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08/05/2025

India vs. Pakistan - La posta in gioco

Intorno alle 2 della mattina del 7 maggio 2025 (ora locale, le 22:30 del giorno prima in Italia) l’India ha lanciato un’offensiva missilistica di nove testate contro il Pakistan e contro la parte del Kashmir sotto il controllo di Islamabad (Azad Kashmir e Gilgit-Baltistan), colpendo obiettivi definiti dal governo indiano come “infrastrutture terroristiche” collegate al massacro di Pahalgam dello scorso 22 aprile, in cui hanno perso la vita ventisei turisti, la maggior parte dei quali hindu.

L’operazione indiana della scorsa notte, chiamata “Sindoor”, ha preso di mira località come Kotli, Muzaffarabad e Bahawalpur, con esplosioni segnalate in diverse città, tra cui una moschea colpita a Bahawalpur che ha causato la morte di una bambina di tre anni. In risposta, Islamabad ha affermato di aver colpito le posizioni dell’esercito indiano lungo la Linea di Controllo e abbattuto diversi aerei da guerra, definendo l’offensiva indiana “un atto di guerra” a tutti gli effetti.

La notizia certamente non stupisce, anzi è la più naturale conseguenza del clima di odio politico alimentato dai due governi nelle ultime settimane finalizzato alla creazione di una situazione di tensione che esacerbasse le contraddizioni esistenti da decenni nella regione kashmira, creando le condizioni perfette e garantendo una giustificazione politica all’escalation del conflitto (accolta con favore da tutto l’arco parlamentare indiano, con dichiarazioni di supporto esplicito non solo da parte del principale partito di opposizione – il Congresso – il cui presidente Mallikarjun Kharge ha invocato l’unità nazionale e espresso apprezzamento per l’operato delle forze armate al confine, ma anche del Polituburo del CPI-M e di altri partiti d’opposizione minori).

Ma facciamo un passo indietro alle radici e alle motivazioni (anche internazionali) di questa nuova fase del decennale conflitto indo-pakistano. Per tracciare le coordinate generali dei recenti sviluppi è necessario risalire almeno al 2019, quando a seguito di un attentato suicida rivendicato dal gruppo militante islamico Jaish-e-Mohammed (JeM) – che ha base in Pakistan – contro un convoglio militare indiano in Kashmir, l’India condusse il primo attacco aereo in territorio pakistano dal 1971, più esattamente nella città di Balakot, sollevando paure concrete nei confronti di una possibile escalation nucleare.

L’evento creò la situazione politica perfetta per Modi, che sfruttò la crisi per rafforzare la sua immagine di leader hindu forte e alimentare la retorica nazionalistica anti-musulmana, vincendo le elezioni generali di maggio 2019.

Uno dei primi atti del suo nuovo mandato fu, non a caso, proprio la revoca dell’Articolo 370 della Costituzione indiana, che garantiva autonomia speciale al Jammu e Kashmir, dividendo lo Stato in due territori (Jammu-Kashmir e Ladakh, quest’ultimo tra l’altro al centro di una storica contesa tra Cina e India) sotto controllo diretto di Nuova Delhi.

Questa storica decisione, celebrata dai nazionalisti hindu come un passo verso l’integrazione nazionale e condannata dall’altra parte dal premier pakistano Imran Khan come atto “illegale”, segnò senza dubbio un punto di svolta fondamentale nell’evoluzione della “questione kashmira” e il punto più basso delle relazioni tra i due Paesi toccato negli ultimi decenni (i contatti diplomatici formali vennero interrotti, così come gli scambi commerciali, e un blackout di mesi fu imposto in Kashmir parallelamente all’arresto di tutti i principali leader politici locali), alimentando il risentimento nella regione, radicalizzando le posizioni di entrambi i Paesi e dimostrando che anche gruppi armati non statali (come il JeM) possono innescare escalation militari dirette tra due potenze nucleari.

La situazione migliorò parzialmente solo due anni dopo, con la firma di un impegno bilaterale da parte dei due Paesi per il rispetto degli accordi di cessate il fuoco lungo la Linea di Controllo nel febbraio 2021 supportato dalla Cina – con interessi economici nella regione e storico alleato del Pakistan (in particolare attraverso il progetto CPEC, corridoio economico da 60 miliardi di dollari tra Cina e Pakistan, parte della Belt and Road Initiative cinese) – e mirato ad alleviare la crisi politica in corso in Pakistan in quegli anni e le accuse della comunità internazionale all’India per la gestione della “questione kashmira”.

Una delle principali conseguenze del cessate il fuoco fu la ripresa dei contatti formali sul Trattato delle acque dell’Indo, stipulato nel 1960 e tornato al centro dei notiziari dopo l’attacco a Pahalgam dello scorso 22 aprile.

Il Trattato regola la condivisione delle acque dei fiumi dell’Indo tra India e Pakistan, destinando a quest’ultimo l’uso dei cosiddetti fiumi occidentali (Indo, Chenab, Jhelum) e concedendo all’India la possibilità di costruirvi infrastrutture idroelettriche fintanto che esse non riducano il flusso idrico verso il Pakistan.

Il ricatto idrico da anni denunciato da Islamabad è stato, non a caso, la prima arma usata dal governo indiano per rispondere all’attacco di Pahalgam due settimane fa e mostrare ai sostenitori del nazionalismo hindu promossa da BJP e RSS l’attuazione di una “linea dura” anti-Pakistana (d’altronde si sa che da sempre il fascismo è usato come strumento del capitale per reprimere il dissenso e mobilitare le masse attraverso nazionalismo, razzismo e altri miti identitari, distogliendo l’attenzione dalle contraddizioni di classe).

La revoca da parte dell’India del Trattato delle Acque dell’Indo, definita dal Pakistan “un vero e proprio atto di guerra” (soprattutto alla luce del fatto che l’agricoltura pakistana è già fortemente provata da eventi estremi di siccità o inondazioni causate dai cambiamenti climatici, che hanno notevolmente colpito il raccolto degli ultimi tre anni), ha innescato rapidamente la reazione di Islamabad con la cancellazione unilaterale dell’accordo di pace di Shimla (1972), pilastro delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi dopo la fine della seconda guerra Indo-pakistana che portò, tra le altre cose, alla creazione del Bangladesh nel 1971.

La rimozione del quadro giuridico della Linea di Controllo presente nell’accordo di Shimla segna oggi un punto di svolta preoccupante, aumentando notevolmente il rischio di una guerra aperta tra i due Paesi con scontri diretti e rivendicazioni territoriali esplicite. C’è poi un ultimo fattore, forse il più importante, da tenere in considerazione nell’analisi della situazione attuale: il ruolo dell’imperialismo statunitense nella regione e la competizione capitalistica mondiale tra Cina e USA.

L’India è oggi un pilastro fondamentale della strategia USA nell’Indo-Pacifico per contrastare il potere economico cinese, come mostra chiaramente la sua partecipazione al QUAD (Quadrilateral Security Dialogue), un forum strategico informale composto da USA, India, Giappone e Australia atto a limitare l’unipolarismo cinese, bloccando il progetto infrastrutturale cinese chiamato “Belt and Road Initiative” (BRI), contrastando le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e al confine con l’India con esercitazioni militari congiunte e collaborando su tecnologie avanzate (5G, semiconduttori) per ridurre la dipendenza dalla Cina.

In questo contesto non stupisce, quindi, che gli USA siano il maggior esportatore di armi verso l’India (con accordi per 20 miliardi di dollari nel 2023), che mira così a porsi come potenza regionale indiscutibile e avanguardia dell’imperialismo statunitense in Asia.

A tal proposito, un’escalation militare in Kashmir sarebbe un’occasione d’oro per il settore bellico statunitense, legittimando al contempo la reclamazione statunitense di diritti sulle risorse naturali kashmire in un futuro scenario postbellico.

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