Vista da Rimini, sponda Comunione e Fatturazione, la situazione politica italiana risulta abbastanza chiara.
Ci sono alcune forze o “bande” – chiamarli “partiti” è decisamente eccessivo – che sono il baluardo su cui possono contare Confindustria, il “privato sociale”, il capitale sovranazionale europeo e atlantico.
Di questo insieme fanno parte integrante il Partito Democratico, i fascisti guidati da Giorgia Meloni, il mistero buffo Calenda-Renzi, i berlusconiani e qualche frattaglia centrista (Lupi, Bonino, Toti, ecc.); oltre naturalmente alla Lega, di cui viene tollerata o sollecitata qualche intemperanza per comporre un quadretto chiamato “pluralismo”.
Il loro faro è Mario Draghi, ossia il rappresentante nazionale della Troika (Unione Europea, Bce, Fondo monetario Internazionale), indispensabile per “autorevolezza interazionale” e contemporaneamente indispensabile per non far apparire una serie di scelte di governance come “piovute dall’alto” o da poteri sovranazionali, come in effetti sono quelle di bilancio, militari e diplomatiche derivanti dai trattati (sia europei sia con gli Stati Uniti).
Ai margini sono stati relegati i Cinque Stelle, logorati e poi ridotti a dimensioni non preoccupanti, destinati – negli auspici della congrega vista a Rimini – ad adeguarsi in stile Di Maio oppure sfarinarsi a velocità crescente dopo le elezioni.
Come si vede, fuori da questo cerchio magico non rimane molto. Anche perché quel poco che restava escluso – pensiamo a Verdi e Fratoianni, per esempio – è ampiamente rappresentato dal Pd, senza il quale sarebbe condannato a restar fuori dal Parlamento.
La novità vera è la forte investitura di Giorgia Meloni. Più lei che non la sua orda di ex mussoliniani nostalgici, sempre più spesso colti con le mani in pasta quando arrivano ad amministrare qualche ente locale.
È palese che l’articolata offensiva diplomatica condotta da oltre un anno per accreditarsi come “componente affidabile” del patto euro-atlantico, sostituendo in corsa buona parte della destra leghista, ha avuto successo.
Il suo cinguettare amichevolmente con Enrico Letta, entrambi con la mani a coprire il labiale, quasi a concordare i successivi scambi di battute destinate a diventare un titolo di giornale, sarebbe già da solo una “prova” convincente. Che in ogni caso rende i richiami del Pd ai “valori antifascisti” un autentico atto di delinquenza politica.
Dunque Giorgia Meloni ha ottenuto un posto al tavolo dell’establishment, anche se sarà complicato trovare nelle sue coorti qualche volto o qualche competenza spendibile per governare.
Porta in dote una consistente fetta di consenso politico, certo, ma la prova di governo – come accaduto per Cinque Stelle e Lega nella legislatura che va morendo – non potrà che ridimensionare il “pericolo”, favorendo nuove ascese e pretendenti.
In questa danza immobile si afferma con più prepotenza di prima la necessità di garantire la governance del Paese secondo i diktat della Ue (la “sorveglianza” non è ancora “rafforzata”, come quella che ha distrutto la Grecia, ma sicuramente molto “oculata”), in simbiosi con la Nato sullo scenario di guerra.
Una necessità che potrebbe “soffrire” una prossima maggioranza governativa ancora troppo esposta sul fronte del “populismo reazionario”, obbligandola a concedere almeno uno scampolo di realizzazione di qualche promessa elettorale (tipo “quota 100” al posto dell’”abolizione della Fornero”). Tanto più se si azzererà totalmente il già insufficiente “reddito di cittadinanza”.
Per questo appare indispensabile – agli occhi del potere vero – coprire in modo blindato la casella del Quirinale.
È pur vero che la rielezione di Mattarella è avvenuta senza prevedere limiti di durata del mandato, ma già solo i limiti di età consiglierebbero una sostituzione ben pilotata e per tempo.
Le standing ovation per Draghi a Rimini, in quest’ottica, sembrano qualcosa di più di un semplice apprezzamento per chi tanto ha già dato al partito degli affari...
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