Non è durata molto la stagione del “green deal”, ossia l’innamoramento capitalistico per le tecnologie capaci di ridurre le emissioni climalteranti facendone il driver per una nuova fase di crescita dei profitti. È finita insomma l’epoca in cui i potenti accoglievano Greta Thurnberg come un interlocutore popolare (ora viene arrestata come tanti altri perché manifesta contro il genocidio palestinese a Gaza).
Il malessere dei costruttori di auto europei è diventato un programma politico chiaramente indirizzato a rinviare sine die la “neutralità climatica” e chissenefrega della scienza che certifica un sempre più rapido degrado ambientale, prima di tutto climatico.
In Italia Confindustria ha rotto gli indugi, nella certezza di avere un governo già ampiamente allineato. Lasciamo perdere il solito Salvini, che a Cernobbio si è presentato sventolando slide sul ritorno al nucleare (“di terza generazione avanzato”, naturalmente, che ha l’unico difetto di non esistere...), la flat tax e lo stop al divieto di produrre motori endotermici a partire dal 2035.
Quest’ultimo punto, più seriamente, è stato promesso dal “ministro per le imprese e il made in Italy”, Adolfo Urso, fin dal vertice europeo convocato il 25 settembre a Bruxelles dalla presidenza ungherese, seguito il giorno dopo dal consiglio Competitività.
L’obiettivo è chiaro: «Non possiamo aspettare la fine del 2026 per rivedere gli obiettivi del Green Deal, altrimenti rischiamo il collasso dell’industria automobilistica europea e l’invasione di Bruxelles da parte degli operai in rivolta» (naturalmente tace sul fatto che il suo governo sta lavorando all’ennesimo “decreto sicurezza” per vietare preventivamente qualsiasi manifestazione, operaia e non, figuriamoci poi le “rivolte”...).
In pratica si vuole accantonare completamente questo programma, usando il passepartout della “neutralità tecnologica”, un fumoso concetto che lascia “libertà a individui e organizzazioni di scegliere la tecnologia più appropriata adeguata alle loro esigenze e ai loro requisiti per lo sviluppo, l’acquisizione, l’uso o la commercializzazione”.
E appare lampante che se alle imprese si lascia “libertà” di scegliere la tecnologia produttiva per loro più conveniente, nulla cambierà fin quando un’altra tecnologia (non necessariamente più “ecologica”) non garantirà loro maggiori profitti.
A dargli ragione del resto c’è direttamente il nuovo presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, che definisce sbrigativamente “una follia” lo stop ai motori endotermici, e predica che «Non possiamo perdere filiere importanti, oltre all’auto anche la ceramica, il vetro, il settore navale per fare alcuni esempi».
«Le transizioni vanno realizzate con le giuste tempistiche, l’obiettivo di azzerare le emissioni al 2050 è molto ambizioso, non è solo una nostra osservazione, ma l’ha detto anche il Governatore della Banca d’Italia. Dobbiamo proteggere il know how del nostro paese».
In pratica si propone di passare da una politica industriale che prova a mettere al centro obiettivi universali provati scientificamente (un freno al cambiamento climatico e all’inquinamento ambientale) ad una orientata soltanto dagli interessi delle imprese a perseguire il massimo profitto.
Inutile persino obiettare, a questi trogloditi del protezionismo retrogrado, che altri paesi – Cina in testa – stanno da anni lavorando con successo al rinnovamento tecnologico della produzione industriale, sviluppando oltretutto prodotti che costituiscono ormai i nuovi standard (non solo le auto elettriche, ma l’intero ventaglio delle energie alternative).
Si tratta di investire, magari con l’appoggio finanziario e le indicazioni obbligatorie del “pubblico”. Ma su questa musica gli imprenditori europei (non solo italiani) si dimostrano di una sordità allucinante. Meglio continuare a fare quello che sanno già fare, magari taroccando i test (come aveva fatto Volkswagen con i suoi motori diesel), piuttosto che rischiare di perdere qualche milione.
E dire che perfino loro riconoscono che il problema «non è più il costo del lavoro [destra e centrosinistra collaborano da 40 anni nello “spezzare le reni” ai lavoratori, ndr] né l’incertezza politica o regolatoria, ma i costi dell’energia».
Nel settore auto il problema, sia tecnologico che occupazionale, riguarda in Europa soprattutto tre paesi: Germania, Francia e Italia. Dunque i tre “pesi massimi” industriali della UE. Il che rende più semplice l’obiettivo di rivedere drasticamente tempi e modi della – a questo punto – presunta “transizione ecologica”.
Facile prevedere che la Commissione von der Leyen 2 rovescerà molto velocemente gli obiettivi fissati dalla von der Leyen 1, con tanti saluti alla moderazione delle emissioni di CO2.
I reazionari di ultradestra, negazionisti espliciti del cambiamento climatico, hanno addirittura facile gioco perché – come nella citazione di Urso all’inizio dell’articolo – una transizione tecnologica fatta con i piedi, come è stata pensata fin qui (imposizioni di legge, senza o quasi investimenti pubblici, scaricando sul “cliente finale” tutti i costi), incide negativamente sia sull’occupazione che sui consumi.
In soldoni: se si viene obbligati a cambiare l’auto mentre i salari sono fermi o addirittura calano (l’Italia batte ogni record, in materia), senza che venga prevista una sostanziosa politica di incentivi e di infrastrutture, avremo una popolazione che diventa ostile alle politiche “green”.
Se poi, come avviene per le auto costruite in Europa, l’alternativa a “zero emissioni” è carissima e non garantisce neanche il normale utilizzo che ormai si fa dell’automobile (l’autonomia di 2-300 km, con tempi di ricarica lunghi, è un handicap grave rispetto all’endotermico), il gioco dei retrogradi industriali diventa facilissimo.
Dimostrando, una volta di più, che la “centralità delle imprese” è mortifera.
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