“Il wasn’t a natural disaster. The Bubble was man-made” (Elisabeth Warren)
1. Lo scorso gennaio, quando ero in California, negli Stati Uniti, mi piaceva leggere il Wall Street Journal.
Scritto in un disagevole americano standard, sembrava esporre ovvie
verità con un linguaggio crudo, franco, colloquiale. Il suo argomentare
diretto contrastava molto con il tono professorale del New York Times, una specie di versione colta del Corriere della Sera,
adatto solo ai laureati in una qualche disciplina umanistica. Leggevo
questi due giornali perché altri decenti non ce n’erano. Il terzo
quotidiano nazionale, USA Today, aveva molte foto, molto sport e
mi sembrava più adatto a proteggere i senzatetto dal freddo che alla
lettura. Altri importanti giornali nazionali non ne vedevo. Esistevano
altre testate. Mi ricordo ad esempio il Los Angeles Times. In
ogni caso questi fogli, sinceramente, mi sembravano più quotidiani
locali che vere fonti informative. Mi trovavo in una situazione molto
strana. Una situazione interessante e per me decisamente nuova. Negli
Stati Uniti esisteva (esiste) una specie di collo di bottiglia
informativo di dimensioni nazionali. La situazione era così esplicita
che, un paese con molti quotidiani come l’Italia, poteva apparire come
una specie di covo di intellettuali d’alto livello. Questa ripetuta
esperienza di lettura mattutina mi aveva intrigato. A me è sempre
piaciuto leggere e trovavo conforto nella vista di altri lettori, in
genere barboni, senzatetto e vecchiette rimbambite. I miei simili, i
lettori di libri e giornali, sono considerati degli strambi, gente molto
particolare. L’americano medio guarda la televisione.
2. All’epoca il Wall Street Journal
scriveva articoli di fuoco sulla terribile situazione della Spagna. Il
paese era travolto dalla crisi. Le responsabilità erano da imputare a
governi corrotti e ai tecnocrati incapaci della BCE; era inteso che ben
poco poteva essere fatto per salvare questo sfortunato paese. L’Italia
berlusconiana seguiva a ruota governata da una classe politica anche
peggiore di quella spagnola. Gli Stati Uniti in paragone erano una
specie di piccolo Eden; una nazione che, grazie ad un’azione sagace e
lungimirante, stava lentamente ma inesorabilmente uscendo dalla crisi
mondiale che aveva colpito tutti, soprattutto i non americani. Tutti
questi articoli avevano una comune tesi di fondo. La crisi degli altri
era devastante e, in comparazione, gli Stati Uniti stavano meglio sia in
termini relativi (velocità di crescita), sia in termini assoluti
(tenore di vita). In quei giorni mi trovavo in una San Francisco
invernale baciata dal sole; una bellissima città in cui poco lontano
dalla zona degli alberghi, dormivano per strada migliaia di persone
(tutti cittadini americani da parecchie generazioni). La città era
invasa da turisti spagnoli che gioivano del bel tempo invernale e che
riempivano i ristoranti di clienti attenti alla buona cucina. Il paese
in crisi non sembrava proprio la Spagna.
3. La bibliografia a disposizione espone, con molti particolari, le drammatiche tesi del Wall Street Journal.
Mi ha impressionato ritrovare quelle tesi soprattutto nei libri scritti
con caratteri molto grandi, quelli che non affaticano la lettura di
presbiti e astigmatici. Il testo più chiaro è sicuramente quello di John
Authers1, un giornalista del Financial Times.
Il dato fondamentale della sua analisi riguarda il retroterra
istituzionale della BCE che è definita come una banca centrale senza
Stato. Questa collocazione istituzionale ha impedito alla BCE di agire
come la FED e di immettere sufficiente liquidità nel sistema monetario
internazionale. In modo non banale, Authers sostiene che inizialmente la
BCE ha sottostimato le dimensioni e la gestibilità della crisi e poi,
non potendo stampare moneta, ha finito per imporre una repressione
finanziaria e un’austerità fiscale inaccettabile. La mancanza di un
referente politico ha portato dei tecnocrati senz’anima a gestire la
politica monetaria in modo assolutamente irresponsabile. Questa azione
ottusa e sciagurata ha condotto l’intero continente verso una recessione
feroce e non necessaria. Per evitare queste drammatiche contorsioni la
soluzione più ovvia avrebbe potuto essere quella di imitare le brillanti
politiche monetarie statunitensi, le stesse che con il salvataggio
dell’AIG hanno salvato le inefficienti banche europee. Tuttavia, per
ragioni di statuto e di oggettiva stupidità, era risultato impossibile
fare agire in modo razionale i tecnocrati della BCE; per questa ragione
l’unica soluzione possibile sarebbe quella di semplificare L’Unione
monetaria. Occorrerebbe quindi fare uscire subito la Grecia, l’Irlanda e
il Portogallo ed affrontare a viso aperto l’imminente collasso del
sistema bancario europeo. Il loro ritiro dall’Unione monetaria
permetterebbe la sopravvivenza dell’Euro come moneta regionale.
Posizioni simili si rintracciano anche nei saggi raccolti da Sara Eisen2,
una fascinosa giornalista finanziaria di Bloomberg TV. Il testo è una
raccolta di una serie di saggi redatti in genere da alti papaveri del
sistema bancario statunitense e destinati a un pubblico interessato a
questioni finanziarie. La tesi ricorrente è la straordinaria forza
dell’economia statunitense. Gli Stati Uniti sono l’economia nazionale
più grande al mondo, il mercato finanziario più grande al mondo e una
delle zone con la crescita della produttività più alta al mondo. Il
dollaro è la moneta più sicura al mondo e quindi l’unico problema che si
pone è come fanno gli altri a sopravvivere senza usarlo. L’Euro ha un
suo posto come valuta regionale anche se la presenza di forti tensioni
interne rende molto difficile fare delle previsioni positive a breve
termine. Visto che la Grecia è praticamente già uscita dall’Euro, non
bisogna più porsi il problema della collocazione del paese ellenico. Al
contrario, occorre chiedersi cosa potrà succedere all’intera Europa
quando si porrà il problema della probabile uscita di Italia e Spagna
dall’Euro.
4. I libri sulla crisi economica
scritti con caratteri più piccoli hanno inspiegabilmente tesi
leggermente diverse. L’idea che mi sono fatto è che, per le case
editrici, chi è affetto da presbiopia e fosse costretto a leggere libri
di economia (cioè chi abbia una certa età e sia in posizioni
dirigenziali) non debba essere costretto a leggere dei libri veri che,
quindi, sono scritti in caratteri molto piccoli. Il libro di teoria
economica più interessante riguardo alla recente crisi è quello di
Gorton3, un professore di Management and Finance alla
Yale School of Management, che aveva lavorato come consulente per l’AEG
Financial Products (credo prima che fallisse, altrimenti non avrebbe
avuto il tempo di scrivere questo libro). Questo consulente finanziario
si pone la questione del perché fino alla fine la crisi non fosse stata
avvertita dagli economisti che la dovevano prevedere (fra cui direi si
collochi lo stesso Gorton). L’analisi è molto interessante. La
descrizione delle dinamiche sociali e finanziarie che si formavano nel
caso una corsa agli sportelli (bank run) è un vero capolavoro di
storia economica. La cosa che più colpisce è la regolarità dell’evento
che appare generalmente all’inizio della fase discendente di un ciclo
economico. La folle corsa agli sportelli appare razionale quando si
considera che in caso di svalutazione degli investimenti mobiliari, un
modo veloce per minimizzare i danni è quello di conservare quanta più
liquidità possibile. Con acume, Gorton osserva che non è possibile
formulare matematicamente il mutamento delle aspettative e che il bank run
è nella sostanza un veloce mutamento di opinione, razionale come tanti
altri, sull’andamento futuro degli investimenti. La chiave del problema
per Gorton non è la crisi finanziaria in quanto tale (inevitabile alla
lunga) ma la possibilità di salvare in tempo le banche in crisi, prima
che creino danni alle altre banche sane. In un momento di crisi è
indistinguibile chi è solvente da chi non lo è così come è impossibile
sapere chi abbia i collaterali migliori. Per questo il mercato
finanziario funziona meglio quando le informazioni sullo stato delle
singole banche non viene reso pubblico. L’ignoranza è una garanzia per
la stabilità dell’intero sistema che, senza l’ingombro di
un’informazione adeguata da dare al cliente può massimizzare i profitti a
vantaggio degli azionisti.
Per questo quando la crisi è
conclamata, la strategia migliore è salvare subito l’intero sistema
bancario, mettendo in salvo con soldi dei contribuenti anche i
banchieri. La soluzione, in sostanza, non stava nell’impedire ai
banchieri di Wall Street di truffare il mondo intero ma quella di
salvare a tutti i costi la Lehman Brothers.
5. L’unica vera riflessione giornalistica sulla crisi americana è di un inglese, Edward Luce4, un giornalista del Financial Times
che ha scritto un libro che ho comprato in Inghilterra e che non credo
di avere notato nelle librerie degli Stati Uniti. Si tratta di un lungo reportage
sulla necessità di iniziare a pensare al declino statunitense.
Primeggiano le descrizioni di catastrofi, come quella che ha colpito
Detroit, e di mancate eccellenze, come quelle di un settore industriale
importante ma privo di appoggi politici. Luce pone l’accento più volte
sul fatto che, negli Stati Uniti, l’ignoranza del mondo esterno è elevata mentre
la lettura è scarsa. L’istruzione obbligatoria del paese è estremamente
scadente, gli alunni sanno fare i test a risposta multipla ma non si
sanno esprimere. Nell’industria è la stessa storia, i dottorati in
fisica non sono frequentati da americani mentre i brevetti sono in gran
parte fatti da stranieri. Luce rileva anche le difficoltà dei governi
nell’implementare politiche pubbliche appropriate, sia per oggettivi
limiti culturali, sia per una serie di disastrosi veti incrociati
statali e federali, che impediscono un’azione di governo coerente. Il
punto non è che tra dieci anni il PIL cinese sarà più alto di quello
americano (ormai è un dato acquisito), ma che dove è possibile fare
qualcosa (come per esempio nell’educazione), non viene fatto nulla. Gli
Stati Uniti sono in una traiettoria discendente visibile nel veloce
declino della classe media. La crisi ha contribuito a polarizzare le
posizioni ideologiche e ha reso più difficili l’elaborazione di risposte
politiche coerenti. Nell’insieme non esiste neppure una vera risposta
alla crisi e forse neppure la volontà di rovesciare la situazione.
6.
Contrariamente a quanto ci si aspetti, negli Stati Uniti è difficile
trovare voci dissonanti all’interno dell’informazione istituzionale. In
un particolare caso l’occultamento della realtà viene addirittura
teorizzato. Gorton fa notare che il modo migliore per fare funzionare un
sistema finanziario è quello di assicurare tutti i depositi dei
depositanti, senza dare alcuna informazione sullo stato di salute delle
singole banche. In questo caso, la sola informazione disponibile per il
pubblico è quella data dai dividendi distribuiti dalle banche5.
In questo modello teorico, il sistema bancario offre le sue migliori
prestazioni quando l’informazione finanziaria viene completamente negata
ai fruitori dei suoi servizi. Mi sembra evidente che, per non creare
asimmetrie informative fra settori analoghi, l’informazione diretta al
grande pubblico debba essere quanto più possibile omogenea cioè, in
questo caso, assolutamente nulla. Pongo l’accento su questo fatto perché
questa situazione è esattamente quella che si ritrova nel mercato
dell’informazione finanziaria statunitense. Esiste una nicchia di
pubblico (per esempio studenti universitari) che, in un qualche modo,
deve avere una formazione leggermente più ampia (devono leggere qualche
libro di testo). Tuttavia l’informazione stampata e televisiva della
divulgazione spiccia e dell’alta divulgazione è completamente saturata
da una vulgata saccente e ottimista, asservita agli interessi dei grandi
gruppi economici. In tutto questo non vi è nulla di rassicurante. Negli
Stati Uniti le classi medie sono state prima ingannate dalle banche e
poi derubate dei propri risparmi. La cosa è talmente riuscita bene che
la crisi del 2008 non ha neppure visto una corsa agli sportelli da parte
dei risparmiatori. Il bank run è avvenuto ma chi ha ritirato i
propri capitali è stato il settore delle attività finanziarie non
regolate. I soldi furono ritirati in tempo da chi, per mestiere, aveva
delle conoscenze sullo stato patrimoniale delle banche. Dal punto di
vista del modello questo significa che la disinformazione sistematica
non è stata sufficientemente ampia. I piccoli risparmiatori scoprirono
che i propri investimenti erano andati in fumo solo dopo il collasso del
sistema finanziario. Il tappo informativo era tale che la crisi non fu
osservata e capita dalla gente comune se non veramente troppo tardi. I
cittadini, la stampa, i politici e gli enti preposti alla regolazione
iniziarono a comprendere la catastrofe solo quando il disastro
finanziario era ormai già avvenuto6.
7.
La bolla economica statunitense è cresciuta a dismisura perché era
stata preceduta da una bolla politica. Dietro una bolla finanziaria che
ha spinto un’intera nazione a indebitarsi c’è molto più di un
ristretto gruppo di banchieri senza cuore. Vi è un’ideologia del libero
mercato di tipo fondamentalista, ci sono potenti interessi economici che
influenzano l’azione politica e ci sono anche delle debolezze
istituzionali che hanno impedito alla politica statunitense di prendere
delle decisioni forti. Il risultato è stato patologico. Mentre venivano
salvate le banche dal fallimento, non fu neppure possibile fare una vera
rinegoziazione dei contratti per proteggere le vittime dei prestiti
predatori erogati dalle banche. Da anni non veniva fatto nulla per
evitare forme raccapriccianti di prestito immobiliare e per bloccare la
crescita dei fondi pensione legati all’andamento azionario (tutte
pensioni finite letteralmente in fumo). Scoppiata la crisi, il dibattito
legislativo su una possibile riforma finanziaria non ha neppure dato
origine a un’abolizione parziale di quella deregolamentazione
finanziaria che aveva prodotto la crisi7.
8.
Vorrei essere il più chiaro possibile. In Italia la gente è poco
indebitata ed è stata terrorizzata al punto di accettare cose
inaccettabili. Negli Stati Uniti vi è molta gente, indebitata fino al
collo, che è stata derubata dei risparmi e poi convinta che tutto stesse
andando per il meglio. A me sembra che, fatti i conti, chi sta correndo
pericoli più grossi sia chi sta pensando di non correre pericoli. Dieci
anni fa, l’informazione a disposizione del pubblico non permetteva di
capire che era in gestazione una crisi sistemica. Oggi l’informazione
istituzionale a disposizione non permette di intravedere che vi sono
scenari anche peggiori di quello che è già successo. Di fatto, chi
millanta la fine della crisi, non dice che è disposto a sacrificare
trecento milioni di americani pur di salvare la propria posizione
egemonica. Sui rischi che gli Stati Uniti corrono è illuminate un
agevole libricino sull’ascesa e la caduta del dollaro di Barry
Eichengreen8, professore di Economics and Political Science,
nell’Università di California a Berkeley. Il libro è scritto con un
linguaggio accurato ma veloce, forse per assicurarne una leggibilità che
fa a pugni con i caratteri minuscoli con cui è stato stampato. L’autore
descrive la storia del dollaro e il modo con cui si è imposto come
moneta internazionale sulla sterlina fra il 1920 e il 1945. Si focalizza
molto sulla storia dell’Euro che vede più come un processo di
convergenza politica che come un esempio di cooperazione economica. Come
altri sottolinea che gli Usa sono la più grande economia nazionale
mondiale e il più grande mercato finanziario. Tuttavia, verso la fine
l’autore mette sul tappeto la possibilità che l’uso del dollaro come
valuta di riserva internazionale possa finire. Elabora un modello di crash
monetario costruito su quello della crisi della sterlina del 1956, al
tempo della crisi di Suez. Per Eichengreen potrebbero entrare in moto
alcuni meccanismi compensatori come un aumento delle tasse, un
incremento delle esportazioni e una forte riduzione delle spese (per
esempio quelle militari) che finirebbero per favorire un lento declino
del dollaro. Tuttavia, in assenza di questi elementi, la cosa più
probabile non è un lento declino ma un crack improvviso e
autoalimentato, che distruggendo il dollaro, finirebbe anche per
distruggere tutti i risparmi mondiali in dollari in brevissimo tempo.
9.
Non sta a me fare previsioni o, peggio, profetizzare il futuro. Sta di
fatto che se gli Stati Uniti avessero il loro debito in una valuta
straniera, oggi si porrebbe già la questione dell’intervento
provvidenziale dell’FMI. Non voglio insistere sulla possibilità
oggettiva di uno scenario argentino. Voglio solo rilevare che quando
un’intera nazione è accecata dal ritornello secondo cui “tutto va bene,
stiamo tornando alla normalità” mentre danza di fianco al baratro, chi è
cosciente del problema deve anche porsi la questione del “a chi giova
tutto questo” [a destra, Paul R. Krugman].
La costellazione di fattori mi ricorda molto alcune pagine di uno fra i migliori manuali di Economia Internazionale9
di tutti tempi. Qui, in alcune pagine assolutamente brillanti, si
dimostrava che i paesi in via di sviluppo indebitati avevano bisogno di
più credito per favorire il processi di sviluppo e che non dovevano
ricomprare i propri debiti a prezzi di mercato (all’epoca molto
scontati) perché i benefici erano inferiori a quelli che avrebbero avuti
mantenendo i debiti. Per gli autori, ripagare il debito in tempo
sarebbe stato solo un grosso favore fatto ai creditori10.
Poco dopo, l’intero subcontinente sarebbe poi collassato nuovamente
sotto il peso dei propri debiti. Sarebbe cosi continuata la crisi
debitoria che fra alterne vicende è durata fino al 2007. Il capitolo in
questione scomparve dal noto manuale di Economia Internazionale
l’edizione successiva, cioè quando ormai aveva svolto il suo compito,
quello di togliere agli stati latinoamericani anche l’idea che fosse
pensabile vivere senza essere indebitati con le grandi banche
internazionali. All’epoca lo scopo era accecare i governi
latinoamericani, mentre oggi l’obbiettivo è accecare gli americani.
10.
La domanda da porsi non è più chi ha gonfiato all’inverosimile la bolla
speculativa o perché la risposta alla crisi sia stata così
insoddisfacente. Il fatto che gli americani abbiano davvero iniziato a
credere a quanto viene loro ripetuto in tutti i modi possibili, apre
nuovi scenari. La vera questione è ormai solo a chi giova avere in
catene una nazione di cittadini indebitati.
Fonte
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