Comitati popolari affiancati alle forze di sicurezza per "proteggere"
gli sciiti dagli attacchi degli estremisti sunniti. E' il nuovo, tragico
passo dell'Iraq - a dieci anni dalla caduta di Saddam e a due dalla
partenza delle truppe Usa - verso un'imminente guerra civile. Un
percorso fatto di attentati quasi quotidiani, di richieste di aiuto
all'ex-occupante americano e di repressioni contro quella parte di
società che ha la sfortuna di stare dalla parte sbagliata dell'Islam:
quella che non governa. Se il premier Nuri al-Maliki autorizzasse gruppi
popolari ad affiancare l'esercito a difesa della popolazione sciita,
sostengono in molti, il bagno di sangue sarebbe bello che fatto.
Qais al-Khazali a capo della temibile milizia sciita Asaib Ahl al-Haq (Banda dei Giusti), l'anno scorso aveva deposto le armi e si era unito
al processo politico iracheno, una mossa accolta con favore da al-Maliki. Qualche
settimana fa, in una conferenza di leader tribali e religiosi, ha detto
che il suo gruppo aveva bisogno di reagire alle "uccisioni e
distruzione": i suoi "comitati" non parteciperanno ai raid, ma
"collaboreranno con le forze di sicurezza nel pattugliamento delle loro
aree e nella creazione di posti di blocco".
All'inizio di quest'anno, Wathiq al-Batat, un religioso sciita che era un alto funzionario delle brigate Hezbollah in Iraq, ha formato quello che lui chiama l'esercito "Mukhtar"
per proteggere gli sciiti. Sostiene di avere più di 1 milione di membri, un numero che non è stato verificato in modo indipendente.
Intervistato dalla tv al-Somariya, ha detto che la sua milizia aveva "buone intenzioni" e non avrebbe attaccato i sunniti come tali, ma solo i gruppi "Takfiri"
(sunniti radicali). Al-Batat ha poi chiesto che, nel pieno rispetto
della legge, alcuni dei suoi seguaci vengano integrati nella Difesa o
nel Ministero degli Interni per lavorare con le forze di sicurezza.
L'urgenza di milizie settarie si è fatta sentire soprattutto negli ultimi mesi, dopo che una serie di attentati ha fatto salire la conta dei morti a 5.500 dal mese di aprile: la maggioranza di questi è sciita, setta maggioritaria del Paese a lungo repressa negli anni in cui Saddam Hussein privilegiava la minoranza sunnita. Ora che il governo è guidato dai primi, vendette e repressioni sono all'ordine del giorno: è
almeno dallo scorso dicembre che i sunniti lamentano discriminazioni e
misure anti-terroristiche troppo repressive nei loro confronti. Lo scorso aprile, nel campo di protesta allestito dai sunniti ad Hawija, non lontano da Kirkuk, le forze di sicurezza irachene uccisero 50 persone e ne ferirono almeno il doppio.
Gli attacchi, condotti spesso da al-Qaida, provocano rappresaglie sugli
abitanti di fede sunnita. Perché, con una media di due alla settimana,
gli attentati colpiscono mercati, bar, stazioni degli autobus, moschee e
luoghi di pellegrinaggio quasi sempre nelle zone sciite di Baghdad e
del Paese. Il premier iracheno ha firmato questa settimana un articolo
sul New York Times in cui avverte che "al-Qaida è impegnata in una
rinnovata e concertata campagna per fomentare la violenza settaria e
creare un abisso tra la nostra gente", chiedendo "maggiori relazioni di
sicurezza" all'antico e odiato occupante statunitense.
Certo, la vicinanza con la Siria non aiuta la ripresa del Paese. Anzi, provoca un import-export della guerra civile che sta spazzando via ogni speranza di pacificazione nella regione.
Oltre al jihadismo che valica i confini sud-occidentali di Baghdad, da
qualche tempo anche gruppi di miliziani sciiti - residuati delle brigate
che combatterono l'occupazione americana e si scontrarono con i sunniti
nel biennio nero 2006-2008 - stanno attraversando la frontiera con la
Siria per andare a "salvare i luoghi santi dello sciismo". Non siamo
certo ai livelli del 2006, quando squadroni della morte appoggiati
dall'Iran trascinavano i corpi mutilati di centinaia di sunniti per le
strade gridando alla rappresaglia per le autobombe che mietevano
altrettante vittime tra la popolazione sciita. Ma in un polverone come
quello iracheno, il passo è breve.
Zuhair al-Araji, parlamentare sunnita, ha sottolineato che gli insorti
stanno prendendo di mira non solo gli sciiti, ma i sunniti moderati, e
che armare i gruppi sciiti sarebbe controproducente. "Siamo preoccupati
- ha detto - che alcune milizie possano infiltrarsi in questi comitati e
che vedremo gravi conseguenze". Per Jassim Mohammed al-Fartousi, il
cui figlio di 24 anni è tra le 80 persone uccise in un attacco suicida il
21 settembre, i comitati sono necessari: "Il governo e le forze di
sicurezza sono incompetenti. I comitati popolari ci faranno sentire al
sicuro". Ali al-Moussawi, portavoce di al-Maliki, è però poco incline
all'idea: sostiene che le forze di sicurezza "non hanno bisogno di
comitati armati. Hanno bisogno di aiuto con intelligenza". Shwan
Mohammed Taha, un parlamentare curdo della commissione di sicurezza,
avverte però che una tale mossa potrebbe rivelarsi il punto di non
ritorno: "L'atmosfera è già tesa: l'ok del governo porterà alla
militarizzazione della società e quindi ad una guerra civile".
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento