il sintomo di un conflitto feroce: quello per l’accaparramento delle risorse energetiche mondiali, in cui gli attori in campo sono i capitali a differente base nazionale, mentre la classe lavoratrice sembra ormai relegata ad un ruolo di mera spettatrice.
In questo contesto l’imposizione di un tetto ai prezzi di servizi pubblici e beni salario, così come la tassazione delle rendite e la temporanea sovvenzione dell’acquisto di prodotti energetici ed altri beni strategici, possono alleviare l’impatto recessivo della pandemia (a cui oggi si somma quello del conflitto russo–ucraino). Nel medio-lungo periodo, tali provvedimenti andrebbero accompagnati da interventi di pianificazione economica atti a ri-orientare, accorciare e circolarizzare le filiere della produzione. Il fine dovrebbe essere quello di, ad un tempo, forzare e democratizzare il processo di transizione ecologica, mettendo al centro la riqualificazione dell’edilizia pubblica e un ripensamento radicale del sistema di trasporto locale e nazionale.
Sebbene tale necessità sia, almeno in parte, formalmente riconosciuta negli stessi documenti strategici prodotti nell’ultimo decennio dalle istituzioni europee e nazionali, proprio l’estrema debolezza del movimento operaio e delle sue organizzazioni rappresentative fa sì che la transizione sia perseguita mediante affidamento alle forze di mercato, ossia agli interessi particolari di una manciata di grandi imprese transnazionali, in cui l’unico elemento di mediazione è dato dalle richieste del piccolo capitale nazionale in difficoltà. Ecco perché se, da un lato, le misure di transizione rischiano di non essere all’altezza della sfida posta dal processo di de-globalizzazione e dal cambiamento climatico, dall’altro, il loro costo rischia di essere interamente pagato dalla classe lavoratrice in termini di peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
È nota la battuta di Robert Solow: “Ogni cosa ricorda a Milton Friedman l’offerta di moneta. Ogni cosa a me ricorda il sesso, ma cerco di tenerlo fuori dai miei articoli scientifici”. A giudicare dalla traiettoria seguita dalla letteratura economica negli ultimi decenni, sembrerebbe di poter concludere che, in fatto di rimozione, dove ha fallito il sesso, è riuscita la lotta di classe.
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