2. All’epoca il Wall Street Journal scriveva articoli di fuoco sulla terribile situazione della Spagna. Il paese era travolto dalla crisi. Le responsabilità erano da imputare a governi corrotti e ai tecnocrati incapaci della BCE; era inteso che ben poco poteva essere fatto per salvare questo sfortunato paese. L’Italia berlusconiana seguiva a ruota governata da una classe politica anche peggiore di quella spagnola. Gli Stati Uniti in paragone erano una specie di piccolo Eden; una nazione che, grazie ad un’azione sagace e lungimirante, stava lentamente ma inesorabilmente uscendo dalla crisi mondiale che aveva colpito tutti, soprattutto i non americani. Tutti questi articoli avevano una comune tesi di fondo. La crisi degli altri era devastante e, in comparazione, gli Stati Uniti stavano meglio sia in termini relativi (velocità di crescita), sia in termini assoluti (tenore di vita). In quei giorni mi trovavo in una San Francisco invernale baciata dal sole; una bellissima città in cui poco lontano dalla zona degli alberghi, dormivano per strada migliaia di persone (tutti cittadini americani da parecchie generazioni). La città era invasa da turisti spagnoli che gioivano del bel tempo invernale e che riempivano i ristoranti di clienti attenti alla buona cucina. Il paese in crisi non sembrava proprio la Spagna.
4. I libri sulla crisi economica scritti con caratteri più piccoli hanno inspiegabilmente tesi leggermente diverse. L’idea che mi sono fatto è che, per le case editrici, chi è affetto da presbiopia e fosse costretto a leggere libri di economia (cioè chi abbia una certa età e sia in posizioni dirigenziali) non debba essere costretto a leggere dei libri veri che, quindi, sono scritti in caratteri molto piccoli. Il libro di teoria economica più interessante riguardo alla recente crisi è quello di Gorton3, un professore di Management and Finance alla Yale School of Management, che aveva lavorato come consulente per l’AEG Financial Products (credo prima che fallisse, altrimenti non avrebbe avuto il tempo di scrivere questo libro). Questo consulente finanziario si pone la questione del perché fino alla fine la crisi non fosse stata avvertita dagli economisti che la dovevano prevedere (fra cui direi si collochi lo stesso Gorton). L’analisi è molto interessante. La descrizione delle dinamiche sociali e finanziarie che si formavano nel caso una corsa agli sportelli (bank run) è un vero capolavoro di storia economica. La cosa che più colpisce è la regolarità dell’evento che appare generalmente all’inizio della fase discendente di un ciclo economico. La folle corsa agli sportelli appare razionale quando si considera che in caso di svalutazione degli investimenti mobiliari, un modo veloce per minimizzare i danni è quello di conservare quanta più liquidità possibile. Con acume, Gorton osserva che non è possibile formulare matematicamente il mutamento delle aspettative e che il bank run è nella sostanza un veloce mutamento di opinione, razionale come tanti altri, sull’andamento futuro degli investimenti. La chiave del problema per Gorton non è la crisi finanziaria in quanto tale (inevitabile alla lunga) ma la possibilità di salvare in tempo le banche in crisi, prima che creino danni alle altre banche sane. In un momento di crisi è indistinguibile chi è solvente da chi non lo è così come è impossibile sapere chi abbia i collaterali migliori. Per questo il mercato finanziario funziona meglio quando le informazioni sullo stato delle singole banche non viene reso pubblico. L’ignoranza è una garanzia per la stabilità dell’intero sistema che, senza l’ingombro di un’informazione adeguata da dare al cliente può massimizzare i profitti a vantaggio degli azionisti.
Per questo quando la crisi è conclamata, la strategia migliore è salvare subito l’intero sistema bancario, mettendo in salvo con soldi dei contribuenti anche i banchieri. La soluzione, in sostanza, non stava nell’impedire ai banchieri di Wall Street di truffare il mondo intero ma quella di salvare a tutti i costi la Lehman Brothers.
5. L’unica vera riflessione giornalistica sulla crisi americana è di un inglese, Edward Luce4, un giornalista del Financial Times che ha scritto un libro che ho comprato in Inghilterra e che non credo di avere notato nelle librerie degli Stati Uniti. Si tratta di un lungo reportage sulla necessità di iniziare a pensare al declino statunitense. Primeggiano le descrizioni di catastrofi, come quella che ha colpito Detroit, e di mancate eccellenze, come quelle di un settore industriale importante ma privo di appoggi politici. Luce pone l’accento più volte sul fatto che, negli Stati Uniti, l’ignoranza del mondo esterno è elevata mentre la lettura è scarsa. L’istruzione obbligatoria del paese è estremamente scadente, gli alunni sanno fare i test a risposta multipla ma non si sanno esprimere. Nell’industria è la stessa storia, i dottorati in fisica non sono frequentati da americani mentre i brevetti sono in gran parte fatti da stranieri. Luce rileva anche le difficoltà dei governi nell’implementare politiche pubbliche appropriate, sia per oggettivi limiti culturali, sia per una serie di disastrosi veti incrociati statali e federali, che impediscono un’azione di governo coerente. Il punto non è che tra dieci anni il PIL cinese sarà più alto di quello americano (ormai è un dato acquisito), ma che dove è possibile fare qualcosa (come per esempio nell’educazione), non viene fatto nulla. Gli Stati Uniti sono in una traiettoria discendente visibile nel veloce declino della classe media. La crisi ha contribuito a polarizzare le posizioni ideologiche e ha reso più difficili l’elaborazione di risposte politiche coerenti. Nell’insieme non esiste neppure una vera risposta alla crisi e forse neppure la volontà di rovesciare la situazione.
6. Contrariamente a quanto ci si aspetti, negli Stati Uniti è difficile trovare voci dissonanti all’interno dell’informazione istituzionale. In un particolare caso l’occultamento della realtà viene addirittura teorizzato. Gorton fa notare che il modo migliore per fare funzionare un sistema finanziario è quello di assicurare tutti i depositi dei depositanti, senza dare alcuna informazione sullo stato di salute delle singole banche. In questo caso, la sola informazione disponibile per il pubblico è quella data dai dividendi distribuiti dalle banche5. In questo modello teorico, il sistema bancario offre le sue migliori prestazioni quando l’informazione finanziaria viene completamente negata ai fruitori dei suoi servizi. Mi sembra evidente che, per non creare asimmetrie informative fra settori analoghi, l’informazione diretta al grande pubblico debba essere quanto più possibile omogenea cioè, in questo caso, assolutamente nulla. Pongo l’accento su questo fatto perché questa situazione è esattamente quella che si ritrova nel mercato dell’informazione finanziaria statunitense. Esiste una nicchia di pubblico (per esempio studenti universitari) che, in un qualche modo, deve avere una formazione leggermente più ampia (devono leggere qualche libro di testo). Tuttavia l’informazione stampata e televisiva della divulgazione spiccia e dell’alta divulgazione è completamente saturata da una vulgata saccente e ottimista, asservita agli interessi dei grandi gruppi economici. In tutto questo non vi è nulla di rassicurante. Negli Stati Uniti le classi medie sono state prima ingannate dalle banche e poi derubate dei propri risparmi. La cosa è talmente riuscita bene che la crisi del 2008 non ha neppure visto una corsa agli sportelli da parte dei risparmiatori. Il bank run è avvenuto ma chi ha ritirato i propri capitali è stato il settore delle attività finanziarie non regolate. I soldi furono ritirati in tempo da chi, per mestiere, aveva delle conoscenze sullo stato patrimoniale delle banche. Dal punto di vista del modello questo significa che la disinformazione sistematica non è stata sufficientemente ampia. I piccoli risparmiatori scoprirono che i propri investimenti erano andati in fumo solo dopo il collasso del sistema finanziario. Il tappo informativo era tale che la crisi non fu osservata e capita dalla gente comune se non veramente troppo tardi. I cittadini, la stampa, i politici e gli enti preposti alla regolazione iniziarono a comprendere la catastrofe solo quando il disastro finanziario era ormai già avvenuto6.
7. La bolla economica statunitense è cresciuta a dismisura perché era stata preceduta da una bolla politica. Dietro una bolla finanziaria che ha spinto un’intera nazione a indebitarsi c’è molto più di un ristretto gruppo di banchieri senza cuore. Vi è un’ideologia del libero mercato di tipo fondamentalista, ci sono potenti interessi economici che influenzano l’azione politica e ci sono anche delle debolezze istituzionali che hanno impedito alla politica statunitense di prendere delle decisioni forti. Il risultato è stato patologico. Mentre venivano salvate le banche dal fallimento, non fu neppure possibile fare una vera rinegoziazione dei contratti per proteggere le vittime dei prestiti predatori erogati dalle banche. Da anni non veniva fatto nulla per evitare forme raccapriccianti di prestito immobiliare e per bloccare la crescita dei fondi pensione legati all’andamento azionario (tutte pensioni finite letteralmente in fumo). Scoppiata la crisi, il dibattito legislativo su una possibile riforma finanziaria non ha neppure dato origine a un’abolizione parziale di quella deregolamentazione finanziaria che aveva prodotto la crisi7.
8. Vorrei essere il più chiaro possibile. In Italia la gente è poco indebitata ed è stata terrorizzata al punto di accettare cose inaccettabili. Negli Stati Uniti vi è molta gente, indebitata fino al collo, che è stata derubata dei risparmi e poi convinta che tutto stesse andando per il meglio. A me sembra che, fatti i conti, chi sta correndo pericoli più grossi sia chi sta pensando di non correre pericoli. Dieci anni fa, l’informazione a disposizione del pubblico non permetteva di capire che era in gestazione una crisi sistemica. Oggi l’informazione istituzionale a disposizione non permette di intravedere che vi sono scenari anche peggiori di quello che è già successo. Di fatto, chi millanta la fine della crisi, non dice che è disposto a sacrificare trecento milioni di americani pur di salvare la propria posizione egemonica. Sui rischi che gli Stati Uniti corrono è illuminate un agevole libricino sull’ascesa e la caduta del dollaro di Barry Eichengreen8, professore di Economics and Political Science, nell’Università di California a Berkeley. Il libro è scritto con un linguaggio accurato ma veloce, forse per assicurarne una leggibilità che fa a pugni con i caratteri minuscoli con cui è stato stampato. L’autore descrive la storia del dollaro e il modo con cui si è imposto come moneta internazionale sulla sterlina fra il 1920 e il 1945. Si focalizza molto sulla storia dell’Euro che vede più come un processo di convergenza politica che come un esempio di cooperazione economica. Come altri sottolinea che gli Usa sono la più grande economia nazionale mondiale e il più grande mercato finanziario. Tuttavia, verso la fine l’autore mette sul tappeto la possibilità che l’uso del dollaro come valuta di riserva internazionale possa finire. Elabora un modello di crash monetario costruito su quello della crisi della sterlina del 1956, al tempo della crisi di Suez. Per Eichengreen potrebbero entrare in moto alcuni meccanismi compensatori come un aumento delle tasse, un incremento delle esportazioni e una forte riduzione delle spese (per esempio quelle militari) che finirebbero per favorire un lento declino del dollaro. Tuttavia, in assenza di questi elementi, la cosa più probabile non è un lento declino ma un crack improvviso e autoalimentato, che distruggendo il dollaro, finirebbe anche per distruggere tutti i risparmi mondiali in dollari in brevissimo tempo.
La costellazione di fattori mi ricorda molto alcune pagine di uno fra i migliori manuali di Economia Internazionale9 di tutti tempi. Qui, in alcune pagine assolutamente brillanti, si dimostrava che i paesi in via di sviluppo indebitati avevano bisogno di più credito per favorire il processi di sviluppo e che non dovevano ricomprare i propri debiti a prezzi di mercato (all’epoca molto scontati) perché i benefici erano inferiori a quelli che avrebbero avuti mantenendo i debiti. Per gli autori, ripagare il debito in tempo sarebbe stato solo un grosso favore fatto ai creditori10. Poco dopo, l’intero subcontinente sarebbe poi collassato nuovamente sotto il peso dei propri debiti. Sarebbe cosi continuata la crisi debitoria che fra alterne vicende è durata fino al 2007. Il capitolo in questione scomparve dal noto manuale di Economia Internazionale l’edizione successiva, cioè quando ormai aveva svolto il suo compito, quello di togliere agli stati latinoamericani anche l’idea che fosse pensabile vivere senza essere indebitati con le grandi banche internazionali. All’epoca lo scopo era accecare i governi latinoamericani, mentre oggi l’obbiettivo è accecare gli americani.
10. La domanda da porsi non è più chi ha gonfiato all’inverosimile la bolla speculativa o perché la risposta alla crisi sia stata così insoddisfacente. Il fatto che gli americani abbiano davvero iniziato a credere a quanto viene loro ripetuto in tutti i modi possibili, apre nuovi scenari. La vera questione è ormai solo a chi giova avere in catene una nazione di cittadini indebitati.
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