Gli Stati Uniti bramano una guerra per ragioni talmente note che apparirebbe pedantemente didascalico elencarle.
Prendere atto di questo fatto, significa affermare che lo stato di guerra/emergenza/eccezione è una necessità per quel determinato sistema produttivo, capace di impostare una struttura di comando ed estrazione di plusvalore tale da includere o implicare quasi tutto lo spazio disponibile.
L’aumento dei rischi quindi, dovuto al continuo stato di pressione che i dicasteri di Washington hanno come target di questa contingenza politica non è una semplice rappresentazione di temi emotivi, quasi che i funzionari tutti si muovessero in preda alle emozioni del momento, quelle per intenderci facilmente comprimibile nello spasmodico tempo dei social, ma di un disegno funzionale relativamente alla situazione concreta del paese cardine dell’imperialismo. Insomma, c’è della logica in questa follia, esattamente come c'è della follia in questa logica.
Detto questo come premessa, per diradare i compagni dalla confusione di tesi più proudhoniane che marxiste, la visita della Pelosi è stata già ampiamente dichiarata almeno da aprile da parte dei dicasteri di Washington.
E se è vero che Pechino ha giocato fino ad ora questa partita puntando principalmente sui legami economici che affondano le loro radici nella conferenza di Bandung del '55, dire che la RPC abbia intenzione di continuare a priori su questa strada è un controsenso nella concretezza della vita politica internazionale come nella teoria marxista.
Pechino ha indubbiamente sopravvalutato le possibili legature dettate dalla cooperazione win-win, come il caso sino tedesco sta lì a dimostrare.
(Anche se ultimamente le cose stanno andando velocemente per un verso sempre più centralizzato dal partito, soprattutto negli ultimi mesi, chiedere alla Exor per delucidazioni).
La scommessa cinese, e cioè lo sviluppare le forze produttive dislocate in un intera economia mondo è già di per sé un affronto imperdonabile ad un capitalismo già in crisi almeno dai primi '70, figuriamoci poi la volontà strategica da parte della Repubblica Popolare Cinese di togliere di mezzo la guerra guerreggiata dalla vita politico economica internazionale. Per questo sembra proprio che la fase costituita dalla rinascita diplomatico internazionale cinese come l’abbiamo vista e conosciuta fino ad ora sia arrivata a conclusione.
Se si legge attentamente la stampa cinese questa sensazione è viva ormai da un biennio e rovente dal 24 febbraio di quest'anno, data formale, se pur non del tutto puramente simbolica del cambio di fase a livello internazionale.
E ora?
Beh ora, l’accortezza cinese, messa alla prova dai disegni della potenza statunitense, dovrà cambiare passo, come già gli analisti che scrivono sul Global Times vanno dicendo da mesi.
Ora Pechino mostrerà i muscoli, non solo attraverso esercitazioni, ma anche attraverso continui pattugliamenti e proposte di legature economico strutturali ancora più decise nei teatri interessati dalla decolonizzazione ormai industrializzata che la Cina porta in dote al mondo.
L’Ucraina era un aperitivo.
Ora, il fatto che nel vecchio occidente si possano affacciare forze strategicamente concordi con l’attuale establishment statunitense ma con sensibilità tattiche differenti, pone Washington nella posizione di dover accelerare come detto all'inizio di questo veloce commento, sicuramente fino a novembre, quando in data 8 ci saranno le midterm, per creare dati di fatto e spingere ad accettare anche tatticamente, per quanto sia possibile, la portata principale preparata dai gruppi di pressione più influenti a stelle e strisce ormai da molti anni.
Senza contare poi che la tattica statunitense riportata in questo veloce commento è propedeutica anche alle sottovalutazioni statunitensi relative alla tenuta economica del blocco euroasiatico.
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