Quattro dei 14 soldati israeliani che si sono suicidati nel 2012 erano immigrati.
È questo il dato più importante che è emerso domenica in una
discussione presso la Commissione della Knesset per l'Immigrazione,
Assorbimento e Diaspora. Il capo del Dipartimento di Salute Mentale
dell'esercito israeliano, Eyal Fruchter, ha provato a minimizzare la
gravità dei numeri e ha parlato «del più basso tasso di suicidio negli
ultimi quarant'anni» lodando il programma che combatte i suicidi
iniziato nel 2006 dall'Esercito di Tel Aviv.
Non sono mancate le polemiche. Di fronte alle critiche dei
parlamentari che accusavano l'IDF [l'esercito israeliano, ndr] di non
aver pubblicato questi dati, Fruchter si è difeso affermando che ciò è
servito a «prevenire un contagio e una imitazione» che avrebbe
sicuramente aggravato la situazione. Sulla questione è intervenuta anche
la dottoressa Shirley Avrami, direttrice del Centro di Informazione e
Ricerca, la quale ha suggerito a Fruchter di rendere note «le
informazioni responsabilmente cosicché non venga glorificato l'atto
suicida, ma che però dica ai soldati in difficoltà che non sono soli e
che possono chiedere aiuto».
Ma le polemiche non riguardano solo le modalità e i tempi di
pubblicazione dei dati ma soprattutto cosa si è fatto per impedire che
un così alto numero di immigrati ebrei ('olim) potesse togliersi la
vita. Ne è convinto il Presidente della Commissione Immigrazione,
Assorbimento e Diaspora, Yoel Razbozov, secondo il quale l'esercito
avrebbe potuto e dovuto fare di più per prevenire queste tragedie. «Le
attività che combattono il fenomeno dei suicidi» - ha dichiarato -
«devono includere istruttori dell'Etiopia e dell'ex Unione Sovietica che
capiscono i problemi che le differenti comunità possono avere [una
volta immigrate in Israele, ndr] e possono pertanto aiutare i giovani
soldati qualora questi ne abbiano bisogno».
Secondo i dati diffusi dal Centro di Informazione e Ricerca della Knesset lo scorso Luglio, 123
militari israeliani hanno posto fino alla loro vita tra il 2007 e il
2012. L'82% svolgeva il servizio obbligatorio e il 74% era di età
compresa tra i 18 e i 21 anni. A dominare questa triste classifica ci
sono coloro che sono nati all'estero (il 37%). Oltre la metà di questi
proveniva da paesi appartenenti all'ex Unione Sovietica mentre il 22%
dall'Etiopia. Il Ministero della Difesa non ha comunicato i numeri relativi ai tentativi di suicidio.
Qual è il prezzo dell'eterna "minaccia"?
Da questi dati emergono due elementi interessanti. Il primo è che il
suicidio è la prima causa di morte per i militari di Tel Aviv. Di
fronte ai 14 suicidi, infatti, 8 sono i soldati che hanno perso la vita
in incidenti stradali, 5 quelli morti per malattia, 3 durante le
esercitazioni, 2 per annegamento, mentre solo 5 sono quelli uccisi in
combattimento. Il secondo aspetto da sottolineare è che la maggior parte di coloro che si sono uccisi non era in unità combattenti.
Quindi il malessere che ha spinto i giovani soldati a porre fine alla
loro vita ha radici più profonde e che non può trovare una semplice e
immediata giustificazione (con tornaconto elettorale) solo nei traumi
causati «dalle violenze degli arabi dei Territori». Questi dati (solo
apparentemente asettici) riportano in realtà a riflettere sulla natura
stessa dello stato d'Israele.
Sin dalla sua nascita il sionismo ha posto alla base del suo pensiero e
della sua prassi politica il tema dell'ebreo minacciato, escluso,
ghettizzato e discriminato nella società in cui vive. Elementi
sicuramente reali alla fine dell'Ottocento in Europa e in Russia dove
pogrom e discriminazioni antisemite erano all'ordine del giorno. E
laddove la lotta dell'ebreo per l'integrazione nella società di
appartenenza appariva di difficile realizzazione, fu ben presto evidente
ai pensatori sionisti (e poi successivamente ai dirigenti "socialisti" e
della destra revisionista) come il tema dell'antisemitismo e della
"minaccia" costante che gravava sugli ebrei poteva essere sfruttata
politicamente.
Da qui l'esigenza di ritornare all''Eretz Yisrael biblica (la
Palestina) territorio «vergine», «disabitato» in cui poter fondare uno
stato dove tutti gli ebrei del mondo sarebbero stati al sicuro. A
maggior ragione dopo i terribili anni del fascismo e del nazismo, delle
leggi razziali e dello sterminio dei campi di concentramento. Con il
concerto delle potenze coloniali (Londra si era mossa già molto prima
del secondo conflitto mondiale) questo "ritorno" si fece concreto. Lo
stato veniva fondato nel 1948 ma la "minaccia di distruzione" restava
nonostante, come ha scritto la recente storiografia israeliana, fosse
più immaginaria che reale. Il terribile presagio di «una nuova imminente
Shoa» è stato il filo conduttore dei sessantacinque anni d'Israele e
continuerà ad esserlo.
Il tema "sicurezza", infatti, è riproposto con costanza nel dibattito
pubblico ed è l'elemento principale che assicura il successo alle
elezioni. Ma la continua riproposizione della "minaccia esterna"
(insieme all'alleanza con Washington) è ciò che permette a Tel Aviv di
essere al di sopra della legge, di non rispettare le risoluzioni
dell'ONU e di umiliare il diritto internazionale a suo piacimento. Il
ragionamento è semplice: in uno stato di perenne emergenza (reale o meno
che sia) Tel Aviv è legittimata a «proteggersi con tutti i mezzi
possibili». Inoltre la "minaccia" svolge un altro ruolo essenziale:
compatta le file di un tessuto sociale quanto mai variegato e
gerarchizzato persino tra gli stessi ebrei.
E' in questo contesto di costruzione/rielaborazione del mito
israeliano della sicurezza che devono essere letti i dati relativi ai
suicidi tra i soldati. Il "nemico", infatti, si conferma nuovamente
molto meno pericoloso di quello che si ripete per fini propagandistici
(solo 5 i morti in combattimento a fronte dei 14 suicidi). A mietere
più vittime tra i «figli/eroi» mandati al fronte a combattere il
«terrorismo arabo» negli ultimi tre anni è il "male di vivere" di cui è
responsabile lo stesso stato ebraico e le sue politiche. I dati sui
suicidi sono impressionanti se si tiene in conto dell'importanza che in
Israele riveste l'esercito agli occhi dell'opinione pubblica. Cifre
allarmanti se si considera che l'IDF ha predisposto un team di esperti
che assistono i militari (tra i numeri snocciolati domenica vi sono i
circa 3.000 soldati che hanno richiesto l'assistenza di psicologi).
Ma l'altro ieri in Commissione la polemica era solo se era giusto o meno
pubblicare questi dati. Nessuno (neanche la stampa) si è domandato cosa
ha spinto tanti giovani negli ultimi cinque anni a togliersi la vita.
Quanto, ad esempio, stiano incidendo le politiche di liberalismo
sfrenato degli ultimi decenni che hanno portato ad un aumento
impressionante (e incontrollabile) del costo della vita ed hanno eroso
il potere d'acquisto della classe media. Ieri il Jerusalem Post
sottolineava come i prezzi delle case abbiano registrato in quest'ultimo
anno un aumento medio superiore al 5% raggiungendo il 17% nella
cittadina del nord di Carmiel.
Né la Commissione si è chiesta come mai il tasso sia così alto proprio
tra i nuovi immigrati ebrei ('olim chadashim). Solo perché, come è stato
suggerito, i centri di sostegno per gli "olim" non sono così
funzionanti come quelli degli israeliani "sabra"? Non è forse più logico
pensare alla mancata integrazione di culture e comunità diverse, a
quanto sia illusorio il "multiculturalismo" di cui Israele si fa vanto?
Ma soprattutto i 14 suicidi pongono con tutta evidenza una
riflessione: quale è il costo umano (e in termini di qualità della vita)
dell'"incombente Shoa" ordita dal "Nemico/i"? Quale è il prezzo
della costruzione del "cattivo musulmano" nei giovanissimi che si
arruolano nell'esercito? Se la storia e il presente hanno mostrato
l'utilità politica della "minaccia", è giunta l'ora di chiedersi quale
prezzo si debba pagare.
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