Nel dibattito pubblico italiano si torna a parlare di impatto dei dazi statunitensi sulla nostra economia, ora che si avvicina il fatidico 9 luglio, giorno nel quale scadrà la proroga concessa da Washington ai paesi UE per trovare un accordo commerciale. Le ipotesi su tariffe superiori al 10% attuale sembrano improbabili (anche se su auto e componenti sono già al 25%, su acciaio e alluminio al 50%), ma questo non significa tranquillità.
Centromarca e un’associazione imprenditoriale che riunisce 193 società che possiedono in totale 2.600 marchi, attivi in settori del largo consumo (alimentare, bevande, cura della casa e della persona). Insieme, fatturano ogni anno 67 miliardi di euro, impiegando nelle loro attività in maniera diretta 100 mila addetti, senza considerare l’indotto.
In uno studio effettuato col supporto tecnico di Nomisma, proprio con lo scopo di capire le difficoltà che emergeranno dai dazi per questo tipo di beni, Centromarca ha calcolato che, anche solo con tariffe al 10%, l’impatto sull’export italiano sarà di 489 milioni di euro. Non un importo facilmente gestibile, come invece continua a dire il governo Meloni, tentando di non inimicasi ulteriormente Donald Trump.
Infatti, nel 2024 il giro d’affari dell’export di prodotti grocery – quelli di largo consumo, appunto – verso gli States ha toccato i 9,9 miliardi di euro, con una crescita del 161% dal 2014 e arrivando a rappresentare l’11% delle esportazioni complessive del settore. In pratica, dazi al 10% significheranno un danno pari al 5% dell’export per tali comparti.
C’è poi un altro problema: nel primo semestre di quest’anno l’euro si è nettamente apprezzato sul dollaro, raggiungendo i livelli più alti dal 2022. In questo modo, i beni italiani sono diventati ancora più costosi quando arrivano sugli scaffali stelle-e-strisce, perché servono più ‘biglietti verdi’ per acquistare un prodotto, anche quando ha mantenuto uguale il suo prezzo in euro.
È quello che ha fatto presente anche il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, che il 2 luglio, alla presentazione di un accordo quadriennale tra la sua associazione e Intesa Sanpaolo, ha indicato la svalutazione del dollaro intorno al 13,5%, affermando che, dunque, il dazio effettivo che le imprese italiane andranno a pagare è del 23,5%.
L’impatto che viene allora calcolato sul nostro export si aggira, nel complesso, intorno ai 20 miliardi di euro, mettendo a rischio ben 118 mila posti di lavoro. Ovviamente, Orsini si è affrettato a dire che “serviranno delle compensazioni per alcuni settori per restare competitivi”, ovvero ulteriori sussidi alle imprese, unico vero esempio di ‘sussidistan’ in questo paese.
È interessante sottolineare che Orsini, oltre a citare il possibile sbocco su nuovi mercati, come risulterebbe dalla stipula dell’accordo tra UE e Mercosur in discussione da anni, ricorda che il saldo sui servizi è positivo per gli Stati Uniti mentre, sul lato industriale, il riarmo europeo si approvvigionerà largamente al di là dell’Atlantico: “faremo l’80% degli acquisti negli USA”. Il presidente di Confindustria ci sta insomma dicendo che il Readiness 2030 servirà anche a riequilibrare la bilancia commerciale con Washington.
Tornando ai beni di largo consumo, che comprendono anche quelli alimentari tipici del Belpaese, Nomisma ha condotto anche un’altra indagine su 2.000 statunitensi, da cui è emerso che per il 50% di loro i dazi avranno un effetto negativo sugli acquisti. Con tariffe al 20% – che è quanto considera in concreto oggi Confindustria, ad esempio – una quota importante di loro (30-40%) ridurrebbe la quantità di prodotti italiani nelle proprie case.
Magari sostituendoli con beni che li ‘imitano’. Perché nel mondo della pubblicità e della propaganda, anche commerciale, quello che è definito “Italian Sounding”, cioè il mercato di prodotti che ricordano quelli originali italiani, è tutt’altro che di poco conto: 69 miliardi di euro nel mondo, all’incirca la stessa cifra dell’export agroalimentare nostrano.
Un’altra dimostrazione di come non basta sciorinare le qualità italiche (che siano formaggi o edifici costruiti dai romani 2 millenni fa) per rispondere alla crisi. Sarebbe ora che si torni a parlare di una seria politica industriale, diretta dal pubblico in funzione degli interessi della totalità della popolazione.
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