Le parole di mercoledì del presidente Mahmoud Abbas sono la chiara
espressione della distanza sempre più ampia tra la leadership
palestinese e il suo popolo. Da Bruxelles, dove ha incontrato il
presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy, Abbas ha fatto appello alle
compagnie europee e straniere perché mettano fine "ai rapporti
commerciali con le colonie israeliane, attività che violano il diritto
internazionale".
Per poi aggiungere: «Non si tratta di un passo contro Israele, ma contro
gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati». Le parole di Abbas
sono cristalline: la leadership palestinese ha rinunciato alla
Palestina storica e ha accettato definitivamente la soluzione a due
Stati, con la creazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente
in Cisgiordania e Gerusalemme Est, meno del 20% della Palestina storica.
Sebbene da tempo anche ex sostenitori della soluzione a due Stati - uno
israeliano e uno palestinese - abbiano dismesso tale opzione,
ritenendola meno realistica della creazione di uno Stato unico
democratico per i due popoli, Ramallah prosegue spedita, non tenendo
conto della contrarietà del popolo palestinese. I palestinesi lo sanno: accettare
uno Stato su uno spicchio di territorio, significa rinunciare per
sempre al diritto al ritorno dei rifugiati e alla possibilità di tornare
nelle proprie terre e in città simbolo del sogno palestinese, Gerusalemme, Akka, Haifa.
Nella realtà dei fatti, lo stesso Israele si dimostra contrario a tale opzione: la
colonizzazione israeliana in corso (dall'inizio del 2013, l'espansione
coloniale in Cisgiordania è aumentata del 70%) non è certo il miglior
punto di partenza per la creazione di uno Stato palestinese indipendente
e continuo. Lo stesso Netanyahu, premendo sulla necessità di
mantenere un controllo militare sulla Valle del Giordano anche dopo la
nascita di uno Stato di Palestina, non fa che calpestare la credibilità
di una soluzione a due Stati.
Eppure Fatah, fazione di governo in Cisgiordania, cammina ormai sicura
sulla via tracciata dagli Stati Uniti. Dall'altra parte sta Hamas, in
piena crisi dopo la caduta del regime dei Fratelli Musulmani in Egitto,
tanto da tentare un riavvicinamento con la fazione avversa. Durante la
festa musulmana del Sacrificio, la scorsa settimana, i leader di
Fatah e Hamas si sono sentiti al telefono, tornando di nuovo a
dichiarare la necessità di un processo di unità nazionale. Processo
ormai "in piedi" da due anni, ma mai realizzatosi. Gli accordi de Il
Cairo e di Doha del 2011 e 2012, che avrebbero dovuto portare ad un
governo ad interim e nuove elezioni a Gaza e in Cisgiordania, sono
rimasti lettera morta.
Il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, dalla Turchia ha fatto
appello all'Autorità Palestinese: sedersi allo stesso tavolo per
tracciare una strategia comune contro Israele, per la difesa di
Gerusalemme. «Proteggere Gerusalemme e la Moschea di Al Aqsa dalla
giudaizzazione, la demolizione e la divisione dovrebbero essere un
obiettivo nazionale comune - ha detto Meshaal - Vogliamo ricordare a
noi, alle future generazioni e al mondo che Gerusalemme è l'essenza
della causa e del conflitto, un simbolo politico, religioso, nazionale e
storico».
Fatah pochi giorni prima aveva teso la mano all'avversario: uno dei
leader del partito, Jibril Rajoub, aveva affermato l'intenzione di
avviare il dialogo con il movimento islamista, organizzare nuove
elezioni e formare un governo di unità nazionale. Già, le elezioni:
le ultime, tenutesi nel 2006, avevano visto la vittoria di Hamas nei
Territori e la seguente spaccatura in due enclavi, ognuna governata da
una fazione. Fatah in Cisgiordania, Hamas a Gaza. Un nuovo voto
avrebbe dovuto tenersi cinque anni dopo, nel 2011, ma è stato
costantemente rimandato per la mancanza di un accordo tra i due partiti,
il cui solo interesse al momento appare quello di consolidare il loro
potere su uno spicchio di territorio, lasciando in un angolo le reali
necessità e le aspirazioni del popolo palestinese.
La leadership palestinese è ormai impantanata in una crisi cronica,
priva del consenso della popolazione e arroccata su posizioni che
sembrano una mera protezione di interessi politici. Manca una strategia
di lungo periodo e uomini forti in grado di ottenere la fiducia del
popolo palestinese. Insomma, manca l'OLP. Con la creazione
dell'Autorità Palestinese a seguito degli Accordi di Oslo nel 1993,
l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina non appare più in
grado di vestire i panni del rappresentante di tutti i palestinesi, in
Palestina e nel mondo.
Ne abbiamo parlato con Thayer Hastings, ricercatore palestinese dell'associazione BADIL, impegnata nella tutela del diritto al ritorno dei rifugiati e dei diritti di residenza palestinesi.
"Il problema della rappresentanza del popolo palestinese è una questione
urgente che richiama l'attenzione dell'opinione pubblica palestinese.
Nell'era post Oslo, nei dibattiti ritornano sempre la divisione tra
Hamas e Fatah, le elezioni generali e l'Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP). La ricostituzione dell'OLP nel 1968 e
l'apertura alle varie fazioni, unioni e gruppi di guerriglia
palestinesi gli fece guadagnare legittimità popolare. L'OLP, in
teoria, è la 'sola ed unica rappresentanza legittima del popolo
palestinese', riconosciuta a livello internazionale nel 1974; tale ruolo
però viene sempre più soppiantato dall'Autorità Palestinese nelle
questioni pratiche. Per questo, oggi le critiche mosse all'OLP vertono sulla sua non-rappresentanza dell'attuale realtà politica".
"Con l'inizio del processo di pace di Oslo e la nascita dell'Autorità
Palestinese - continua Hastings - è divenuto chiaro che l'ANP non ha una
chiara visione per una strategia di liberazione, oltre a rappresentare a
livello amministrativo solo una parte della popolazione palestinese:
quella residente in Cisgiordania. La situazione è peggiorata con il
riconoscimento da parte dell'Onu dell'ANP come Stato non membro, un
ulteriore passo nel confondere le competenze di rappresentanza tra
l'Autorità Palestinese e l'OLP. Così la gran parte dei palestinesi
nel mondo, i palestinesi della diaspora, si trovano senza una
rappresentanza: in Israele continuano ad essere cittadini di serie B, in
Giordania rischiano di vedersi revocare la cittadinanza, in Libano
vedono i loro diritti fondamentali negati, mentre in Siria vivono nella minaccia di una seconda evacuazione".
Da qui è nata l'idea di ricreare un soggetto che rappresenti realmente
il popolo palestinese: la società civile ha avviato una raccolta firme
per la registrazione degli elettori di un futuro Consiglio Nazionale
Palestinese, con l'attuale bloccato dalla divisione tra Hamas e Fatah. Karma Nablusi, ex dirigente dell'OLP, parlando ad una tavola rotonda
qualche mese fa ha trattato la questione con chiarezza: "L'obiettivo
di organizzare democraticamente le nostre istituzioni è più profondo
della mera creazione di un governo o uno Stato: determinare insieme e
per noi stessi, collettivamente, la nostra strategia di liberazione e
ritorno". Non sono pochi gli esperti e gli osservatori che ritengono che
la realtà pseudo-statale dell'ANP sia il risultato della fallimento
irrimediabile dell'OLP. Uno degli argomenti contro l'OLP è che a partire
dal 1968 ha sempre giustificato le predominanza a tratti illegittima di
Fatah e allo stesso tempo ha marginalizzato altre ideologie".
Proprio la radicata appartenenza politica ad una fazione piuttosto
che un'altra, però, potrebbe essere l'ostacolo ad una riforma profonda
dell'OLP o ad una sua sostituzione con una nuova realtà: "I membri
del Consiglio Nazionale Palestinese sono scelti tra i partiti che
costituiscono l'OLP - conclude Hastings - Sarebbe davvero possibile che
i legami dei membri alle fazioni di appartenenza non vadano ad incidere
sulla loro capacità di restare indipendenti? Cambiare l'aspetto e il
nome dell'organizzazione rappresentativa è sufficiente per rendere gli
individui che la compongono maggiormente democratici? Riflettere sul
ruolo dell'OLP è sicuramente un passo necessario, ma senza dimenticare
il contesto attuale: il movimento di liberazione nazionale è in stallo,
mentre il popolo palestinese continua a subire quotidianamente
vessazioni e soprusi. Mettere mano alla riforma dell'OLP senza una
strategia politica di lungo periodo, rischia solo di rafforzare
un'Autorità Palestinese non democratica, non liberale e non
rappresentativa".
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento