Monte dei Paschi di Siena, Alcoa, Ilva, San Raffaele, evocano o fanno
aleggiare l'opzione delle nazionalizzazioni. Ma il problema è il
presupposto... E' su questo – oltre che sulle ricadute concrete – che
occorre marcare le distanze e le priorità.
Il ministro dell'Economia Vittorio Grilli, nel corso
dell'audizione alle commissioni Finanze di Camera e Senato sulla vicenda
del Monte dei Paschi di Siena ha affermato: «L'intervento dello Stato, in questo caso, non si configura come intervento di salvataggio di una banca insolvente». Una linea confermata anche dal Comitato sulla stabilità che in mattinata ha parlato di «situazione patrimoniale complessiva solida».
Grilli, durante una seduta parlamentare tesissima, ha rimandato al
mittente tutte le accuse di scarsa vigilanza sugli impicci del Mps che
aleggiano in queste ore. Ma tra le varie considerazioni è aleggiato che
la nazionalizzazione è una strada possibile, come del resto ha
confermato anche l'attuale presidente di Mps, Alessandro Profumo per il
quale «potenzialmente può accadere. E sottolineo potenzialmente
perché abbiamo fatto un piano industriale che dovrebbe consentirci di
restituire il finanziamento». «Questa è una banca - ha detto Profumo - che
ha comunque una sua solidità patrimoniale, che riceve un supporto
pubblico e che ha trentamila persone che lavorano in modo intenso».
In pratica funziona così: lo Stato presta tre miliardi di euro alla
banca Mps – tramite i Monti-bond – ad un tasso tra il 5 e il 9%. Se la
banca non sarà in grado di restituire i soldi nei tempi previsti dovrà
cedere l'equivalente in proprie azioni al Ministero del Tesoro, il quale
vedrà quindi crescere il proprio peso azionario nella banca (si calcola
che possa arrivare al 68%).
Nulla di tutto questo è stato
invece previsto finora per le crisi industriali. Il 1 dicembre scorso il
ministro Clini, relativamente alla nazionalizzazione dell'Ilva, non
l'aveva voluta chiamare con il suo nome e cognome davanti ai giornalisti
alla fine del lungo consiglio dei ministri, ma potrebbe essere
esattamente questa la conseguenza dell'applicazione degli articoli 42 e
43 della Costituzione citati per ben due volte dal ministro nel corso
dei suoi interventi. «Se l'azienda non adempie» alle prescrizioni previste dal decreto legge sull'Ilva varato dal Consiglio dei Ministri" - ha detto Clini- «si
potrà arrivare all'adozione di provvedimenti di amministrazione
straordinari e atti sostitutivi in base agli articoli 42 e 43 della
Costituzione, in considerazione dell'interesse strategico nazionale
dell'impianto».
Due vicende diverse ma emblematiche del
fatto che la ri-nazionalizzazione di banche e industrie strategiche,
volendo, avrebbe tutti gli strumenti legali e costituzionali per essere
messa in atto. «A fini di utilità generale», si legge infatti nell'art. 43 della Costituzione, «la
legge può riservare originariamente o trasferire, mediante
espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a
comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di
imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente
interesse generale». Anche il terzo comma dell'art.42 recita: «La
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo
indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale». Volendo
dunque si potrebbe fare. Però... C'è un però infatti nel doppio standard
utilizzato dal governo nelle ipotesi di salvataggio di una grande banca
nazionale o di una grande industria nazionale, ed è il presupposto.
Nel caso di una banca il presupposto è che la grande banca va salvata
comunque per evitare che la sua crisi abbia un “effetto sistemico”,
magari finanziandola con un prestito pubblico. La banca cercherà di
ripianare i buchi, licenzierà migliaia di dipendenti per abbassare come
di consueto il costo del lavoro e avrà tutto il tempo per restituire il
prestito ricevuto restando nelle mani degli azionisti privati.
Se non vi riuscirà, il Ministero del Tesoro, che nel frattempo ha
accresciuto il suo peso nelle quote della banca, la affiderà ad un
commissario che “risanerà” i conti e poi cercherà di rivendere la banca
ad uno o più soggetti privati.
Nel caso di una crisi industriale
– vedi l'Alcoa – fin dall'inizio si è invece
lasciato tutto nelle mani del mercato e dell'individuazione di un
possibile acquirente privato. In assenza di questo la fabbrica ha
chiuso, la produzione è cessata e viene cannibalizzata dalle
multinazionali straniere che si prendono la sua quota di mercato mentre i
lavoratori vengono gettati in mezzo alla strada. L'alluminio che serve
al sistema industriale verrà dunque importato dall'estero.
Nel
caso dell'Ilva – a differenza dell'Alcoa – si è affacciata invece
l'ipotesi della ri-nazionalizzazione come estrema ratio solo di fronte
alla fuga dei capitali della proprietà (i Riva) e agli alti costi della
bonifica di un grande impianto che si è dimostrato nocivo per la
popolazione. In questo caso – e tardivamente – ci si accorge che anche
uno stabilimento industriale delle dimensioni dell'Ilva può avere un
effetto sistemico sull'economia reale.
Infine potremmo segnalare
una terza vicenda che non riguarda una grande banca o una grande
industria ma un servizio strategico come un grande ospedale. E' il caso
del San Raffaele di Milano. In questo caso si tratta di una struttura in
mano a privati che hanno fatto più impicci del Monte dei Paschi di
Siena, creando buchi in bilancio fino a portare al collasso una
struttura sanitaria “di eccellenza”, privata, ma con funzioni pubbliche.
Dallo Stato non viene alcuna sollecitazione o soluzione.
L'atteggiamento è più simile a quello dell'Alcoa. Un ospedale, insomma,
può chiudere tranquillamente, la cosa non ha alcun effetto sistemico
preoccupante per il capitale finanziario e la salute dei cittadini e la
sorte dei lavoratori non viene ritenuta affatto una priorità.
Esiste dunque una scala di priorità nell'agenda dei governi delle
banche, come quelli che abbiamo in Italia e nell'Unione Europea, e vede
appunto la salvaguardia delle banche in cima a questa lista. Tutto il
resto – fabbriche, servizi strategici, lavoro, salute – può essere
lasciato perire. Solo in casi del tutto eccezionali – come l'Ilva – si
può prendere in considerazione l'idea di un intervento pubblico, un
intervento però “a tempo”, quello necessario a ristrutturare, ridurre i
costi (quello del lavoro innanzitutto) e riconsegnarla ai privati.
Impugnare la battaglia per le nazionalizzazioni significa scardinare
completamente questa logica e riaffermare la priorità dell'interesse
collettivo rispetto a quello privato, una cifra questa del tutto assente
dall'agenda del prossimo governo e dell'Unione Europea. Il presupposto,
in questo caso, non può che essere quello di rovesciare il tavolo e
l'ordine delle priorità.
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