Quali sono le conseguenze morali dell'uso dei droni? Quale
trasformazione della nostra riflessione morale esige il loro utilizzo? È
una questione enorme, quella sollevata di recente da Michael Walzer in
un articolo apparso sul sito della rivista "Dissent" (Target Killing and
Drone Warfare).
Probabilmente fino a quindici anni fa non avremmo neanche lontanamente
immaginato che questo tipo di domande fuoriuscisse dalla fantascienza o
dalla casistica ipotetica (benché altamente improbabile). Invece i droni sono il nostro presente, sono la nostra quotidianità. Diamo
ormai per scontato il fatto che nei nuovi conflitti bellici, in
particolare nell'ultima evoluzione della "guerra al terrore" contro le
nuove cellule di al Qaeda e i loro "compagni di strada", si utilizzino
aerei privi di pilota ma governati a migliaia di chilometri di distanza
sullo schermo di un computer.
Il miglior racconto di come un burocrate da droni stipendiato dalla
difesa americana svolga il suo lavoro quotidiano - passando otto ore in
un abitacolo che ricostruisce l'aereo in volo con cui è direttamente
collegato all'altro capo del globo, e sparando con un joystick contro i
proprio obiettivi, come se stesse giocando alla playstation - è stato
scritto da William Langewiesche. Ha come titolo Predatori
(Predator è il nome degli ultimi droni armati, quelli più comuni) ed è
contenuto in un piccolo libro pubblicato da Adelphi lo scorso anno: Esecuzioni a distanza
(traduzione di Matteo Codignola). Alla fine del suo lungo reportage
Langewiesche scrive: "La nostra polizia di frontiera usa già i Reaper
(altro tipo di droni, ndr) nel tentativo di individuare i trafficanti di droga al confine con il Messico. Fin qui, senza risultati, ma non importa. I
militari invece guardano avanti. Più che un sistema d'arma di oggi, il
Predator è, per loro, un'anticipazione del futuro. Come il biplano dei
fratelli Wright, o la Ford T. Ci avviciniamo rapidamente a un futuro di
guerra robotizzata, in cui saranno le macchine a scegliere di uccidere. Ed è un futuro prossimo. Quando arriverà, dovremo però chiederci che specie siamo diventati. E cosa ci facciamo, sulla Terra."
Durante il primo mandato dell'amministrazione Obama sono stati
portati a termine 310 attacchi con droni in Pakistan, fra 54 e 64 in
Yemen, e fra 10 e 23 in Somalia - tutti attacchi diretti, insomma, nelle
aree calde del terrorismo jihadista. Nel solo Pakistan il numero delle
vittime oscilla fra i 2.629 e 3.461, con una stima di civili uccisi che
va da 476 a 891. Più 176 bambini.
Recupero questi dati impressionanti da un articolo di Mattia Ferraresi apparso su "Il Foglio". Il
paradosso dell'amministrazione Obama è evidente: al ritiro delle truppe
dal fronte iracheno e afghano ha fatto seguito l'aumento costante
dell'utilizzo dei droni. Ritiro e droni, soft power e droni, rifiuto
della "vecchia" guerra e droni, sono direttamente proporzionali.
Obama allontana da sé l'immagine e la realtà del conflitto con bombe,
sangue e truppe d'occupazione, riporta a casa "i propri ragazzi"
evitando l'incancrenirsi della presenza americana nelle aree calde, dà
degli Usa una immagine più "debole", non imperiale...ma tutto ciò ha un
prezzo, benché la Casa Bianca abbia cercato di separare la lotta al
terrorismo dalla guerra convenzionale. In realtà la guerra continua,
solo con altri mezzi. Riduce praticamente a zero le perdite
statunitensi, annichilisce la stessa percezione del fatto bellico, ma
persegue ugualmente i suoi obiettivi. Tra l'altro nelle statistiche
dei morti, il numero dei civili potrebbe essere molto più alto, dal
momento che - proprio per legittimare come "proporzionale allo scopo"
l'uso dei droni - vengono considerati "combattenti" tutti i maschi in
età di leva presenti sul terreno delle operazioni. Se un presunto
leader terrorista - poniamo - è circondato da un gruppo di uomini tra i
16 e i 70 anni che si trova lì per caso, l'attacco è consentito, e
l'omicidio mirato è eseguito.
È giusto tutto questo?, si chiede Michael Walzer. Quali sono i criteri
morali che possono legittimare tale azioni, e quali invece possono
criticarle? A porsi questa domanda è colui il quale una trentina d'anni
fa, subito dopo la guerra del Vietnam, scrisse un libro fondamentale
sulle basi morali degli interventi militari: Guerre giuste e ingiuste (edizione italiana, Liguori 1990).
Esistono due piani della discussione, sosteneva Walzer in un testo che a
sua volta riprendeva molti temi e molte argomentazioni della dottrina
cristiana sull'argomento, di fatto secolarizzandoli. Il primo: in
base a quali criteri stabiliamo che una guerra sia giusta o meno? Il
secondo: in base a quali criteri stabiliamo se un mezzo adottato in una
determinata guerra (un'arma, una strategia, un'azione.) sia giusto o
meno? La guerra in Vietnam, ad esempio, era ingiusta sotto entrambi i
punti di vista. Ingiusta perché era, a tutti gli effetti,
un'aggressione malamente giustificata; e ingiusta perché le forze armate
Usa hanno usato, ordinariamente o episodicamente, mezzi assolutamente
ingiusti nel corso delle operazioni. Dai bombardamenti al napalm al
massacro di My Lai.
Tuttavia, in Guerre giuste e ingiuste, Walzer non assume una
posizione da pacifista assoluto. La guerra antifascista - sostiene nel
libro - era moralmente giustificata. L'uccisione mirata di Hitler
sarebbe stata moralmente giustificata. Non è giustificabile però l'uso
di armi di sterminio di massa anche all'interno di una guerra "giusta".
Adottandoli, essa diventerebbe subito "ingiusta".
La riflessione di Walzer ovviamente è molto più complessa. Basti qui
ricordare che, sulla scia della giustificazione di ogni guerra
antitotalitaria, il filosofo americano ritiene legittimi anche alcuni
interventi (seppure unilaterali) che violano la sovranità nazionale per
porre fine a un genocidio. Ad esempio: l'intervento indiano nell'allora
Pakistan orientale (oggi Bangladesh) per fermare la marea di profughi
originata dalle violenze dell'esercito, o quello vietnamita in Cambogia
per arginare lo sterminio totalitario dei khmer rossi.
E oggi? L'impressione di Walzer è che l'utilizzo dei droni, proprio
perché azzera l'esperienza della guerra (e quindi l'indignazione che
essa inevitabilmente suscita), azzeri anche lo spazio della critica
morale. Anche in una guerra che possiamo ritenere giusta, anche nel
più asettico degli omicidi mirati (per quanto, come visto, essi possano
essere asettici), la dimensione post-umana dei droni (e la quotidianità
di questa dimensione post-umana cui ormai siamo indotti) fa
letteralmente saltare il banco della riflessione morale.
"The easiness should make uneasy", scrive Walzer. La facilità
dell'uccisione da drone (spingi un pulsante ma non vedrai mai nessuno
morire realmente, benché qualcuno realmente - in quel preciso momento -
stia morendo) dovrebbe metterci a disagio. Invece questo mezzo
incredibilmente potente, ma adottato ormai ordinariamente, genera
assuefazione. Il caso dell'amministrazione Obama è eclatante: quella
che viene percepita come l'amministrazione Usa più "pacifista" degli
ultimi cinquant'anni ha generato - probabilmente non comprendendo fino
in fondo le possibili conseguenze delle proprie decisioni - una
escalation impressionante nel numero dei civili uccisi da droni. E
tutto questo è avvenuto in silenzio. Ci si indigna perché il campo di
Guantanamo è ancora aperto. Ci si indigna per tutte le extraordinary
rendition che ci sono state. Ma non per i droni. Almeno non ancora a
sufficienza.
Invece essi costituiscono un buco nero. Non è un caso - dice Walzer -
che si adotti quel singolare conteggio circa i combattenti (tutti i
maschi in età di leva presenti sul teatro delle operazioni...quasi
fossimo durante un saccheggio dell'antichità o durante un rastrellamento
nazista). Si cerca di rendere "proporzionale allo scopo", aumentando il
numero degli "obiettivi legittimi", ciò che proporzionale non lo è
affatto. Ma anche qualora i droni, e i burocrati da droni alle loro
spalle, sbagliassero di meno, anche qualora si uccidessero meno
innocenti, la critica morale circa la loro easiness non verrebbe meno.
L'uomo
è quanto mai antiquato rispetto all'evoluzione delle macchine da guerra
di cui dispone. Il paradosso è che proprio l'uomo che rifiuta la guerra
convenzionalmente intesa come mezzo di risoluzione dei conflitti ha più
possibilità di entrare in una dimensione radicalmente post-umana.
I droni non possono essere considerati un'arma come tutte le altre,
questo è il punto. Finora il loro utilizzo non ha subito alcuna analisi
critica di rilievo (almeno prima dei testi di Langewiesche e di Walzer)
perché c'è una assoluta sproporzione nel loro utilizzo. Al momento a
utilizzarli sono solo gli Usa, e in maniera minore Israele e Regno
Unito. Ma qualora venissero utilizzati anche dagli "altri" - poniamo, da
uno stato dittatoriale o da un gruppo terrorista o dai narcos - cosa
succederebbe? E qualora venissero utilizzati - più "semplicemente",
mettiamo - all'interno di una legittima guerra di liberazione nazionale?
Andando avanti di questo passo, un mondo in cui le guerre tra stati (o
ancor di più le guerre asimmetriche) si combattono con droni lanciati
contro qualsiasi obiettivo non è più altamente improbabile. Anzi, è
straordinariamente verosimile.
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