Germania, automobile, Volkswagen. Una trimurti inamovibile nell’immaginario europeo postbellico, che stava a simboleggiare affidabilità meccanica, serietà commerciale, sicurezza del posto di lavoro, buoni salari, welfare esteso, compartecipazione dei lavoratori (in realtà del sindacato...) alla gestione dell’azienda.
Qualcosa era giù scricchiolato negli anni scorsi, quando il “dieselgate” aveva incrinato il mito della serietà tedesca. Quell’aver taroccato i test sulle emissioni dei motori appariva un sotterfugio da “mediterranei”, tale da compromettere la credibilità del marchio.
Ma ora in discussione è tutto il “modello tedesco”, da anni indicato come “vincente” perché orientato alle esportazioni più che al mercato interno, con i salari congelati da venti anni (“grazie” al socialdemocratico Schroeder e alle sue “leggi Hartz” che hanno introdotti i “lavoretti” sottopagati all’italiana) e le filiere produttive europee subordinate in buona parte (nord Italia ed est europeo) all’industria di Berlino.
I conti della Volkswagen vanno male, proprio come tutti quelli delle case automobilistiche occidentali. E quindi, per la prima volta nella sua storia, chiuderà alcuni stabilimenti tedeschi, licenziando almeno 15.000 lavoratori. Non solo: il piano di “austerità” prevede anche un taglio degli stipendi, partendo da una serie di benefit fin qui concessi ai dirigenti.
Il contratto attualmente in vigore non consente una mossa del genere, quindi verrà rescisso e scadrà a dicembre, mettendo fine sia agli accordi salariali che a quelli sulla sicurezza del lavoro. Proprio come fece Sergio Marchionne nel 2011, aprendo l’era del “modello Pomigliano” e del disconoscimento delle sigle sindacali che non lo accettavano.
A partire da quella data si apriranno sei mesi di tempo per la ricerca di un nuovo accordo, e se non verrà trovato l’azienda sarà “libera” di cominciare a licenziare i dipendenti.
Questo riguarda l’“accordo quadro”, quello valido per tutti gli stabilimenti del gruppo in Germania (coinvolti anche i marchi Audi e Porsche), mentre l’azienda sta già cercando di rinegoziare diversi accordi salariali interni che riguardano gli operai e lavoratori “temporanei”, ma anche i quadri dirigenti intermedi.
«Dobbiamo mettere Volkswagen in condizione di ridurre i costi in Germania a un livello competitivo per poter investire in nuove tecnologie e nuovi prodotti con le nostre forze», ha dichiarato Gunnar Kilian, membro del Consiglio di Amministrazione del Gruppo responsabile delle risorse umane e direttore del lavoro.
Naturalmente il sindacato IGMetall ha immediatamente annunciato una serie di proteste, e vedremo se la portata sarà sufficiente a modificare in tutto o in parte il “piano” della Volkswagen. Ma dal consiglio di amministrazione hanno fatto già trapelare ai media che “non c’è un piano B”. Va “recuperata la competitività” e quindi almeno tre stabilimenti (cinque, secondo alcune fonti) dovranno esser chiusi dentro i confini tedeschi.
L’azienda è notoriamente una multinazionale potentissima, con impianti produttivi in tutto il mondo e il 40% del fatturato proveniente dalla Cina (ma la politica conflittuale Usa contro Pechino sta riducendo le aspettative per i prossimi anni). Fin qui aveva affrontato ogni periodo di crisi chiudendo o licenziando esclusivamente all’estero. È la prima volta in quasi 90 anni che la multinazionale programma tagli “in patria”.
Per questo parliamo di fine del “modello tedesco”, che negli ultimi venti anni – per reggere il confronto mondiale conducendo una politica “mercantilista” (bassi salari ed export oriented) – aveva prosciugato prima di tutto i salari e le condizioni generali di vita dei paesi UE più dipendenti da Berlino (Italia, Grecia, l’est) per ridurre al massimo il costo dei componenti prodotti dai “contoterzisti”, anche mantenendo salari interni decisamente migliori.
Ora quel margine non è più sufficiente e bisogna tagliare anche la carne viva della forza lavoro interna.
Lo scontro sindacale e politico si annuncia rilevante e denso di cortocircuiti.
Teoricamente «i sindacati possono scioperare solo sul salario non sulla chiusura degli impianti o sui licenziamenti se non sono protetti da contratti», ma una volta disdetto il contratto tutto torna oggetto di scontro. Non c’è più limite.
Nel consiglio di sorveglianza di Volkswagen ci sono numerosi rappresentanti dei lavoratori (una originalità solo tedesca, che ora complica anche i processi decisionali interni). Inoltre il Land della Bassa Sassonia possiede una quota del 20% in consiglio ed è attualmente a guida socialdemocratica.
Questo dovrebbe significare una qualche opposizione del Land al “piano di austerità” che è stato presentato, anche per non allargare il margine di consenso popolare ai nazisti dell’Alternative fur Deutschland (Afd), che potrebbero invece sostenere i licenziamenti ma solo su base etnico-nazionale (molti dipendenti sono di origine turca, italiana, ecc.).
Un ruolo politicamente importante l’avranno anche il nuovo movimento di Sahra Wagenknecht e ciò che resta della Linke, se non vuole precipitare definitivamente nell’irrilevanza.
Da segnalare, al momento, il silenzio di tomba sia del governo “semaforo” (socialdemocratici, verdi e “gialli” liberali) sia dei democristiani della Cdu.
Da qualsiasi parte la si prenda, questa storia segnerà la società tedesca e i rapporti di classe almeno quanto le due guerre in corso, affrontate fin qui con un tasso nauseante di ipocrisia e vigliaccheria (le forze politiche principali hanno fatto scena muta davanti all’indagine della magistratura che ha individuato nei servizi segreti ucraino-statunitensi gli autori del sabotaggio del gasdotto North Stream, tecnicamente una “dichiarazione di guerra” alla Germania).
Non ci sarà da annoiarsi, pare...
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