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25/10/2013

Droni e predatori, le nuove armi

Quali sono le conseguenze morali dell'uso dei droni? Quale trasformazione della nostra riflessione morale esige il loro utilizzo? È una questione enorme, quella sollevata di recente da Michael Walzer in un articolo apparso sul sito della rivista "Dissent" (Target Killing and Drone Warfare).

Probabilmente fino a quindici anni fa non avremmo neanche lontanamente immaginato che questo tipo di domande fuoriuscisse dalla fantascienza o dalla casistica ipotetica (benché altamente improbabile). Invece i droni sono il nostro presente, sono la nostra quotidianità. Diamo ormai per scontato il fatto che nei nuovi conflitti bellici, in particolare nell'ultima evoluzione della "guerra al terrore" contro le nuove cellule di al Qaeda e i loro "compagni di strada", si utilizzino aerei privi di pilota ma governati a migliaia di chilometri di distanza sullo schermo di un computer.

Il miglior racconto di come un burocrate da droni stipendiato dalla difesa americana svolga il suo lavoro quotidiano - passando otto ore in un abitacolo che ricostruisce l'aereo in volo con cui è direttamente collegato all'altro capo del globo, e sparando con un joystick contro i proprio obiettivi, come se stesse giocando alla playstation - è stato scritto da William Langewiesche. Ha come titolo Predatori (Predator è il nome degli ultimi droni armati, quelli più comuni) ed è contenuto in un piccolo libro pubblicato da Adelphi lo scorso anno: Esecuzioni a distanza (traduzione di Matteo Codignola). Alla fine del suo lungo reportage Langewiesche scrive: "La nostra polizia di frontiera usa già i Reaper (altro tipo di droni, ndr) nel tentativo di individuare i trafficanti di droga al confine con il Messico. Fin qui, senza risultati, ma non importa. I militari invece guardano avanti. Più che un sistema d'arma di oggi, il Predator è, per loro, un'anticipazione del futuro. Come il biplano dei fratelli Wright, o la Ford T. Ci avviciniamo rapidamente a un futuro di guerra robotizzata, in cui saranno le macchine a scegliere di uccidere. Ed è un futuro prossimo. Quando arriverà, dovremo però chiederci che specie siamo diventati. E cosa ci facciamo, sulla Terra."
Durante il primo mandato dell'amministrazione Obama sono stati portati a termine 310 attacchi con droni in Pakistan, fra 54 e 64 in Yemen, e fra 10 e 23 in Somalia - tutti attacchi diretti, insomma, nelle aree calde del terrorismo jihadista. Nel solo Pakistan il numero delle vittime oscilla fra i 2.629 e 3.461, con una stima di civili uccisi che va da 476 a 891. Più 176 bambini.
 

Recupero questi dati impressionanti da un articolo di Mattia Ferraresi apparso su "Il Foglio". Il paradosso dell'amministrazione Obama è evidente: al ritiro delle truppe dal fronte iracheno e afghano ha fatto seguito l'aumento costante dell'utilizzo dei droni. Ritiro e droni, soft power e droni, rifiuto della "vecchia" guerra e droni, sono direttamente proporzionali.

Obama allontana da sé l'immagine e la realtà del conflitto con bombe, sangue e truppe d'occupazione, riporta a casa "i propri ragazzi" evitando l'incancrenirsi della presenza americana nelle aree calde, dà degli Usa una immagine più "debole", non imperiale...ma tutto ciò ha un prezzo, benché la Casa Bianca abbia cercato di separare la lotta al terrorismo dalla guerra convenzionale. In realtà la guerra continua, solo con altri mezzi. Riduce praticamente a zero le perdite statunitensi, annichilisce la stessa percezione del fatto bellico, ma persegue ugualmente i suoi obiettivi. Tra l'altro nelle statistiche dei morti, il numero dei civili potrebbe essere molto più alto, dal momento che - proprio per legittimare come "proporzionale allo scopo" l'uso dei droni - vengono considerati "combattenti" tutti i maschi in età di leva presenti sul terreno delle operazioni. Se un presunto leader terrorista - poniamo - è circondato da un gruppo di uomini tra i 16 e i 70 anni che si trova lì per caso, l'attacco è consentito, e l'omicidio mirato è eseguito.

È giusto tutto questo?, si chiede Michael Walzer. Quali sono i criteri morali che possono legittimare tale azioni, e quali invece possono criticarle? A porsi questa domanda è colui il quale una trentina d'anni fa, subito dopo la guerra del Vietnam, scrisse un libro fondamentale sulle basi morali degli interventi militari: Guerre giuste e ingiuste (edizione italiana, Liguori 1990).

Esistono due piani della discussione, sosteneva Walzer in un testo che a sua volta riprendeva molti temi e molte argomentazioni della dottrina cristiana sull'argomento, di fatto secolarizzandoli. Il primo: in base a quali criteri stabiliamo che una guerra sia giusta o meno? Il secondo: in base a quali criteri stabiliamo se un mezzo adottato in una determinata guerra (un'arma, una strategia, un'azione.) sia giusto o meno? La guerra in Vietnam, ad esempio, era ingiusta sotto entrambi i punti di vista. Ingiusta perché era, a tutti gli effetti, un'aggressione malamente giustificata; e ingiusta perché le forze armate Usa hanno usato, ordinariamente o episodicamente, mezzi assolutamente ingiusti nel corso delle operazioni. Dai bombardamenti al napalm al massacro di My Lai.

Tuttavia, in Guerre giuste e ingiuste, Walzer non assume una posizione da pacifista assoluto. La guerra antifascista - sostiene nel libro - era moralmente giustificata. L'uccisione mirata di Hitler sarebbe stata moralmente giustificata. Non è giustificabile però l'uso di armi di sterminio di massa anche all'interno di una guerra "giusta". Adottandoli, essa diventerebbe subito "ingiusta".

La riflessione di Walzer ovviamente è molto più complessa. Basti qui ricordare che, sulla scia della giustificazione di ogni guerra antitotalitaria, il filosofo americano ritiene legittimi anche alcuni interventi (seppure unilaterali) che violano la sovranità nazionale per porre fine a un genocidio. Ad esempio: l'intervento indiano nell'allora Pakistan orientale (oggi Bangladesh) per fermare la marea di profughi originata dalle violenze dell'esercito, o quello vietnamita in Cambogia per arginare lo sterminio totalitario dei khmer rossi.

E oggi? L'impressione di Walzer è che l'utilizzo dei droni, proprio perché azzera l'esperienza della guerra (e quindi l'indignazione che essa inevitabilmente suscita), azzeri anche lo spazio della critica morale. Anche in una guerra che possiamo ritenere giusta, anche nel più asettico degli omicidi mirati (per quanto, come visto, essi possano essere asettici), la dimensione post-umana dei droni (e la quotidianità di questa dimensione post-umana cui ormai siamo indotti) fa letteralmente saltare il banco della riflessione morale.

"The easiness should make uneasy", scrive Walzer. La facilità dell'uccisione da drone (spingi un pulsante ma non vedrai mai nessuno morire realmente, benché qualcuno realmente - in quel preciso momento - stia morendo) dovrebbe metterci a disagio. Invece questo mezzo incredibilmente potente, ma adottato ormai ordinariamente, genera assuefazione. Il caso dell'amministrazione Obama è eclatante: quella che viene percepita come l'amministrazione Usa più "pacifista" degli ultimi cinquant'anni ha generato - probabilmente non comprendendo fino in fondo le possibili conseguenze delle proprie decisioni - una escalation impressionante nel numero dei civili uccisi da droni. E tutto questo è avvenuto in silenzio. Ci si indigna perché il campo di Guantanamo è ancora aperto. Ci si indigna per tutte le extraordinary rendition che ci sono state. Ma non per i droni. Almeno non ancora a sufficienza.

Invece essi costituiscono un buco nero. Non è un caso - dice Walzer - che si adotti quel singolare conteggio circa i combattenti (tutti i maschi in età di leva presenti sul teatro delle operazioni...quasi fossimo durante un saccheggio dell'antichità o durante un rastrellamento nazista). Si cerca di rendere "proporzionale allo scopo", aumentando il numero degli "obiettivi legittimi", ciò che proporzionale non lo è affatto. Ma anche qualora i droni, e i burocrati da droni alle loro spalle, sbagliassero di meno, anche qualora si uccidessero meno innocenti, la critica morale circa la loro easiness non verrebbe meno.

L'uomo è quanto mai antiquato rispetto all'evoluzione delle macchine da guerra di cui dispone. Il paradosso è che proprio l'uomo che rifiuta la guerra convenzionalmente intesa come mezzo di risoluzione dei conflitti ha più possibilità di entrare in una dimensione radicalmente post-umana.

I droni non possono essere considerati un'arma come tutte le altre, questo è il punto. Finora il loro utilizzo non ha subito alcuna analisi critica di rilievo (almeno prima dei testi di Langewiesche e di Walzer) perché c'è una assoluta sproporzione nel loro utilizzo. Al momento a utilizzarli sono solo gli Usa, e in maniera minore Israele e Regno Unito. Ma qualora venissero utilizzati anche dagli "altri" - poniamo, da uno stato dittatoriale o da un gruppo terrorista o dai narcos - cosa succederebbe? E qualora venissero utilizzati - più "semplicemente", mettiamo - all'interno di una legittima guerra di liberazione nazionale? Andando avanti di questo passo, un mondo in cui le guerre tra stati (o ancor di più le guerre asimmetriche) si combattono con droni lanciati contro qualsiasi obiettivo non è più altamente improbabile. Anzi, è straordinariamente verosimile.


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