di Gioacchino Toni
Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00
Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.
Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare gli sguardi critici più analitici. Regista, produttore, direttore della fotografia, montatore e sceneggiatore, lo statunitense muove i primi passi nel cinema indipendente per poi sbarcare ad Hollywood manifestando quella che Fadini definisce efficacemente la sua “natura ibrida” che si palesa nella sua propensione a “indipentizzare” Hollywood e, allo stesso tempo, “hollywoodizzare” il cinema indipendente.
Dunque, un cinema dalla doppia anima capace di rivolgersi tanto a chi si lascia più facilmente attrarre dai meccanismi hollywoodiani quanto a chi, invece, va alla ricerca di una «messa in discussione degli aspetti economici, politici, industriali di potere di cui anche proprio quegli apparati hollywoodiani possono trovarsi a fare parte» (p. 10). Pur ricorrendo a budget elevatissimi, a star di primo piano e non mancando di cooperare con le grandi piattaforme dello streaming, Soderbergh non rinuncia a portare avanti la sua originale critica al capitalismo, anzi, si può dire che la muove ricorrendo proprio a quanto intende prendere di mira.
Riprendendo gli studi sull’“immagine-personaggio” di Geoff King (New Hollywood Cinema, 2002), estesi a livello del corpo in Soderbergh da parte di Andrew de Waard e R. Colin Tait (The Cinema of Steven Soderbergh, 2013), Fadini si sofferma su come il regista statunitense ami che nei suoi film le star a cui ricorre mettano in discussione il loro status attoriale, come avviene con George Clooney, soprattutto in film come Solaris (2002) – remake dell’omonima opera di Andrej Tarkovskij – e Intrigo a Berlino (The Good German, 2006), e con Meryl Streep in Panama Papers (The Laundromat, 2019), ove secondo lo studioso è possibile «riscontrare l’elemento che è tipico della critica al capitalismo del cinema soderberghiano, ovvero il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti, quando a parlare direttamente in macchina denunciando il sistema non è più il personaggio, sia esso Helena, Ellen o John Doe, ma la stessa Meryl Streep che non rappresenta più nessuno tranne che sé stessa» (p. 27).
Rifacendosi alle riflessioni di Gilles Deleuze (Cinéma 2. L’Image-temps, 1985), Fadini si sofferma sulla saga degli Ocean’s (dal 2001) ove l’“immagine-finzione” palesa all’interno della produzione dello statunitense la sua concretizzazione maggiore nel giocare costantemente tra il vero ed il falso.
In tali film, ove ladri e derubati manifestano un rapporto costitutivo con la visione, è proprio l’“effetto finzione” che permette ai primi di eludere i sistemi di sicurezza posti a protezione di ciò che intendono rubare. Guardando all’opera di Soderbergh ricercandone elementi di critica al capitalismo Fadini si domanda se nel trittico Ocean’s le tecniche sofisticate con cui operano i truffatori riescano davvero a praticare una critica radicale a quel capitalismo di cui è simbolo la città di Las Vegas o se tali gesta non siano altro che «l’ennesima ristrutturazione e riaffermazione del capitalismo stesso» (p. 41). Quanto insomma, per dirla con i «Quaderni rossi», le lotte condotte contro il capitale comportino lo sviluppo di questo ultimo.
Analizzando Schizopolis (1996) è possibile cogliere l’elaborazione da parte di Soderbergh di quella che può essere definita “schizo-immagine”.
Lungo tutto il film, infatti, troviamo costanti inversioni di causa ed effetto nella narrazione dovute al fatto che Soderbergh stesso interpreta non solo due personaggi che sono l’uno il sosia dell’altro ma addirittura alla fine del film un terzo personaggio che parla una lingua differente dai due precedenti. Gli stessi linguaggi parlati si articolano o in un contenuto irrelato rispetto alla forma, o in una forma che non rimanda a nessun contenuto immediatamente riconoscibile per lo spettatore. In Schizopolis Soderbergh elabora temi e tecniche che saranno presenti in tutta la sua successiva filmografia. Ci riferiamo all’alternanza di analessi e prolessi che si caratterizza per il mostrare successioni di eventi da più punti di vista; alla presenza di pastiche tecnici come alternanza di riprese con la camera fissa e la camera a mano e alla presenza di un film che si avvolge attorno alle riprese dello stesso farsi di questo medesimo film (p. 44).
La critica al capitalismo portata avanti dal cinema di Soderbergh viene indagata da Fadini seguendo tre direttrici principali: il rapporto tra corpo e capitale, il capitalismo finanziario e il capitalismo come forma di potere.
Circa il primo aspetto, a essere analizzato dallo studioso è in particolare High Flying Bird (2019), film sul mondo del basket statunitense – nei suoi livelli politico, economico e razziale – incentrato sul blocco dell’avvio della stagione agonistica derivato dal contenzioso tra proprietari delle squadre, networks televisivi e giocatori. «Si tratta di un dramma sportivo di classe sulla relazione tra il gioco e l’economia, ma in termini potremmo dire marxiani se non proprio marxisti. Il lockout è, infatti, visto dalla parte delle matricole e dalla parte di quei giocatori che non arrivano alla fine del mese di contro alle grandi star del gioco o di chi si approfitta dei più deboli» (p. 58).
La denuncia nei confronti dello “sfruttamento” dei corpi, privati di autonomia e assoggettati alla logica dello spettacolo, è rintracciabile anche nella saga Magic Mike (dal 2012 al 2023).
È certamente corretto affermare, come fatto da alcuni, che Magic Mike sia un film sul plusvalore estratto dai corpi al lavoro, tuttavia dobbiamo ricordare che è l’immaginario il luogo in cui questo plusvalore viene estratto poiché il film è una critica proprio a questo autodeterminarsi dell’immaginario separato dall’incontro con il reale del corpo dell’Altr*. Da questo punto di vista, in tutta la saga Magic Mike i corpi “lavorano” completamente all’interno di un orizzonte immaginativo femminile per chi assiste allo show del gruppo ed il contatto con il reale per loro è dato dal denaro che le spettatrici lanciano sul palco durante i numeri dello spettacolo (p. 64).
La critica al capitalismo condotta da Soderbergh sul versante finanziario si manifesta attorno alla figura del “flusso” declinata in diversi modi. Panama Papers, ad esempio, ruota attorno ai flussi finanziari mostrando come alla smaterializzazione del denaro si affianchi una smaterializzazione dello scontro di classe, tanto che si può parlare di un film sulla “fantasmaticità” dell’intero sistema.
Paradossalmente la critica proposta dal regista è mossa attraverso un film prodotto e diffuso da Netflix, piattaforma simbolo dell’attuale capitalismo globale. La messa in discussione dello status quo viene portata avanti da Soderbergh, più che attraverso un montaggio destrutturante, con «il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti» (p. 71). Difficile dire quanto tale deragliamento permetta davvero alla critica di sottrarsi dall’abilità del sistema spettacolare di riassorbire gli attacchi formali rivolti contro di esso.
Pur declinati in altro modo, i flussi del capitale fanno la loro comparsa anche in Traffic (2000); in questo caso sotto forma di flussi di droga e denaro. “Traffico”, dunque, come flusso,
come qualcosa che non è mai da un punto delimitato ad un altro punto delimitato, ma che si muove nel “tra” più che “dal… al”. Da questo punto di vista, uno dei temi principali del film è il confine come luogo appunto del “tra”. È sul confine che si combatte la guerra per bloccare il traffico di droga. È il confine il luogo degli incroci ove una delle tesi del film è che il Nafta, ovvero l’accordo di libero scambio tra USA e Mexico, sbriciola la già porosa frontiera tra gli stessi USA e Mexico, in modo tale che i corrieri della droga possano fare su e giù tra i due paesi come i semplici corrieri FDX, DHL, UPS etc. Il “traffico” è una fitta rete di relazioni in cui nessuno è pulito (p. 71).
Anche Contagion (2011) è un film sui flussi, in tale caso incentrato sulla relazione tra virus e capitalismo, sull’industria farmaceutica e sul mercato azionario, oltre che sull’accesso classista al vaccino.
Per quanto riguarda la critica al capitalismo come “forma di potere”, sebbene trasversale all’intera opera soderberghiana, questa è secondo Fadini particolarmente evidente nei film Intrigo a Berlino e No Sudden Move (2021), oltre che nelle serie televisive K-Street (2003) e The Knick (2014-2015).
Intrigo a Berlino porta a compimento quanto già si era visto in Delitti e segreti ove Soderbergh era riuscito nell’intento di dipingere una realtà distopica perfettamente ordinata in cui il caos era del tutto represso in una serie di pratiche inutili ed autoreferenziali, in cui la stessa possibilità di ribellarsi veniva negata perché a mancare era quel qualcuno che dirigesse e regnasse sulla distopia (pp. 76-77).
Se Delitti e segreti palesa la rassegnazione dell’individuo al suo ruolo di ingranaggio che concorre a perpetuare il sistema, Intrigo a Berlino manifesta l’impossibilità di redenzione dal proprio passato. Ad essere dichiaratamente un film sul “potere” nelle sue diverse articolazioni è No Sudden Move.
Anche in questo caso, i singoli sono schiacciati all’interno di rapporti di forza che non riescono a soverchiare. La differenza è che, in questo caso, Soderbergh prende di mira la strutturazione del capitale secondo nodi di potere che rimandano a rapporti di oppressione più diretti rispetto al capitalismo attuale o meglio, in cui il capitalismo non è ancora smaterializzato ma è riferibile a persone fisiche che ne detengono il potere (p. 78).
Venendo alle due serie televisive, se K-Street, in un mescolarsi di fiction e personaggi reali, mette in scena il mondo delle lobby, l’incidenza dei gruppi di potere sulla politica statunitense, The Knick, ambientata a inizio Novecento presso l’ospedale newyorkese Knickerbocker – in un intrecciarsi di medicina, psichiatria, psicoanalisi, eugenetica, dipendenze e questioni razziali – presenta un
microcosmo umano di una formidabile epoca di transizione all’interno della quale si muovono personaggi spinti, ognuno a suo modo, da personali ambizioni o demoni interiori, interessi o riscatti. […] L’ambizione e la corruzione, l’audacia e la violenza, la meschinità e l’impudenza sottendono alla narrazione complessa di questo universo concentrato nel Knickerbocker che, andando ben oltre l’epoca in cui è ambientato, universalizza il meccanismo del potere come automatismo atemporale e, tragicamente, umano (p. 80).
Il secondo dei film soderberghiani dedicati a Che Guevara – Che. L’argentino (The Argentine, 2008) e Che. Guerriglia (Guerrilla, 2008) – permette a Fadini di soffermarsi su quella “immagine-rivoluzionaria” che, secondo Jun Fujita Hirose (Il cine-capitale, 2020) per essere tale deve passare attraverso un processo di “divenire-rivoluzionario” delle immagini.
In Che guerriglia, infatti, le immagini iniziano a valere per se stesse e non sono più messe al lavoro della valorizzazione del cine-capitale, proprio nel massimo momento della lotta contro il nemico. Se cioè per Hirose le immagini sono prese in divenire rivoluzionari quando diventano immagini-tempo dirette e in cui ad emergere è una virtualità che si affranca da qualsivoglia forma di rappresentazione per affermarsi come forme ottiche e sonore pure che non rappresentano più niente che non siano se stesse e quindi in definitiva rompono con l’idea stessa di essere delle ripresentazione, per Soderbergh questa virtualità è il farsi sempre più lontano di Ernesto Guevara da se stesso per trasformarsi nel rivoluzionario puro che non attualizza la propria virtualità in un’unica rivoluzione ma che si ri-mette sempre in gioco in infinite rivoluzioni (p. 82).
Hirose ritiene che «l’espropriazione dei mezzi di produzione dei cine-capitalisti e l’inversione dei suoi rapporti di forza» si dia attraverso un montaggio di concatenamenti immaginali alternativi «in cui il tempo prevale sul movimento nel senso della riappropriazione del tempo proprio di ogni forma di rifiuto del lavoro». Se l’immagine-tempo deve potersi affermare come tale, è il nomadismo rapsodico del Che nella selva boliviana a permettere l’affermazione della sua lotta «come un evento, ovvero come qualcosa che non esaurendosi mai nell’attualità resta come una riserva che resiste alle ristrutturazioni capitalistiche» (p. 83).
Un capitolo di Mosaico Soderbergh è dedicato allo sperimentalismo che caratterizza la produzione dello statunitense, uno sperimentalismo «che può essere opera solo del cineasta poiché, essendo il cinema un tipo di arte votata al business, il compito del cineasta è solo quello di prendere su di sé per propria iniziativa quei pericoli che nessuno gli concederebbe tanto facilmente o anche più semplicemente lo incoraggerebbe a prendere» (p. 92). Uno sperimentalismo, dunque, non fine a sé stesso ma dal significato prettamente politico.
Il ricorso al digitale, nota Fadini, non fa che accentuare la dimensione “schizofrenica” del cinema di Soderbergh che finisce con l’intrecciarsi al tema del simulacro «se la realtà è solo copia di una copia, l’espressione di una molteplicità di flussi, l’atto creativo che pertiene all’uso del digitale non solo permette di accedere a questa realtà ma, per altro verso, concorre a determinarla a tal punto che persino lo spettatore può essere coinvolto nella ricerca di un senso da dare a questa linea schizofrenica» (p. 112).
Il volume di Fadini mostra insomma come l’opera di Soderbergh, nel suo proporsi all’insegna dell’ibridazione – tra «verità e finzione, autorialità e appartenenza allo star system, velocità e accuratezza nelle riprese e nel montaggio, critica al capitalismo ed appartenenza alle sue strutture realizzative, fiction e realismo, originalità e remake» (p. 114), e tanto altro ancora – possa essere efficacemente paragonata a un grande mosaico composto da tessere distinte e al tempo stesso collaboranti nel definire un’immagine unitaria dotata di coerenza, una coerenza costruita sulle tante contraddizioni che, d’altra parte, caratterizzano la sfuggente complessa realtà contemporanea.
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