L’attacco al consolato iraniano a Damasco del 1° aprile, effettuato con 6 missili lanciati probabilmente da un F-35 israeliano, rischia di allargare il conflitto in Medio Oriente. Nel mirino dei velivoli israeliani forse un summit tra alti funzionari dell’intelligence iraniana, della Forza al-Quds (la divisione dei Guardiani della Rivoluzione che gestisce le operazioni all’estero) e, secondo il New York Times (che cita fonti dei pasdaran iraniani), esponenti della Jihad Islamica Palestinese riuniti per discutere della guerra nella Striscia di Gaza.
Allo stesso giornale quattro funzionari israeliani rimasti anonimi hanno confermato che a sferrare il raid sono state le Israeli Defence Forces (IDF) e anche se il governo Netanyahu non ha commentato l’accaduto, Daniel Hagari, portavoce militare israeliano citato dalla CNN, ha riferito che l’edificio attaccato non era una sede diplomatica ma un quartier generale dei pasdaran e quindi un obiettivo militare.
Nell’attacco, secondo una nota diffusa a Teheran dalle stesse Guardie della Rivoluzione, sono rimasti uccisi almeno tre generali della Forza al-Quds insieme ad altri quattro ufficiali delle Guardie Rivoluzionarie.
Nelle ore successive il numero di morti sembra essere salito a 11 ma tra questi la figura più importante per il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica è senza dubbio il generale di brigata Mohamad Reza Zahedi, 63 anni a capo dei 4mila pasdaran schierati in Siria e in parte in Libano a sostegno del governo del presidente Bashar Assad e delle milizie Hezbollah e responsabile per gli aiuti militari iraniani che attraverso la Siria raggiungono le milizie sciite libanesi.
Aiuti militari che avrebbero costituito l’obiettivo di diversi raid aerei israeliani effettuati nei giorni scorsi nell’area dell’aeroporto siriano di Aleppo. Con Zahedi, veterano della guerra contro l’Iraq del 1980-88, è stato ucciso anche il generale di brigata Mohammad Hadi Rahimi, indicato come il vice comandante della Divisione al-Quds.
Le reazioni
L’Iran ha inviato “un messaggio importante” al governo degli Stati Uniti dopo l’attacco israeliano, ha riferito ieri il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. “Alle 00:45 di questa mattina, un funzionario dell’ambasciata svizzera, agendo in qualità di rappresentante degli interessi statunitensi in Iran, è stato convocato presso il ministero degli Esteri. Durante l’incontro, sono state discusse le implicazioni dell’attacco terroristico e criminoso attribuito al regime israeliano, evidenziando la responsabilità del governo statunitense. Un importante messaggio è stato trasmesso al governo degli Stati Uniti, in quanto sostenitore del regime sionista. Gli Stati Uniti devono essere ritenuti responsabili”, si legge nel messaggio diffuso attraverso il social X.
Che l’Iran ritenga gli USA quanto meno corresponsabili per l’attacco a Damasco lo si evince forse anche dal drone attribuito alle milizie irachene filo-iraniane in Siria, abbattuto ieri nei pressi della base militare americana di al-Tanf, nel sud della Siria ai confini con la Giordania.
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha parlato di “atto criminale, disumano e vigliacco” che “non resterà impunito” mentre il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, ha aggiunto che l’attacco “viola tutte le convenzioni internazionali” e che seguirà una “risposta decisiva”.
La guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, ha affermato che l’Iran farà “pentire Israele per questo crimine” e “sarà punito per mano dei nostri uomini coraggiosi”. Anche il gruppo libanese Hezbollah ha assicurato risposte ma la condanna del raid è giunta anche da Arabia Saudita, Russia, Libano, Iraq, Venezuela e Cuba.
Il ministero degli Esteri saudita ha espresso “un rifiuto categorico” per la “presa di mira delle strutture diplomatiche per qualsiasi giustificazione e con qualsiasi pretesto, che costituisce una violazione delle leggi diplomatiche internazionali e delle regole dell’immunità diplomatica”.
La Lega Araba ha condannato l’attacco israeliano definendolo una “palese violazione della sovranità siriana e un’ulteriore grave violazione da parte di Israele del diritto internazionale, compresa la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche riguardo al rispetto delle sedi diplomatiche”.
Una fonte ufficiale del segretariato generale ha avvertito del “pericolo di azioni commesse da Israele volte ad espandere la portata della guerra a livello regionale e a gettare la regione in uno stato di caos”, chiedendo la necessità di “proseguire gli sforzi per porre immediatamente fine a questa guerra e mettere la parola fine ai crimini commessi quotidianamente da Israele”.
Il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha detto che gli Stati Uniti sono al lavoro con i Paesi della regione “per raccogliere maggiori informazioni” e fare luce sull’accaduto, chiarendo di “non avere conferme” sull’origine dell’attacco.
Più esplicito il vice portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, che rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto che gli Stati Uniti “non hanno lanciato l’attacco” contro il consolato iraniano a Damasco, in Siria e “non sono stati informati da Israele dell’attacco o dell’obiettivo designato del loro attacco a Damasco. No, non sosteniamo attacchi a siti diplomatici”.
“Gli Stati Uniti non sono coinvolti in alcun modo” nel raid, ha assicurato il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby. Ma per Ali Shamkhani, consigliere militare di Khamenei, la “responsabilità diretta” del raid è degli Stati Uniti: “Il regime sionista, agendo come un esercito per conto degli USA nella regione, ha commesso un atto sciocco attaccando il consolato dell’Iran a Damasco. Che Washington fosse a conoscenza delle intenzioni di Israele non ha alcuna incidenza sulla responsabilità diretta degli Stati Uniti per questo crimine e le sue conseguenze”, ha scritto su X.
Mosca ha difeso l’alleato siriano. “Condanniamo l’attacco al consolato iraniano di Damasco. Ogni attacco contro sedi diplomatiche e consolari è assolutamente inaccettabile, e non è l’unico raid condotto da Israele in aree densamente popolate della capitale siriana. Dall’inizio della guerra a Gaza gli attacchi a strutture civili e contro civili in Siria si sono moltiplicate” ha detto l’ambasciatore russo all’ONU Vassily Nebenzia durante la riunione del Consiglio di Sicurezza.
“Gli attacchi in Siria sono una flagrante violazione della sovranità territoriale e totalmente inaccettabili. Le azioni di Israele in Medio Oriente non solo violano la Carta Onu, ma le disposizioni della convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche”.
Nebenzya ha poi aggiunto che “la colpa di una possibile escalation in Medio Oriente a causa dell’attacco israeliano alle strutture diplomatiche iraniane in Siria ricadrà interamente sulla coscienza di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che, invece di condannare l’attacco, stanno etichettando le vittime di questo attacco. Nei discorsi del Regno Unito e degli Stati Uniti, si potevano trovare non solo accenni, ma anche riferimenti diretti al fatto che l’Iran e la Siria sono da biasimare per il fatto che Israele ha colpito il consolato iraniano. È difficile immaginare una malafede più grande”.
Pechino ha sottolineato come “la sicurezza delle sedi diplomatiche non possa essere violata” e il raid israeliano è stato stigmatizzato anche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, mentre da Bruxelles la Commissione Ue ha lanciato un generale appello alla “moderazione”, affermando che “un’ulteriore escalation nella regione non è nell’interesse di nessuno”, anche se questa valutazione potrebbe non rivelarsi del tutto esatta.
Considerazioni
Finora l’Iran, pur sostenendo Hamas, le altre milizie palestinesi e gli alleati in Siria, Iraq, Libano e Yemen, ha attentamente evitato di farsi coinvolgere in un conflitto contro Israele e, di conseguenza, contro gli Stati Uniti. Un conflitto che neppure gli arabi vogliono, impegnati in un progressivo riavvicinamento con Teheran mediato lo scorso anno dalla Cina e con Israele, almeno fino al 7 ottobre dello scorso anno.
Evidente l’imbarazzo di Washington per il raid a Damasco, sia perché l’amministrazione Biden sta facendo di tutto (anche per ragioni elettorali) per frenare le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, sia perché in Siria sono del tutto illegali per il diritto internazionale anche le 4 basi militari statunitensi, al-Tanf nel sud e altre tre più piccole nell’est a ridosso dei pozzi petroliferi il cui controllo è reclamato dal governo di Damasco e che costituiscono a tutti gli effetti una occupazione del territorio siriano.
Israele ha condotto molte incursioni in Siria contro esponenti delle milizie scite filo-iraniane e contro carichi di armi che Gerusalemme sospetta siano diretti a Hezbollah ma il raid contro la sede diplomatica iraniana a Damasco costituisce un’escalation che non può essere casuale. Appare invece come una provocazione tesa a determinare una rappresaglia iraniana che rischierebbe di allargare il conflitto.
L’Amministrazione Biden è irritata col governo israeliano anche perché il prolungamento delle operazioni a Gaza e le tante vittime civili palestinesi stanno compromettendo molti consensi al presidente tra gli elettori del Partito Democratico (specie tra i più giovani) oltre a inficiare ulteriormente l’influenza statunitense nel mondo arabo. Finora tale irritazione è emersa chiaramente sul piano politico e diplomatico ma potrebbe presto, con l’avvicinarsi del voto negli Stati Uniti, assumere anche un peso militare, forse decisivo.
Israele riesce a continuare a sostenere la guerra dopo sei mesi di operazioni solo grazie ai rifornimenti di munizioni che giungono dagli Stati Uniti nell’ambito degli aiuti militari per diversi miliardi di dollari che annualmente Washington stanzia a favore dello Stato ebraico: in febbraio è stata approvata a Washington la fornitura d’urgenza di 14mila proiettili da 120 mm per i cannoni dei tank Merkava e nel dicembre 2023 di altrettanti proiettili d’artiglieria da 155 mm.
In gennaio i media israeliani hanno rivelato che presto verranno approvate nuove forniture statunitensi per 18 miliardi di dollari comprendenti ulteriori 25 velivoli da combattimento F-35I Adir, 25 F-15I e 12 elicotteri d’attacco AH-64 Apache con nuovi imponenti lotti di munizioni incluse 1.800 bombe d’aereo MK84 e 500 Mk82.
La possibilità che Washington possa condizionare pesantemente Israele sospendendo o rallentando le forniture militari, soprattutto di munizioni, non è così remota e a fine gennaio era stata confermata da quattro fonti interne all’amministrazione americana alla CBS: non a caso nei giorni scorsi il premier Benjamin Netanyahu ha espresso la necessità che Israele disponga di una maggiore autonomia dagli aiuti militari statunitensi in termini di munizioni.
Il raid degli F-35 a Damasco potrebbe quindi avere l’obiettivo di trascinare nel conflitto l’Iran, e di conseguenza gli USA, o quanto meno di aumentare il coinvolgimento di Teheran nelle operazioni belliche con l’intento di imporre agli Stati Uniti un sostegno incondizionato a Israele, interrompendo le pressioni affinché fermi l’offensiva nella Striscia di Gaza. Un’opzione che senza dubbio consentirebbe ad Hamas di proclamare la vittoria.
Per Netanyahu, pressato da un lato dalle manifestazioni popolari che chiedono la liberazione degli ostaggi prigionieri di Hamas o pretendono nuove elezioni e dall’altro da gran parte della comunità internazionale che invoca lo stop delle operazioni a Gaza (ancor più forte dopo l’uccisione di sette operatori umanitari), quella iraniana potrebbe essere l’ultima carta da giocare.
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