di Vincenzo Maddaloni
Praga. Chissà cosa direbbe Libuše, la principessa
del popolo Ceco che secondo la leggenda fondò Praga nell'VIII secolo,
più esattamente nel 730. Di certo la Fondatrice che s’era augurata «una
città nel mondo illustre e la cui gloria raggiungerà le stelle», sarebbe
perplessa, per non dire allibita dalla vista della sua capitale
trasformata - con le bancarelle e i massaggi Thai - in una sorta di
Disneyland dentro alla quale ogni giorno si accalcano decine di migliaia
di turisti, che salgono verso il mitico castello che già nel X secolo
era simile a quello attuale. Una dissacrazione quotidiana come accade a
Venezia e nelle altre città d’arte.
Di certo Libuše [nella
scultura a lato assieme a Premysl] che avrebbe avuto il dono della
profezia e “vedeva” nel futuro, non si sarebbe stupita di quanto sta
accadendo oggi nel suo Paese. Poiché ella sposò Premysl, un contadino,
anticipando un connubio democratico - davvero inaudito per una sovrana -
con il quale regnò sul popolo cèco. Sicché oggi questo brano di
leggenda riaffiora e non a caso, poiché il 25-26 ottobre nella
Repubblica Ceca si svolgeranno le elezioni, provocate da una crisi di
governo irreparabile che aveva colpito prima quello liberamente eletto e
poi quello “tecnico” che gli era per forze di cose succeduto.
Il Lidové Noviny,
(Quotidiano del Popolo, una delle testate più autorevoli e antiche
della Boemia), già avverte che «il panorama politico ceco si sposterà a
sinistra e si tingerà di rosso». Gli analisti sostengono che i
socialdemocratici e i comunisti potrebbero raccogliere tre quinti dei
seggi, abbastanza da riscrivere la Costituzione. E spiegano che, in un
momento in cui la situazione economica è tra le peggiori dell’Ue
(soltanto i paesi del Sud e l’Ungheria sono più in difficoltà), in molti
vogliono «un governo forte a guidare il Paese».
Si tenga a mente
che col ritorno alla democrazia (1989) si sono riaffacciati anche sul
panorama politico ceco i partiti di diverso orientamento. Una curiosità è
che, analogamente a quanto accadde in Polonia con Solidarnòsc, le due
maggiori forze politiche ceche, il CSSD, Partito Socialdemocratico
(centrosinistra) e l’ODS, Partito Democratico Civico, (centrodestra)
sono due dirette emanazioni del Forum Civico di Havel, a testimonianza
del fatto di come l’opposizione al comunismo raccogliesse consensi
trasversali nel Paese.
Altre forze politiche di minore entità
sono il partito TOP ’09 (Tradizione, Responsabilità, Prosperità)
marcatamente di destra, il partito centrista e democristiano KDU-CSL e
il Partito Verde, che si attesta sempre su buone percentuali (6-7 per
cento). Un discorso a parte merita il KSCM, il Partito comunista di
Boemia e Moravia. Erede diretto del Partito comunista di Cecoslovacchia,
il KSCM ha sempre goduto di un consenso non di poco conto, registrando,
alle ultime elezioni regionali dell’ottobre 2012, il 23 per cento dei
voti e 14 seggi su 45.
Stando così le cose si capisce perché le
elezioni del 25-26 ottobre diventano importanti. I sondaggi prevedono
come primo partito il CSSD dei socialdemocratici, senza che però esso
consegua la maggioranza assoluta, eventualità che potrebbe spingere i
socialdemocratici a formare un governo di coalizione proprio con il
KSCM. E’ una prospettiva che inquieta personaggi come il politologo Igor
Lukeš, luminare dell’Università di Boston, il quale ricordando che i
comunisti imposti da Mosca conservavano il potere a forza di esecuzioni,
si stupisce che i cechi continuino a votarli. «È qualcosa di unico che
non ha precedenti in tutto l’Est Europa”, sbotta il professore.
Gli dà sostegno il De Standaard,
il quale si dice convinto che i cechi soffrano di “un’amnesia
generale”. Sicché «non possiamo trovare una dimostrazione migliore della
memoria corta dell’umanità», scrive il quotidiano fiammingo, ricordando
che i comunisti cechi che non hanno mai preso le distanze dai decenni
di comunismo stalinista, «si sono affermati un po’ ovunque come forza
politica di peso».
Naturalmente il De Standaard non
accenna al fatto che la Repubblica Ceca da più di due anni attraversa la
più lunga recessione economica della sua storia. Tanto meno informa che
nella regione dell’est del Paese c’è il rischio di una “catastrofe
sociale”, come rileva il quotidiano Mf Dnes (Fronte della
Gioventù - Oggi) Secondo il giornale - tra i più influenti e diffusi -
la regione già colpita dalla disoccupazione a lungo termine (9,68 per
cento contro una media nazionale del 7,5 per cento) è minacciata da una
nuova ondata di licenziamenti, con la previsione che 71mila persone
potrebbero perdere il lavoro.
Malauguratamente
quanto sta accadendo a Praga non fa storia a sé, poiché la crisi
economica ha nuociuto gravemente all’intera democrazia liberale europea.
Il modello che univa l’economia di mercato a una vasta gamma di servizi
sociali, e che ha trasformato l'Europa in un punto di arrivo per
milioni di persone provenienti dall'Africa, dall'Asia e dall'America del
sud non regge più.
Il continente è in fallimento, a parte alcune eccezioni come la
Germania e i Paesi scandinavi che hanno applicato in tempo le manovre
necessarie per evitare il disastro. Dove questo non è accaduto, sono
subentrati i non-liberali i quali sono riusciti ad occupare gli spazi
abbandonati dai liberali.
Come se gli elettori, indignati dalla
incapacità della politica di dare risposte adeguate, scandalizzati dalla
corruzione che dilaga nei centri del potere, ne avessero abbastanza di
questi ventitré anni di sperimentazione liberale e aspirassero al
ritorno di uno stato forte, in grado di farsi carico dei loro problemi.
Sicché quanto sta accadendo nella Repubblica Ceca è la prova più
evidente che la democrazia liberale nell’Europa centrale è diventata la
più grande vittima della crisi.
Eppure, i tempi con i quali i
cechi si scrollarono di dosso i comunisti furono fulminei rispetto a
tutto l’Est. La Rivoluzione di Velluto (così definita perché il Partito
comunista di Cecoslovacchia rinunciò pacificamente al potere), nel giro
di poco più di un mese (metà novembre - fine di dicembre 1989), varò il
Forum Civico di Vaclav Havel (ex scrittore ed attore di teatro) con il
quale egli organizzò una serie di manifestazioni di protesta contro il
regime che riscossero grandissimo successo tra la popolazione, tanto da
costringere i vertici comunisti a dimettersi. Poche settimane dopo, il
29 dicembre, Havel venne nominato Presidente della Repubblica e
Alexander Dubcek, l’eroe della “Primavera di Praga” del 1968, fu
chiamato a guidare la Camera.
Da quel giorno, nel paese che
ancora per pochi anni si chiamerà Cecoslovacchia, prese avvio il
pluralismo, il multipartitismo e la libertà di espressione, assieme alle
prime tensioni etniche, fino ad allora opportunamente coartate dal
regime comunista. Nel 1993, infatti, la Cecoslovacchia si divise
pacificamente in due repubbliche, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Ricordo
che l’ultima volta che incontrai lo scrittore e poeta Bohumil Hrabal -
qualche mese dopo la divisione del Paese - gli chiesi tra l’altro se
sarebbe ritornato a Kladno, la città che dopo la separazione era rimasta
ceca, dove egli aveva ambientato “Allodole sul filo” il suo romanzo che
racconta di un deposito di rottami metallici trasformato negli anni
Cinquanta in un campo di rieducazione per borghesi che avevano cercato
di espatriare clandestinamente, costretti a un lavoro manuale.
Una satira arguta sull'assurdo quotidiano e la stupidità burocratica
di un regime stalinista che egli iniziò a scrivere durante la "primavera
di Praga" del '68, e la terminò nell’anno seguente, quando il Paese era
tornato in mano ai comunisti. Proibito dalla censura, disseppellito
vent'anni dopo, il romanzo era stato tradotto in un film che vinse
l’Orso d’oro del 1990. Era il mio uno spunto per sentire il suo
pensiero.
Nell’osteria U Zlatého tygra,
Dalla Tigre d’oro, (dove riuscì persino a trascinarvi il presidente
Havel e il presidente Clinton, in quello stesso posto hanno appeso a
ricordo la sua foto), egli mi rispose con un’alzata di spalle, un
sorriso e la levata del bicchiere di birra com’era solito quando non
aveva voglia di replicare se la domanda non gli piaceva.
Questo accadeva sovente se la domanda riguardava l’attualità. Accadde
anche nell’Agosto dell’81, un anno dopo la rivolta di
Solidarnosc in Polonia e la comparsa del nuovo papa - Karol Wojtyla -
che con le sue esternazioni stupiva il mondo. Anche allora Hrabal non si
lasciò prendere dall’entusiasmo, dall’emozione. Come la principessa
Libuše sussurrò un augurio: «Speriamo che duri». Infatti accadde, ma
dopo che la Polonia attraversò il colpo di Stato del generale Jaruzelski
e altri sei anni di governo comunista.
Dopotutto Hrabal era per
molti versi personaggio che apparteneva al surreale come i suoi
racconti, i suoi romanzi che traboccano di descrizioni anti-eroiche, di
vicende quotidiane minime sempre al limite del paradosso. E’ il suo un
acuto e perciò prezioso bric-à-brac - un flusso ininterrotto di
invenzioni e di "chiacchiere” - da Marché aux Puces, che gli
diede subito notorietà e lo rese scrittore amato, perché imprevedibile,
surreale appunto. Un surrealismo inteso - si badi bene - come ribellione
alle convenzioni culturali e sociali, concepito come una trasformazione
totale della vita. Se si tiene a mente l’epoca con il mondo diviso in
due blocchi, meglio si capisce la peculiarità coraggiosa del messaggio
di Hrabal.
Sicché mi è tornato in mente Bohumil Hrabal voltando in via Husova, la strada di U Zlatého tygra,
la sua osteria perché più di ogni altro egli riassume l’imprevedibilità
- che sovente aderisce al paradosso - dei Cechi, i quali s’inventarono
la leggenda della principessa “democratica” Libuše, e poi scelsero il
velluto per abbinarlo alla parola “Rivoluzione”, che divenne un
“marchio” strepitoso perché mai era accaduta prima una così contrastante
unione. Come adesso rischia di esserlo pure questo riavvicinamento al
comunismo, vissuto non come semplice amarcord, ma come nostalgia per un
sistema statalista che, sebbene nel male più che nel bene, provvedeva a
tutto. Non a caso si sente spesso dire nei dibattiti che gli elettori
si sono fatti “rubare” lo Stato.
Naturalmente, è difficile dire
se ci stiamo avviando verso la fine della democrazia liberale e, con
essa, anche dell’economia di mercato in questi paesi ex comunisti
dell’Europa centrale, che sono stati finora i più devoti sostenitori del
capitalismo. In ogni caso, i traumi delle economie dell’Europa centrale
hanno un peso sui responsabili politici di cui non ce n’è memoria, come
degli umori disincantati delle loro genti. Che leggono, studiano,
s’informano. Un’abitudine che hanno acquisito fin da ragazzi, a casa e a
scuola.
Infatti, basta salire sulla scala mobile della metro
della stazione di Nàmesti Republiky in centro, oppure di Opatov alla
periferia di Praga per vedere scorrere sulle pareti la pubblicità del
burghy che si alterna con quella delle copertine dei libri. Che non sono
i gialli alla Camilleri, bensì per la gran parte saggi che riguardano
l’economia. Significa che i libri sono richiesti, che vanno molto,
perché il prodotto ha margini ristretti di guadagno e la pubblicità
costa, anche a Praga. Di certo, sono scorci di parete inimmaginabili di
là delle Alpi. Cioè da noi, e anche questo per molti versi fa la
differenza.
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