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15/07/2025

Non chiamiamola ‘Maturità’

Personalmente, ho un buon ricordo del mio esame di maturità. Allo scritto d’italiano mi capitò per tema una frase di Gramsci sullo studio della storia. Non poteva andarmi meglio.

All’orale, la commissione si dimostrò obiettiva e corretta, ascoltandomi esporre con sicurezza pari solo alla mia ingenuità un programma articolato su tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900 con l’aggiunta, naturale e ovvia, della Resistenza. E come autore di mia scelta il grande scrittore comunista Paolo Volponi.

Ma soprattutto affrontai quell’esame con la serenità dettata dal concludere un quinquennio di studi appagante, importante per la mia crescita culturale e umana. Di quegli anni che, non è secondario, furono costellati di lotte studentesche vissute intensamente, ricordo le intense relazioni formative, mai burocratiche o autoritarie, con gli insegnanti e quelle con i compagni, sempre collaborative e solidali.

C’erano i voti, che però nessuno viveva con angoscia; erano la constatazione di un lavoro fatto bene o meno bene e non erano ossessionanti e sanzionatori.

Se ripenso a tutto questo, non è per annoiare i lettori con qualche mio ricordo giovanile, bensì perché sono stato colpito dalle notizie apparse negli ultimi giorni riguardanti alcuni studenti che hanno rifiutato di sostenere il colloquio orale dell’esame cosiddetto di maturità. Si tratta di pochi casi, perché un tale atteggiamento è consentito solo a coloro che hanno conseguito valutazioni tanto alte delle prove scritte da essere comunque certi del diploma.

Tuttavia temo che siano sintomo di un malessere diffuso e probabilmente condiviso da un gran numero di studenti che – purtroppo per loro – non si possono permettere un tale lusso perché sarebbero respinti. Un malessere che a mio avviso si condensa nella parola percorso che, come ho scritto, fu per me ricco e gratificante e per gli studenti d’oggi appare invece anonimo, poco significativo, ansiogeno e forse anche inutile per la loro crescita.

In particolare, mi hanno colpito le parole di una giovane che ha dichiarato di aver voluto fare un discorso invece del previsto esame perché avvertiva il bisogno di sfogarsi e far conoscere alla commissione quale persona realmente sia. Ci si “sfoga” quando si è vittime di una forte frustrazione e chiaramente ciò che ha vissuto quella studentessa è stata la spersonalizzazione, la mancanza d’attenzione al suo esistere come persona e non solo come numero in una scheda di valutazione.

A questo ci hanno portato Valditara, Bianchi e i loro predecessori degli ultimi vent’anni almeno, con l’autonomia scolastica, le valutazioni “oggettive”, i test INVALSI, la didattica per competenze, il “portfolio” con i suoi “capolavori”, i PCTO e tutto il catalogo tecnocratico annesso.

Chiaro che in questa lunga e poco gloriosa storia Valditara ha un ruolo speciale, avendo voluto aggiungere la parola “merito” alla dizione del Ministero, a porre l’accento sulla struttura gerarchica competitiva che vuole imporre alla scuola.

La scuola è diventata, per gli studenti, un percorso a ostacoli nella valutazione compulsiva di tutto, un continuo verificare ovviamente in modo “oggettivo” che notoriamente, secondo gli esperti più avveduti, non c’è poiché chi valuta è sempre parte del processo e comunque non può esistere un test egualmente valido per tutti.

Chiediamoci poi cosa si valuta, o meglio si misura, da quando esiste la didattica per competenze, introdotta a forza e in modo surrettizio nella scuola italiana per volere dei circoli industriali europei. Non si valutano più i saperi acquisiti in anni di lavoro, sperimentazione, riflessione, bensì si misurano “le competenze”, cioè quello che di tali saperi “serve” ed è utile in vista del lavoro.

Appiattire i saperi su quello che “serve”, magari tralasciando di approfondire le letterature italiane e straniere, le arti e le scienze – quelle vere, non ridotte a formulette “utili” – non aiuta certo a realizzare il proprio bisogno di formarsi come persona e cittadino.

Comunque e sempre, nella scuola d’oggi, è il risultato che conta, non importa raggiunto attraverso quale percorso, anche se il più negativo e frustrante. Inoltre, la retorica posta sulle “eccellenze” e sui “talenti” introduce una mentalità arrivista e competitiva.

La scuola è andata desertificandosi dal punto culturale e umano, è stata aziendalizzata e al contempo burocratizzata in una combinazione inusitata e micidiale. Gli insegnanti passano mesi a compilare scartoffie di piani pedagogici dove lo studente reale, in carne e ossa, non c’è. È la simulazione di una pedagogia “scientifica”, altro grande totem del moderno Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Tuttavia, la quantità di scartoffie prodotta, di test-quiz “somministrati”, offre l’illusione di scientificità e magari, di attuare una pedagogia “inclusiva” in cui tutti siano egualmente accolti nelle braccia dell’istituzione, anche se tutti sanno di partecipare a un rito senza senso.

Qualcuno potrebbe obiettare che i rifiuti dell’esame di maturità sono pochi e forse sono anche una protesta individualista. Ho già scritto che non tutti hanno risultati così brillanti da poterselo permettere. Ma c’è altro.

Dove gli studenti, oggi, possono liberamente socializzare il loro disagio e confrontarsi, se qualunque atto di critica all’istituzione, fosse anche solo la partecipazione a un collettivo è osteggiata e spesso punita? Come possono gli studenti imparare la partecipazione democratica se nelle scuole si ostacola continuamente il diritto d’assemblea, di espressione e di riunione?

L’istituzione oggi nega agli studenti la messa in comune delle loro esperienze, delle idee e dei desideri perché teme di essere messa in crisi. Un’istituzione che per bocca del ministro Valditara ha risposto al disagio degli studenti alla maturità con l’unico linguaggio che sa usare: la repressione. Infatti, ha dichiarato che chi non rispetta le “regole” dal prossimo anno sarà bocciato senza appello.

Ho anche letto qualche commento di pedagogisti che sostengono che, in definitiva, poiché viviamo in una società competitiva e selettiva è bene che gli studenti si abituino a viverci anche attraverso prove d’esame dure e frustanti che li educhino al futuro. Si tratta di una teoria connivente con il potere che mistifica il ruolo di formazione ideologica che ha la scuola.

La scuola non deve educare a sopportare la violenza istituzionale e la stupidità, né insegnare la competitività. La scuola deve offrire cultura e strumenti critici, non abituare a marciare con un fucile in spalla perché nel mondo ci sono tante guerre e quindi è bene prepararsi.

Ho taciuto, sinora, sul ruolo giocato dagli/dalle insegnanti in questa situazione. Mi chiedo se gli insegnanti, nel corso degli anni, siano diventati così poco capaci di relazione con gli studenti. Non credo ci sia stata una mutazione genetica-relazionale. Piuttosto, credo che gli insegnanti, nella loro maggioranza, abbiano accettato supinamente la trasformazione del loro ruolo, subendo passivamente la burocratizzazione del loro lavoro, le centinaia di pagine di schede da compilare, la routine dei test INVALSI “oggettivi”, la didattica per competenze e tutto quanto è stato proposto dal Ministero.

Si tratta di una crisi culturale, politica e sindacale degli insegnanti che li ha allontanati progressivamente dai loro studenti, che ha spento la relazione educativa, che li ha ingabbiati in un ruolo burocratico e, alla fine, repressivo, che ha poco a che vedere con quello di educatori. Spero che il corpo docente italiano si riscatterà da questa situazione, anche se ciò diventa di giorno in giorno più difficile per le modalità stesse con cui sono formati i giovani docenti.

Quanto all’esame di maturità, per favore smettiamola di chiamarlo così, forse i più maturi sono coloro che lo contestano. Usiamo la dizione burocratica, più adatta ai tempi: esame di stato.

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