di Guido Salerno Aletta
Non c'è alcun prodotto o servizio che possa essere realizzato senza l'uso di energia, quale che ne sia l'origine ed il modo attraverso cui viene impiegata.
Viene affermato che gli equilibri ambientali, la stabilità del clima e la stessa vita sul Pianeta, dipendono dal controllo della temperatura: questa aumenta per via dell'effetto che hanno le emissioni di origine antropica di anidride carbonica, CO2, nell'atmosfera. E la gran parte di queste emissioni deriva dai processi di combustione di fonti energetiche fossili: carbone, gas metano e petrolio, nei vari derivati come benzina, gasolio, GPL e kerosene.
Occorre dunque frenare la tendenza all'aumento della temperatura atmosferica, obiettivo che può essere raggiunto solo sostituendo le fonti fossili con quelle rinnovabili: l'energia solare, quella eolica, quella ottenuta sfruttando il moto ondoso o l'andamento delle maree. Ci sono forti dubbi sull'energia nucleare derivante dall'utilizzo dell'uranio per via dello smaltimento delle scorie: questa "spazzatura" non è solo pericolosa, ma soprattutto è costosa da custodire e da intombare.
Vediamo, di seguito, quali sono le principali ipotesi economiche e le loro conseguenze.
1) L'assunto fondamentale da cui si è partiti per dimostrare la sostenibilità economica e finanziaria del processo di transizione energetica si basa sulla necessità di provocare un aumento "artificioso" del costo di produzione e del prezzo al consumo dell'energia derivante da fonti fossili, principalmente attraverso lo strumento della tassazione.
2) Naturalmente, la politica dei divieti e delle restrizioni va a completare quella fiscale. Ad esempio, la decisione della UE di vietare la vendita di automobili a combustione interna dopo il 2034, oppure la delimitazione di aree urbane al cui interno possono circolare solo autovetture elettriche o a ridottissime emissioni di CO2, oppure il divieto di usare determinati tipi di caldaie per il riscaldamento domestico.
3) Il costo più elevato dell'energia da fonti fossili "sposta" la convenienza dei produttori e dei consumatori verso le fonti energetiche rinnovabili.
4) I proventi delle "tasse energetiche" vanno usati per incentivare la realizzazione di impianti che producono energia da fonti rinnovabili e gli acquisti di prodotti che non utilizzano combustibili di origine fossile, come le auto elettriche. Altri incentivi vanno all'istallazione di impianti solari, mini eolici, ai lavori per migliorare l'efficienza energetica delle abitazioni. La lista delle agevolazioni è lunghissima, e riguarda anche la realizzazione di fabbriche di batterie, la produzione di bio-metano o quella di idrogeno per stoccare l'energia da fonti rinnovabili.
5) Gli Usa hanno adottato un provvedimento decisivo, nell'ambito della strategia economico-industriale Build Back Better, denominato "Inflation Reduction Act", in cui sono state inseriti numerosissimi incentivi alla produzione di energie rinnovabili, per le infrastrutture di distribuzione elettrica, per l'acquisto di auto elettriche, suscitando il disappunto della UE per la discriminazione che avrebbe penalizzato le vetture prodotte in Europa. Questione che sarebbe già stata sistemata.
6) Le minori spese che ne derivano per l'acquisto di fonti energetiche fossili, generalmente importate, finanziano la creazione di un circuito economico tutto interno a ciascun Paese, "internalizzando" il processo di produzione e consumo. In pratica, si riduce la "bolletta energetica" che grava sulle importazioni.
7) Occorre però prestare attenzione ad un altro fenomeno, già accaduto: il minore costo delle importazioni di prodotti energetici viene compensato da un deflusso all'estero di risorse finanziarie pagate a titolo di interessi e di rimborso del capitale impiegato dagli investitori stranieri che hanno realizzato infrastrutture per la produzione di energia rinnovabile, e che intascano anche i sussidi pubblici.
8) La minor domanda di combustibili fossili dovrebbe far ridurre i prezzi: in teoria, dovrebbe essere questa la risposta dei Paesi produttori di petrolio e di gas. In realtà, visto che in prospettiva il loro mercato dovrebbe chiudersi completamente, che si riducono i tempi degli ammortamenti degli investimenti e che aumenta l'incidenza degli ammortamenti su volumi di vendita inferiori, i Paesi produttori cercano di ridurre la produzione per mantenere i prezzi elevati: in questa maniera cercano di mantenere invariati gli incassi complessivi, il loro "fatturato".
9) C'era una differenza strategica da colmare: i costi energetici dell'Europa erano di gran lunga più bassi di quelli dell'America, derivando i primi dalla fornitura del gas russo ed i secondi dalla coltivazione dei giacimenti di shale gas. L'invasione della Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia con il bando del gas e del petrolio via nave, hanno fatto aumentare i costi energetici dell'Europa riducendo così il divario che penalizzava la produzione americana.
10) C'è un obiettivo temporale, valido a livello internazionale per raggiungere la parità nelle emissioni di CO2, in gergo "zero-net". Ci sono le Conferenze che si svolgono sotto l'egida dell'ONU, l'ultima delle quali (COP 27) si è tenuta a Sharm-el-Sheikh lo scorso dicembre mentre la prossima (COP 28) si terrà ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei più grandi produttori di petrolio.
11) La gran parte dei Paesi Occidentali si è orientata per arrivare allo zero-net nel 2050.
12) La Cina, che si fa paladina degli interessi dei Paesi del Sud del Mondo, ritiene che questi siano stati penalizzati dalle emissioni prodotte dalla industrializzazione secolare dei Paesi del Nord del Mondo. Ritiene quindi che debbano esserci tempi diversi, più lunghi per i Paesi del Sud. Per parte sua, non ha deciso formalmente alcuna data precisa, puntando al decennio che arriva al 2060. Si è impegnata solo a ridurre del 30% le emissioni entro il 2030.
13) L'India invece ha fissato come obiettivo per lo zero-net il 2070 e si è impegnata a ridurre del 45% entro il 2030 l'intensità delle emissioni di CO2 in rapporto al PIL.
Risulta chiaro che la sostenibilità economica e finanziaria della transizione energetica è ancora tutta da verificare. E deve far riflettere il fatto che si pongano su un'orbita temporale più lunga i due Paesi più popolosi del mondo, Cina ed India, con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti ciascuna e che hanno un peso economico e strategico enorme.
Il pericolo è quello di dividere il mondo in due: da una parte ci sono i Paesi Occidentali che fanno enormi investimenti per la transizione energetica, con costi esorbitanti e prezzi altissimi per le imprese e per i consumatori. Dall'altra il Resto del Mondo che non può (e di conseguenza non vuole) affrontare questa sfida.
Il rischio è quello di rimanere incastrati, e di arrivare ad imporre un dazio alle merci importate dai Paesi che non rispettano l'obiettivo del 2050: una "Carbon Border Tax", già ipotizzata negli Usa, sarebbe necessaria per parificare i prezzi delle merci importate ai costi interni di produzione. Più che una controversia commerciale, ci si potrebbe trovare di fronte ad una frattura insanabile.
Non si assisterebbe ad una sorta di deglobalizzazione, ma ad un auto-isolamento dell'Occidente in una sfida planetaria.
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