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14/10/2013

Israele, il suicidio dei soldati

Quattro dei 14 soldati israeliani che si sono suicidati nel 2012 erano immigrati. È questo il dato più importante che è emerso domenica in una discussione presso la Commissione della Knesset per l'Immigrazione, Assorbimento e Diaspora. Il capo del Dipartimento di Salute Mentale dell'esercito israeliano, Eyal Fruchter, ha provato a minimizzare la gravità dei numeri e ha parlato «del più basso tasso di suicidio negli ultimi quarant'anni» lodando il programma che combatte i suicidi iniziato nel 2006 dall'Esercito di Tel Aviv.

Non sono mancate le polemiche. Di fronte alle critiche dei parlamentari che accusavano l'IDF [l'esercito israeliano, ndr] di non aver pubblicato questi dati, Fruchter si è difeso affermando che ciò è servito a «prevenire un contagio e una imitazione» che avrebbe sicuramente aggravato la situazione. Sulla questione è intervenuta anche la dottoressa Shirley Avrami, direttrice del Centro di Informazione e Ricerca, la quale ha suggerito a Fruchter di rendere note «le informazioni responsabilmente cosicché non venga glorificato l'atto suicida, ma che però dica ai soldati in difficoltà che non sono soli e che possono chiedere aiuto».

Ma le polemiche non riguardano solo le modalità e i tempi di pubblicazione dei dati ma soprattutto cosa si è fatto per impedire che un così alto numero di immigrati ebrei ('olim) potesse togliersi la vita. Ne è convinto il Presidente della Commissione Immigrazione, Assorbimento e Diaspora, Yoel Razbozov, secondo il quale l'esercito avrebbe potuto e dovuto fare di più per prevenire queste tragedie. «Le attività che combattono il fenomeno dei suicidi» - ha dichiarato - «devono includere istruttori dell'Etiopia e dell'ex Unione Sovietica che capiscono i problemi che le differenti comunità possono avere [una volta immigrate in Israele, ndr] e possono pertanto aiutare i giovani soldati qualora questi ne abbiano bisogno».

Secondo i dati diffusi dal Centro di Informazione e Ricerca della Knesset lo scorso Luglio, 123 militari israeliani hanno posto fino alla loro vita tra il 2007 e il 2012. L'82% svolgeva il servizio obbligatorio e il 74% era di età compresa tra i 18 e i 21 anni. A dominare questa triste classifica ci sono coloro che sono nati all'estero (il 37%). Oltre la metà di questi proveniva da paesi appartenenti all'ex Unione Sovietica mentre il 22% dall'Etiopia. Il Ministero della Difesa non ha comunicato i numeri relativi ai tentativi di suicidio.

Qual è il prezzo dell'eterna "minaccia"?

Da questi dati emergono due elementi interessanti. Il primo è che il suicidio è la prima causa di morte per i militari di Tel Aviv. Di fronte ai 14 suicidi, infatti, 8 sono i soldati che hanno perso la vita in incidenti stradali, 5 quelli morti per malattia, 3 durante le esercitazioni, 2 per annegamento, mentre solo 5 sono quelli uccisi in combattimento. Il secondo aspetto da sottolineare è che la maggior parte di coloro che si sono uccisi non era in unità combattenti.

Quindi il malessere che ha spinto i giovani soldati a porre fine alla loro vita ha radici più profonde e che non può trovare una semplice e immediata giustificazione (con tornaconto elettorale) solo nei traumi causati «dalle violenze degli arabi dei Territori». Questi dati (solo apparentemente asettici) riportano in realtà a riflettere sulla natura stessa dello stato d'Israele.

Sin dalla sua nascita il sionismo ha posto alla base del suo pensiero e della sua prassi politica il tema dell'ebreo minacciato, escluso, ghettizzato e discriminato nella società in cui vive. Elementi sicuramente reali alla fine dell'Ottocento in Europa e in Russia dove pogrom e discriminazioni antisemite erano all'ordine del giorno. E laddove la lotta dell'ebreo per l'integrazione nella società di appartenenza appariva di difficile realizzazione, fu ben presto evidente ai pensatori sionisti (e poi successivamente ai dirigenti "socialisti" e della destra revisionista) come il tema dell'antisemitismo e della "minaccia" costante che gravava sugli ebrei poteva essere sfruttata politicamente.

Da qui l'esigenza di ritornare all''Eretz Yisrael biblica (la Palestina) territorio «vergine», «disabitato» in cui poter fondare uno stato dove tutti gli ebrei del mondo sarebbero stati al sicuro. A maggior ragione dopo i terribili anni del fascismo e del nazismo, delle leggi razziali e dello sterminio dei campi di concentramento. Con il concerto delle potenze coloniali (Londra si era mossa già molto prima del secondo conflitto mondiale) questo "ritorno" si fece concreto. Lo stato veniva fondato nel 1948 ma la "minaccia di distruzione" restava nonostante, come ha scritto la recente storiografia israeliana, fosse più immaginaria che reale. Il terribile presagio di «una nuova imminente Shoa» è stato il filo conduttore dei sessantacinque anni d'Israele e continuerà ad esserlo.

Il tema "sicurezza", infatti, è riproposto con costanza nel dibattito pubblico ed è l'elemento principale che assicura il successo alle elezioni. Ma la continua riproposizione della "minaccia esterna" (insieme all'alleanza con Washington) è ciò che permette a Tel Aviv di essere al di sopra della legge, di non rispettare le risoluzioni dell'ONU e di umiliare il diritto internazionale a suo piacimento. Il ragionamento è semplice: in uno stato di perenne emergenza (reale o meno che sia) Tel Aviv è legittimata a «proteggersi con tutti i mezzi possibili». Inoltre la "minaccia" svolge un altro ruolo essenziale: compatta le file di un tessuto sociale quanto mai variegato e gerarchizzato persino tra gli stessi ebrei.

E' in questo contesto di costruzione/rielaborazione del mito israeliano della sicurezza che devono essere letti i dati relativi ai suicidi tra i soldati. Il "nemico", infatti, si conferma nuovamente molto meno pericoloso di quello che si ripete per fini propagandistici (solo 5 i morti in combattimento a fronte dei 14 suicidi). A mietere più vittime tra i «figli/eroi» mandati al fronte a combattere il «terrorismo arabo» negli ultimi tre anni è il "male di vivere" di cui è responsabile lo stesso stato ebraico e le sue politiche. I dati sui suicidi sono impressionanti se si tiene in conto dell'importanza che in Israele riveste l'esercito agli occhi dell'opinione pubblica. Cifre allarmanti se si considera che l'IDF ha predisposto un team di esperti che assistono i militari (tra i numeri snocciolati domenica vi sono i circa 3.000 soldati che hanno richiesto l'assistenza di psicologi).

Ma l'altro ieri in Commissione la polemica era solo se era giusto o meno pubblicare questi dati. Nessuno (neanche la stampa) si è domandato cosa ha spinto tanti giovani negli ultimi cinque anni a togliersi la vita. Quanto, ad esempio, stiano incidendo le politiche di liberalismo sfrenato degli ultimi decenni che hanno portato ad un aumento impressionante (e incontrollabile) del costo della vita ed hanno eroso il potere d'acquisto della classe media. Ieri il Jerusalem Post sottolineava come i prezzi delle case abbiano registrato in quest'ultimo anno un aumento medio superiore al 5% raggiungendo il 17% nella cittadina del nord di Carmiel.

Né la Commissione si è chiesta come mai il tasso sia così alto proprio tra i nuovi immigrati ebrei ('olim chadashim). Solo perché, come è stato suggerito, i centri di sostegno per gli "olim" non sono così funzionanti come quelli degli israeliani "sabra"? Non è forse più logico pensare alla mancata integrazione di culture e comunità diverse, a quanto sia illusorio il "multiculturalismo" di cui Israele si fa vanto?

Ma soprattutto i 14 suicidi pongono con tutta evidenza una riflessione: quale è il costo umano (e in termini di qualità della vita) dell'"incombente Shoa" ordita dal "Nemico/i"? Quale è il prezzo della costruzione del "cattivo musulmano" nei giovanissimi che si arruolano nell'esercito? Se la storia e il presente hanno mostrato l'utilità politica della "minaccia", è giunta l'ora di chiedersi quale prezzo si debba pagare.

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