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02/06/2023

La fusione nucleare riaccende gli entusiasmi (almeno quelli)

Non si tratta di un articolo breve, perché non è – o non è soltanto – di “divulgazione” scientifica. L’Autore – docente di impianti nucleari al Politenico di Torino, per oltre venti anni al Mit di Boston, specialista in fusione nucleare tanto da entrare (nel 2016) nella cinquina finale dei candidati al premio Nobel per la Fisica – ha ritenuto giustamente che alla “divulgazione pubblicitaria” proposta dai media mainstream fosse necessario rispondere anche in punta di ricerca scientifica seria.

Di qui la lunghezza del testo, che però può solo tornare a vantaggio della serietà del lavoro e della discussione “sul nucleare”.

Buona lettura.

*****

di Massimo Zucchetti

Il recente accordo fra ENI e MIT, per lo sviluppo di un reattore a fusione nucleare “credibile”, ha riacceso molte speranze ed entusiasmi: in mancanza dell’accensione di plasmi termonucleari, che finora sono rimasti sulla carta.

Gli ultimi recenti sviluppi confermano quanto diciamo da molto tempo: non importa quanto lontano possa essere nel futuro, ma ITER è un percorso sbagliato per arrivare alla fusione nucleare commerciale, che così non diverrà mai una realtà. Tuttavia, con un diverso percorso, un “diverso iter”, la fusione “ha una possibilità di svilupparsi nel vicino futuro”.

Escludiamo dal nostro discorso i progetti militari di fusione inerziale, dei quali ci siamo già occupati e che, onestamente, ci ripugnano.

1. Una lunga storia

Dopo la Seconda guerra mondiale, molti scienziati nucleari si aspettavano che la fusione nucleare avrebbe fornito ai loro nipoti energia economica, pulita ed essenzialmente illimitata.

Generazioni di fisici e insegnanti di fisica hanno continuato ad insegnarci che:

- i progressi compiuti nella ricerca sulla fusione sono impressionanti,

- la fusione controllata è probabilmente solo a pochi decenni di distanza, e

- dati sufficienti finanziamenti pubblici, non ci sono grandi ostacoli tra noi e il successo in questo campo.

Ecco alcune citazioni da un paio libri di testo di Fisica che riflettono questo tipo di ottimismo:
“L’obiettivo fusione sembra essere visibile ora” (Nuclear and Particle Physics, Frauenfelder and Henley, 1974)
“Ci vorrà molto, probabilmente fino all’anno 2000, per portare un reattore di laboratorio al pieno utilizzo commerciale” (Energy, Resources and Policy, R. Dorf, 1978);
Sappiamo che non è andata così.

Nel frattempo, gli ottimisti della fusione sono diventati un po’ più cauti. Si può ora leggere: “Se tutto andrà bene, il primo prototipo di reattore a fusione commerciale potrebbe essere pronto tra 50 anni a partire da ora“.

Molti media sembravano, verso il progetto ITER, assai più entusiasti, quando esso fu lanciato, oramai due decenni fa:

- “In caso di successo, ITER fornirebbe all’umanità una fonte illimitata di energia” (Novosti, 15 novembre 2005).

- “In caso di successo, potrebbe fornire una fonte di energia pulita e illimitata” e “ITER afferma che entro 30 anni l’elettricità potrebbe essere disponibile sulla rete!” (BBC News, 21 novembre 2006).

Il pubblico, preoccupato per il riscaldamento globale e le esplosioni dei prezzi del petrolio, sembrava accogliere bene il tacito messaggio che “noi – gli scienziati della fusione, gli ingegneri e i politici – facciamo tutto ciò che è necessario per portare l’energia di fusione presto online, prima che le forniture di carburante fossile diventino un problema e prima che il riscaldamento globale ci frigga tutti“.

Il progetto ITER ha raggiunto ora una fase di costruzione avanzata: dopo un decennio di ritardi, il progetto, ora perlomeno, procede. Lanciato nel 2006, ITER è stato tormentato da ritardi e superamenti dei costi: la sfida di portare sei paesi, Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Russia e Corea del Sud, insieme all’Unione europea, a costruire un reattore sperimentale si è rivelata assai ardua.

L’ultimo programma prevede che la macchina venga accesa entro il 2027 e che in realtà realizzi la fusione solo nel 2035, una dozzina di anni più tardi rispetto a quanto inizialmente previsto. Se anche si può ritenere plausibile la tempistica, l’ultimo bilancio, che aggiungerebbe altri 4,6 miliardi di euro (5,3 miliardi di dollari) di superamento dei costi per il progetto, desta onestamente qualche preoccupazione. Ma l’ottimismo continua: “Unlimited energy” è la frase senza senso compiuto che si legge a caratteri cubitali aprendo il sito di ITER (www.iter.org). Ribadiamo poi che ITER non sarà mai collegato alla rete elettrica, non è concepito per questo: è una macchina sperimentale per studiare la fusione termonucleare, non ha la produzione di energia elettrica fra i suoi obiettivi: il reattore “dimostrativo” (DEMO) sarà quello dopo ITER.

Va bene. Può anche darsi che ci vogliano più denari e più tempo del previsto. Ma questa è la strada per l’energia, se non illimitata, perlomeno abbondante, e quindi vale la pena di percorrerla? Noi lavoriamo sulla tecnologia della fusione nucleare da oltre trent’anni, e possiamo affermare che ancora crediamo – nonostante alcune delusioni – che la fusione termonucleare controllata rappresenti una opzione per il futuro energetico dei paesi industrializzati che valga la pena di esplorare.

Non però seguendo la strada che passa per il reattore ITER. O perlomeno, ben sapendo che i futuri reattori a fusione saranno molto diversi da quanto noi ci aspettiamo dalla evoluzione di ITER nel reattore dimostrativo DEMO e nel primo reattore commerciale denominato PROTO, così come viene prospettato dalla maggioranza degli scienziati e tecnici che si occupano di questo argomento.

Certamente, nessuno sa come saranno i futuri reattori a fusione, ma secondo noi ITER non è la strada migliore, ma soprattutto progettare DEMO come una estrapolazione di ITER è perlopiù fatica sprecata.

L’ultimo bilancio, con l‘esplosione dei costi per il progetto, desta qualche preoccupazione. Inoltre, un calcolo “dalla culla alla tomba” che includa la costruzione, l’esercizio e lo smantellamento, darà costi senz’altro ancora più elevati; a questo proposito, non si vede come la fusione possa poi essere preferibile ad altre fonti energetiche rinnovabili mature come l’eolico o il solare, soprattutto in una visione a medio-lungo termine di mezzo secolo nel futuro, quando le fonti rinnovabili avranno raggiunto livelli di sviluppo e maturità avanzati.

2. I problemi

Volendo essere un po’ provocatori, il problema principale dell’energetica nucleare da fusione sono i tecnologi che se ne occupano. Scienziati e tecnici di grande valore, ma dominati dalla provenienza dalla tecnologia nucleare da fissione.

A parte i fisici del plasma, brillante razza a sé che ha come antesignano emblematico uno dei più grandi geni della fisica del novecento, Andreji Sacharov, la prima generazione di tecnologi della fusione era composta null’altro che da fissionisti riconvertiti. Anche i loro successori, quelli attualmente in carica, seguono quella strada maestra.

Questo lo si vede anche dal tipo di progetti ai quali lavorano. Nulla da eccepire sulla qualità, ben inteso: la progettazione in garanzia di qualità introdotta dalla tecnologia nucleare ha costituito a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo un progresso rilevante nella progettazione di impianti energetici. Però il risultato è che ancora adesso, pur essendo e dovendo essere differente, la tecnologia della fusione è di derivazione fissionistica.

Ad esempio, i mantelli fertili (si veda dopo) per la produzione di trizio che verranno studiati in ITER sono chiaramente di derivazione dalla tecnologia dei reattori a fissione di tipo PWR e HTGR. D’altra parte, come vedremo, un reattore a fusione a deuterio-trizio è null’altro che un reattore nucleare a tutti gli effetti, e quindi la tecnologia nucleare è indispensabile.

Il progetto ITER si è fatto via via sempre più grande e complesso: una buona parte degli sforzi di ricerca e sviluppo va nel coordinamento della miriade di gruppi in tutto il mondo che ci lavorano, nella cosiddetta “logistica”. Se ai più brillanti di quei tecnologi fosse stato consentito di ritornare “ricercatori” e pensare creativamente a qualcosa di diverso, forse non saremmo così in ritardo.

Produrre elettricità dalla fusione nucleare controllata secondo l’attuale ITER di sviluppo richiederebbe il superamento di almeno cinque ostacoli principali.

P1. Cosa succede in un plasma quando raggiunge elevati parametri di confinamento e tende all’ignizione?

Nessuno lo sa ancora veramente: esistono solo sofisticati modelli, ma nessun risultato sperimentale. Come si comporteranno le particelle alfa in quelle condizioni? Quali regimi si instaureranno, e saranno tali da poter trasferire effettivamente l’energia al plasma e permettergli di fungere da moltiplicatore di energia e addirittura di autosostentarsi?

Questa domanda – crediamo – è la prima cui rispondere: “Physics first”, prima la fisica, era il motto del nostro maestro, il professor Bruno Coppi del MIT, cui dedichiamo queste pagine. Enrico Fermi ottenne la prima reazione a catena e quindi il primo reattore nucleare a fissione nel dicembre 1942: per la fusione, non siamo ancora arrivati a quel punto.

Appare assai prematuro sviluppare reattori dimostrativi come DEMO se ancora non sappiamo le basi del comportamento di un plasma ignito. La produzione di energia commerciale – poi – richiederebbe, seguendo questa linea di sviluppo, condizioni di fusione allo stato stazionario per un plasma di deuterio e trizio su una scala paragonabile a quella dei reattori a fissione nucleare con potenza di 1 GW (elettrica) e circa 3 GW (termica).

Gli esperimenti di fusione del deuterio-trizio hanno finora raggiunto brevi impulsi di potenza di fusione di pochi MW (termici) per pochi secondi, corrispondenti a un’energia termica liberata di 5 kWh. Il valore Q (energia prodotta rispetto a energia in ingresso) per questi impulsi era al massimo di 0,65.

Se tutto funziona secondo gli ultimi piani – già più volte rimandati – avremo in ITER i primi plasmi D-T con una potenza di 0,5 GW termici e con un valore Q da 6 a 10 e per 400 secondi, nel 2035. Confrontato con la proposta ITER originale, che era 1.5 GW, con un valore Q di 10-15 e circa 10.000 secondi, è evidente la difficoltà.

I sostenitori di ITER spiegano che il raggiungimento di questo obiettivo sarebbe già un enorme successo, ed è vero. Ma questo “goal” impallidisce rispetto ai requisiti del funzionamento a regime, anno dopo anno, con solo poche interruzioni controllate minori. Per ogni impulso di ITER occorrono poi 0,035 gr di trizio e non è certo difficile procurarsi il combustibile per questo esperimento; ma per un reattore a fusione commerciale da 1 GWe servono 55,6 chilogrammi di trizio all’anno.

P2. Il materiale che circonda e contiene il plasma in un reattore a fusione avrà vita durissima.

Esso deve soddisfare due requisiti. In primo luogo, deve sopravvivere a un flusso di neutroni estremamente elevato con energie di 14 MeV (circa 7 volte i neutroni veloci che si originano dalla fissione), e in secondo luogo, deve farlo non per pochi minuti ma per molti anni. È stato stimato che in una centrale elettrica a fusione il flusso di neutroni sarà almeno 10-20 volte maggiore rispetto alle moderne centrali nucleari a fissione.

Poiché l’energia del neutrone è anche più alta, è stato stimato che – con tale flusso di neutroni – ogni atomo nel solido che circonda il plasma sarà spostato 475 volte in un periodo di 5 anni (cioè un irraggiamento di 475 dpa): come si comporti un materiale, bombardato in tal guisa, è attualmente ignoto.

In secondo luogo, il materiale della prima parete attorno al plasma dovrà essere molto sottile al fine di minimizzare l’assorbimento di neutroni, ma allo stesso tempo abbastanza spesso da resistere sia alle collisioni normali che a quelle accidentali del plasma. “L’erosione” del bombardamento di neutroni è stata stimata in circa 3 mm per anno per materiali simili al carbonio, e si stima che sia di circa 0,1 mm per anno di combustione anche per materiali come il tungsteno.

In breve, nessun materiale conosciuto oggi può neppure avvicinarsi ai requisiti sopra descritti. Esattamente come un materiale che soddisfi questi requisiti possa essere progettato e testato rimane un mistero, perché i test con flussi di neutroni così estremi non possono essere eseguiti né su ITER né su qualsiasi altra struttura esistente o pianificata.

P3. Il trizio è un nuclide radioattivo e quindi pericoloso per gli esseri viventi, sia popolazione che lavoratori dell’impianto.

Inoltre, il trizio è chimicamente identico all’idrogeno ordinario e, come tale, è molto attivo e difficile da contenere. Poiché il trizio è anche necessario per le bombe a fusione all’idrogeno, c’è il rischio aggiuntivo che possa essere “distolto” o rubato. Pertanto, gestire anche i pochi kg di trizio previsti per ITER potrebbe creare grossi grattacapi sia per la protezione dalle radiazioni sia per la proliferazione nucleare.

Incredibilmente, poi, quest’ultimo problema viene completamente ignorato: poiché la IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) non include il trizio fra i materiali di interesse bellico, semplicemente si afferma che la fusione nucleare controllata non ha rilevanti problemi di proliferazione.

P4. I problemi relativi alla fornitura di trizio e all’autosufficienza nella sua produzione sono seri.

In contrasto con le reazioni di fissione, solo un neutrone da 14 MeV viene liberato nella reazione di fusione D + T → He + n.

I neutroni prodotti nella reazione di fusione devono interagire con un materiale “moltiplicatore di neutroni” come il berillio in modo tale che il flusso di neutroni sia aumentato, quindi devono trasferire la loro energia ai materiali strutturali del mantello, un componente che circonda la prima parete. Questa energia deposta va poi asportata con un refrigerante come elio ad alta pressione o acqua, in modo che questo fluido caldo vada a produrre energia elettrica secondo un ciclo termodinamico uguale a quello che si ha nei reattori nucleari a fissione.

Nel mantello deve esserci un materiale a base di litio, in modo che esso, assorbendo i neutroni, generi del trizio. Il trizio va quindi estratto dal mantello, purificato, e stoccato in vista di ri-iniettarlo nel plasma. La tecnologia del mantello, sia per la produzione e gestione del trizio, sia per la refrigerazione e produzione di energia, è fra le più complicate nell’ambito della fusione.

Il trizio, chimicamente, è come l’idrogeno: difficile impedirne la permeazione, con conseguente contaminazione radioattiva dei componenti. I materiali, poi, interagendo con l’idrogeno, posso innescare reazioni esotermiche, oppure peggiorare le proprie proprietà termomeccaniche, già messe a “dura prova” dal danneggiamento neutronico.

Riuscire a produrre almeno un atomo di trizio per ogni atomo consumato (TBR = 1), e quindi per ogni neutrone prodotto, non è semplice, dato che i neutroni posso essere assorbiti da altri materiali che non il litio, o possono sfuggire dal mantello. Ma TBR = 1 non è neppure sufficiente: tenendo conto delle perdite, della necessità di alimentare altri reattori e di altri fattori, il TBR deve aggirarsi sul valore di 1.15.

Si ha inoltre che la reazione triziogena più conveniente è l’assorbimento di neutroni termici da parte dell’isotopo Li6, che però costituisce solo il 7,5% del litio naturale: questo andrà quindi arricchito con opportune tecniche. Ad colorandum, la tecnologia di arricchimento del Litio nell’isotopo Li6 ha rilevanza militare, usa principi e tecnologie simili a quella per l’arricchimento dell’Uranio.

Lo spessore minimo del mantello è stato stimato in almeno 1 metro, e questo fa sì che i magneti, che stanno oltre il mantello, siano di grandi dimensioni e molto lontani dal plasma che debbono contenere. I campi magnetici relativamente bassi che si ottengono nel plasma fanno sì che per ottenere la reazione di fusione occorra riscaldare il plasma con dispositivi aggiuntivi, e che – comunque – l’unico plasma confinabile e che possa bruciare e produrre energia sia in pratica quello composto da deuterio e trizio, i due nuclei più facili da fondere.

Abbiamo detto che circa 55,6 kg di trizio devono essere bruciati all’anno con una potenza elettrica di 1 GW. Oggi il trizio – in quantità di pochi chili all’anno – viene estratto dai reattori ad acqua pesante canadesi a costi straordinari, circa 30 milioni di dollari USA per kg. Ma è ovvio che qualsiasi futuro esperimento di reattore a fusione oltre ITER non deve solo raggiungere l’autosufficienza del trizio, ma deve creare più trizio di quello che utilizza, per alimentare futuri reattori.

P5. La radioattività, ancora.

Un ulteriore problema è dato dalla presenza di grandi flussi di neutroni di elevata energia, che rendono radioattivi i componenti del reattore più vicini al plasma, ovvero la prima parete e i materiali del mantello.

A causa del danno da radiazioni, questi componenti vanno cambiati ogni 5 anni, producendo così grandi quantità di materiali radioattivi. Essi saranno in volumi maggiori di quelli dei reattori a fissione, ma con una radiotossicità molto più bassa. Ovviamente, infatti, le scorie radioattive da fusione non conterranno plutonio, né prodotti di fissione come Cesio-137, Iodio-131 o Stronzio-90.

Con una certa attenzione nella scelta dei materiali componenti, è possibile sperare che possano bastare qualche decennio (per ITER) e un secolo circa (per DEMO) per poter smaltire questi materiali come scorie a bassa radioattività, oppure riciclarli all’interno dell’industria nucleare per costruire altri componenti.

Citeremo per ultimo il problema degli incidenti. Per la fissione, come sappiamo, il rischio più grave è causato dal fatto che questi reattori continuano a generare calore anche da spenti, e se questo non viene smaltito, può portare alla fusione del nocciolo, all’innesco di reazioni chimiche esplosive ed infine alla dispersione di materiali radioattivi pericolosi nell’aria e nell’acqua.

Un reattore a fusione, al contrario, pur essendo un reattore nucleare a tutti gli effetti contenente grandi quantità di radioattività, è come una caldaia continuamente alimentata a deuterio e trizio: se questa alimentazione cessa (la prima cosa che capita in un incidente), cessa anche la produzione di potenza dato che il plasma si spegne subito.

Ci sono buone speranze che un reattore a fusione incidentato riesca a contenere al suo interno tutta la propria radioattività e sia quindi un reattore nucleare sì, ma “intrinsecamente sicuro”.

3. Che fare? Una risposta a breve termine, e una no.

Un quadro sconfortante, ma non insolubile. Cerchiamo allora di riassumere, per vedere se c’è una “causa comune” per tutti i problemi, in modo da cercare un’alternativa.

I risultati scientifici e tecnologici odierni in tutte le aree pertinenti alla fusione nucleare sono ancora ordini di grandezza lontani dai requisiti di base di un reattore prototipo a fusione; particolarmente grave – in un approccio “physics first” – che non si conosca a tutt’oggi il comportamento di un plasma in condizioni di ignizione o perlomeno di elevati fattori di moltiplicazione energetica. Il ridimensionamento degli obiettivi di ITER – oltre che per motivi di costo e di elefantiasi di un progetto mondiale – sta anche nei risicati parametri di plasma ottenibili, a causa della performance appena sufficiente dei magneti superconduttori a bassa temperatura.

I campi magnetici sono bassi, anche perché le dimensioni del reattore sono molto grandi per la presenza del mantello, che poi tiene i magneti lontani dal plasma. Non sono noti materiali o strutture in grado di resistere al flusso di neutroni estremamente elevato previsto in condizioni realistiche di fusione del deuterio-trizio. La produzione autosufficiente e la gestione del trizio sembrano difficili da raggiungere nelle condizioni richieste per operare un reattore a fusione commerciale.

Sebbene probabilmente meno suscettibile ad incidenti gravi per l’ambiente e producendo scorie meno pericolose della fissione, i reattori a fusione saranno reattori nucleari a tutti gli effetti, cioè: con inventari di radioattività importanti. Proprio sulla loro maggior “pulizia” sta l’unica speranza di essere preferibili ai reattori a fissione, dato che sul costo dell’energia, in progetti simili, è davvero meglio sorvolare.

Può esserci rimedio a questa situazione? Se andiamo a cercare che cosa sta “sotto” la maggior parte dei problemi ora elencati, vediamo facilmente che la presenza di elevati flussi neutronici e del trizio creano parecchie difficoltà. Ma prima di questo, anche confinare ed accendere un plasma usando campi magnetici relativamente bassi è altrettanto difficoltoso: prima, vediamo di accenderlo, almeno un equivalente della Pila di Fermi, no?

Per questo motivo è stato un insperato “salto tecnologico” quello di ottenere materiali superconduttori non più alla temperatura dell’elio liquido (meno 270 gradi circa) ma a quella dell’azoto liquido (meno 80 gradi circa), con notevoli risparmi di energia per raffreddare i materiali e possibilità di avere progetti di reattori molto meno complessi e giganteschi, con prospettive di un grande incremento delle prestazioni.

La tecnologia viene studiata ad esempio al MIT di Boston (USA) dove recentemente è stato lanciato il progetto del reattore sperimentale a fusione SPARC, che basa la sua tecnologia sulla superconduzione ad alta temperatura. SPARC promette di arrivare finalmente alla fusione entro pochissimi anni.

Attualmente, proprio pochi mesi fa, il MIT ha appunto lanciato un nuovo progetto, con capofila i prof. Dennis Whyte e Zach Hartwig, il citato SPARC che ha già ottenuto i finanziamenti per poter essere realizzato, anche con l’appoggio fondamentale di ENI ed altre aziende private, non abituate a sprecare i propri soldi su progetti elefantiaci e di pura teoria.

Ma lo scrivente è convinto che il futuro della fusione termonucleare non si basi né sui neutroni né sul trizio. La reazione D + T –> alfa + n è infatti la più semplice da ottenere, ma non è l’unica. La ricerca si è indirizzata anche su altre reazioni di fusione, come ad esempio la fusione fra deuterio ed elio-3, che produce una particella alfa come la precedente, ma anche un protone invece di un neutrone. Certamente, un reattore a fusione a deuterio-elio3 ha alcuni piccolissimi difetti.

La reazione di fusione DHe3 è otto volte più difficile da raggiungere rispetto a quella DT. Se già non riusciamo a ottenere la seconda, come possiamo pensare alla prima?

L’elio-3 è praticamente inesistente sulla Terra, a parte quel poco che deriva dal decadimento del trizio nelle bombe atomiche. Per procurarsi l’elio-3 occorre raccoglierlo dalla superficie della Luna, dove invece è abbondante. Sulla Luna? “Massimo, you must b joking”. Però, la NASA ha studiato la tecnologia, e dice che l’elio-3 è l’unica ragione per tornare sulla Luna dalla quale manchiamo dal 1972.

Certamente, i reattori a deuterioelio3 hanno anche dei bei vantaggi.

Non vengono prodotti neutroni. Quindi niente radioattività indotta nei materiali. Non è proprio così, perché una limitata quantità di neutroni viene comunque prodotta da reazioni secondarie, ma il fenomeno è assai limitato.

Non si usa trizio. Quindi non è necessario produrlo. Ergo non serve tutta la tecnologia del mantello, perché non serve il mantello. Tra l’altro il reattore può essere molto più piccolo e meno costoso, perché subito dietro la camera a vuoto con il plasma si possono sistemare i magneti.

Non essendoci neutroni ma protoni, non serve il solito ciclo termodinamico per scaldare un fluido e poi con un generatore di vapore, una turbina ed un alternatore produrre energia elettrica. La si produce direttamente, con la conversione dei flussi di protoni direttamente in energia elettrica.

Non c’è danno da radiazione nelle strutture, data la bassissima presenza di neutroni. I materiali strutturali possono essere scelti fra i migliori esistenti (per esempio, superleghe a base di nickel, estremamente resistenti) senza preoccuparsi di sapere come si comportano sotto irraggiamento.

Un reattore a fusione con plasmi a Deuterio-Trizio ha ancora molti vincoli di parentela con i reattori nucleari a fissione. Un reattore a fusione con plasmi al deuterio-elio3 non li avrà più, potrà essere visto come un acceleratore di particelle cariche per la produzione di energia elettrica.

Tuttavia, perché parlare di reattori con plasmi praticamente impossibili da accendere ed il cui combustibile sta sulla Luna?

Un ulteriore salto improvviso nella tecnologia dei magneti superconduttori è probabilmente alle porte. Avremo fra non molto nuovi materiali con i quali costruire dei magneti superconduttori in grado di produrre campi magnetici molto elevati, e quindi finalmente confinare ed “accendere” come si deve un plasma in un reattore a fusione. Un plasma di che tipo?

Questo è il punto. Ci saranno fra breve magneti sufficienti per confinare ed accendere un plasma a deuterio-trizio: SPARC lo farà prima di ITER senz’altro. Ma basterà attendere la “generazione” successiva di magneti per riuscire a confinare ed accendere anche un plasma a deuterio-elio3. Fra le due generazioni di magneti potrebbero passare anche soltanto dieci anni.

Non pensate che – a quel punto – converrà aspettare pochi anni, e i plasmi a deuterio-trizio – con tutti i loro problemi indotti dal trizio e dai neutroni – diventeranno un ricordo del passato, mentre il primo reattore a fusione dimostrativo sarà “pulito” e basato su plasmi deuterio-elio3?

Dato che finalmente, una volta che la scena entrerà in movimento, la NASA riuscirà a far correre i suoi razzi per qualcosa di utile, e non solo per sete di conoscenza?

Saremo probabilmente alla fine degli anni ’30. Allora forse si dirà: ah, quanti sforzi profusi a sviluppare delle tecnologie che si sono poi rivelate poco utili! Se avessimo saputo: c’erano allora (negli anni ’10) solo pochi pazzi che insistevano sul deuterio-elio3, ma erano relegati ai margini.

Dice: tu aspetti la manna del cielo, il deus ex machina dei magneti superpotenti, ed intanto cosa fai? E se poi non arrivano? Meglio seguire la strada “sicura” di ITER.

Non è così. Occorrerebbe orientare la ricerca sperimentale sulle macchine tokamak ad alto campo magnetico e di dimensioni compatte. Le dimensioni compatte si ottengono anche rinunciando al mantello e ponendo i magneti superconduttori (quelli di oggi) vicini al plasma, dietro la camera a vuoto. Questo approccio ha il vantaggio di poter ottenere alti campi magnetici e quindi migliori parametri nel plasma. E – come prima cosa – si possono studiare e ottenere alti valori di Q e poi l’ignizione in plasmi D-T che funzionino coi magneti attuali.

Physics first: in questo modo avremo la possibilità di risolvere la prima delle grandi difficoltà della fusione (P1) e per fare questo non occorrono macchine di grandi dimensioni ed elevata complessità come ITER. Basta un tokamak compatto ad alto campo magnetico. In passato è stato proposto, dal gruppo del prof. Bruno Coppi del MIT, il reattore Ignitor che andava esattamente in questa direzione.

SPARC promette di venire costruito ed arrivare a stabilire record impensabili per i plasmi a fusione D-T entro pochissimi anni, utilizzando appunto la tecnologia dei magneti superconduttori ad alta temperatura (si intende, quella dell’azoto liquido). È questo l’iter da seguire: non ITER, per riprendere il gioco di parole che dà titolo a questo articolo.

Noi non diciamo qui che occorra abbandonare ITER, dopo decenni di sforzi per mettere insieme il progetto, proprio ora che sono a buon punto i lavori di costruzione del sito in Francia: un progetto al quale sono connesse le attività della grande maggioranza dei ricercatori e studiosi di fusione.

Non è forse troppo tardi, però, per riconoscere che il progetto ITER è a questo punto nient’altro che un costoso esperimento per indagare su alcuni aspetti fondamentali della fisica del plasma. Questo in effetti riconoscerebbe anche che l’attuale processo di finanziamento di ITER si basa su ipotesi errate e che ITER dovrebbe essere finanziato equamente a parità di condizioni con altri progetti di ricerca di base. Anche perché noi, contrariamente ai vertici del progetto ITER, non siamo sicuri che le nostre predizioni si avvereranno.

Conviene portare avanti il progetto ITER, perché non è escluso che esso possa effettivamente essere “la via” verso il reattore a fusione. Ma probabilmente, invece, ITER – pur fornendo miriadi di dati preziosissimi – sarà l’ultimo della sua specie, e dovrà rivedere in corso d’opera alcuni suoi programmi per l’ultima fase di funzionamento.

DEMO, come lo concepiamo ora, non vedrà probabilmente mai la luce. SPARC non ha bisogno dei fondi immensi di ITER per venire costruito. E questa piccola macchina sperimentale porterà i plasmi a deuterio-trizio al massimo livello di sviluppo raggiunto fino a quel momento.

Cosa succederà dopo? Noi, ripetiamo, non siamo aruspici. La soluzione più probabile è che il reattore dimostrativo non sia più DEMO, ma ARC, l’evoluzione di SPARC che già è in fase di studio, e che funzionerà anch’esso a plasmi deuterio-trizio.

ARC (Affordable Robust Compact Reactor) sarà però già collegato alla rete elettrica e sarà in grado di produrre elettricità in maniera economicamente competitiva: avrà la particolare capacità di poter produrre energia elettrica nei momenti della giornata (metà mattina e metà pomeriggio) nei quali la rete elettrica ha i suoi picchi di richiesta, e dove quindi l’energia “vale” assai di più che – ad esempio – la notte. Quello che si fa ora per fare il cosiddetto “load-following”, è accendere in quelle ore le centrali a olio combustibile oppure a metano. ARC potrà competitivamente sostituirle.

ARC funzionerà a deuterio-trizio, quindi avrà bisogno di un mantello, ed avrà – seppur in maniera molto inferiore – gli stessi problemi di approvvigionamento del trizio, di presenza di neutroni, e di radioattività di DEMO. Tuttavia, sfruttando sempre la tecnologia dei magneti ad alto campo, potrà permettersi dimensioni assai più contenute di DEMO, una semplicità di design e costruzione assai superiori, un costo molto più basso.

Il suo mantello sarà assai semplice, costituito da un fluoruro di litio e berillio liquido (FLiBe) circolante in un contenitore dietro la camera a vuoto. Potrebbe andare così, e già andrebbe bene.

4. Se diciamo una bugia, tanto vale dirla grossa

Potrebbe andare così, e già andrebbe bene. Ma potrebbe, come abbiamo accennato, andare ancora meglio. La tecnologia dei magneti superconduttori ad alta temperatura potrebbe fare quello che si dice un “break-through”, un altro salto, o passo avanti, e permettere di ottenere elevatissimi campi magnetici sufficienti a contenere e far bruciare un plasma a deuterio-elio3.

Anche questo tipo di plasma andrà studiato con un approccio “physics first”, con una macchina sperimentale che ci consenta di sapere cosa succede quando un plasma deuterio-elio3 brucia. I progetti di reattori sperimentali a deuterio-elio3 sono moltissimi nel mondo e non aspettano altro che di venire finanziati.

Nel nostro piccolo, segnaliamo che il progetto IGNITOR era in grado, come tutte le macchine ad alto campo magnetico e compatte, di studiare anche plasmi a deuterio-elio3. Ne è stata proposta e sviluppata negli stadi iniziali del design anche una evoluzione mirata esclusivamente allo studio di questi plasmi avanzati, chiamata CANDOR. Non si trattava di ‘cappelli di matto’, se nel 2015 il Comitato per il Premio Nobel per la Fisica è arrivato a considerare degne di nomina queste ricerche.

Per approvvigionare questi esperimenti, è sufficiente l’elio3 che si può ottenere artificialmente sulla Terra, analogamente al trizio che serve ad ITER. Sulla base dei risultati di SPARC e sull’uso di queste nuove tecnologie, sarà poi possibile lo sviluppo di una versione “ibrida” successiva, un ARC privo di mantello e che funzioni a deuterio-elio3: potrebbe essere questo il reattore a fusione dimostrativo. Connesso alla rete elettrica, pulito perché senza trizio e con pochissima radioattività, addirittura economicamente competitivo. Ed entro – diciamo – il 2035-2040.

A quel punto, però, le missioni commerciali sulla Luna per estrarre minerale con l’elio3 dovranno essere una realtà. La rinuncia al trizio farebbe sparire tutti i rimanenti problemi della fusione (P2-P5) liberando anche risorse economiche ingentissime che potranno servire per finanziare le spedizioni lunari, sulla cui fattibilità tecnica la NASA non ha dubbi.

In quel momento, ITER starà probabilmente funzionando nella sua fase DT, sconnesso dalla rete elettrica, e rilevantemente contaminato da trizio, con i suoi bassi campi magnetici forniti da magneti convenzionali.

Siamo certi che, a valle delle decine di mutamenti di progetto che ITER ha visto in questi anni, non sarà difficile trovare un modo per trasformarlo in una macchina sperimentale che fornisca dati utili per lo sviluppo dei reattori a fusione, quelli veri. Che, siamo pronti a scommetterci, somiglieranno ad ITER assai poco.

Riferimenti

1) Sito del progetto ITER: www.iter.org

2) M. Zucchetti, Fusione nucleare: ITER fuori strada (Puntozero n.10, 2018)

3) John Wesson, The Science of JET, Chapter 1 and Appendix I, March 2000; si veda il sito https://www.euro-fusion.org/devices/jet/ per i dati sugli esperimenti del JET.

4) E.E. Bloom, S.J. Zinkle, F.W. Wiffen, Materials to deliver the promise of fusion power – progress and challenges, Journal of Nuclear Materials 329–333 (2004) 12–19

5) La nuova corsa all’oro (The Lunar Gold Rush: How Moon Mining Could Work, May 29, 2015) https://www.jpl.nasa.gov/infographics/the-lunar-gold-rush-how-moon-mining-could-work

6) Il reattore SPARC. https://www.psfc.mit.edu/sparc

7) Il progetto Ignitor. http://www2.lns.mit.edu/ignitorproject/Ignitor@MIT/Home.html

8) Il reattore ARC. https://en.wikipedia.org/wiki/ARC_fusion_reactor

9) S. Segantin, D. Whyte, M. Zucchetti, Fusion Energy and the ARC Project, International Journal of Ecosystems and Ecology Science (IJEES), 7,4 (2017) 839-848.

10) B. Coppi, P. Detragiache, S. Migliuolo, M. Nassi, B. Rogers, “D-3He burning, second stability region, and the Ignitor experiment,” Fusion Technology 25, 353 (1994).

11) M. Zucchetti, R. Testoni, Energy: a study for advanced solutions including low-neutron nuclear fusion, Fresenius Environmental Bulletin 26(1):75-79 · January 2017

Fonte

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