Dice re Giorgio che è inutile far cadere il governo da lui fortemente voluto. Non scioglierebbe mai le Camere perché la legge elettorale è incostituzionale e non si può votare. A dirla come si deve, senza girarci attorno con mezze parole che nessuno capisce bene, la legge che ha determinato la formazione delle Camere e l’inconsueta rielezione di Napolitano al Quirinale è una «legge-truffa». Questo, però, non è il linguaggio che usano i re.
Dice Epifani che il Partito democratico sta con Berlusconi perché non può piantare in asso baracca e burattini e, per suo conto, il senatore pericolante ripete pari pari il ragionamento di Epifani: ci vuole una legge elettorale, quella che c’è non va più bene ed è finita nel mirino della Corte Costituzionale. Né l’uno né l’altro, però, ammette apertamente che la legge Calderoli è un vero e proprio imbroglio. Gli «uomini delle Istituzioni» non parlano mai chiaro: c’è il rischio che la gente capisca.
Dice Alfano che se, come pare ormai certo, troverà il coraggio di tradire definitivamente il suo ex padre padrone, avrà un partito vero e finalmente suo, ma non potrà certamente far cadere il governo. Giocando d’anticipo, l’ex delfino del più celebre pregiudicato d’Italia, interroga direttamente gli elettori: si può mandare il popolo a votare, se la legge elettorale è un’autentica vergogna?
A sentirli parlare, con le loro mezze parole, i sottintesi e quel disaccordo totale su tutto, tranne che sulle impossibili elezioni, non si capisce praticamente nulla, ma emerge la verità puntigliosamente negata: questa vituperata legge elettorale, che tutti hanno voluto e nessuno ha mai fatto qualcosa per cambiare, ha un’importanza fondamentale per re Giorgio, per Epifani, per Berlusconi, per Alfano, per la sgangherata banda Monti, per Casini e la sua malconcia compagnia di ventura. In questo nostro sventurato Paese, per capirci, chiunque prometta cambiamenti che non intende realizzare, si affretta a chiamare in causa la legge elettorale per spiegarci che cambiare vorrebbe ma cambiare non si può.
Nel guazzabuglio da Regia Marina – ciò che è vero la sera non vale la mattina – la legge Calderoli è l’alibi per una sporca faccenda, un pasticciaccio tale da fare impallidire Germi e la sua via Merulana. L’inganno più grave, però, l’oltraggio sanguinoso all’intelligenza degli elettori, non va cercato in quello che i galantuomini autonominati ripetono con esasperante monotonia. Il peggio si cela in quello che nessuno dice, ma è sempre più chiaro a tutti: poiché la legge elettorale è fatta apposta per vanificare il voto espresso dal mitico «popolo sovrano», Senato e Camera dei Deputati sono attualmente formati da alcune centinaia di persone elette illegalmente e perciò prive di una autentica legittimità democratica. Sono loro, questa nuova specie di clandestini, che hanno voluto per la seconda volta Napolitano al Colle e sempre loro, i figli di una «legge-truffa», il 23 ottobre, al Senato, hanno votato una gravissima modifica dell’articolo 138 della Costituzione.
Dice re Giorgio che lui non scioglierebbe le Camere perché la legge elettorale è incostituzionale. C’è da chiedersi dove sarebbe Napolitano, Presidente praticamente a vita, se l’Italia fosse un Paese retto da Istituzioni democratiche legalmente elette; molto probabilmente non sarebbe dov’è, in Parlamento non vedremmo accampati deputati e senatori «espropriati» dai segretari di partito e da saggi di nomina regia e nessuno avrebbe osato mettere ai voti una modifica della Costituzione che fa di uno «Statuto rigido», una inutile dichiarazione d’intenti alla mercé di ogni «golpe bianco».
Dice Formigoni che chi si è astenuto sull’articolo 138 intendeva far cadere il governo. La verità è che il Senato ha approvato un ddl costituzionale sul Comitato per le riforme costituzionali, che per soli quattro voti evita anche il ricorso al referendum confermativo. Giulietto Chiesa, giornalista prestato alla politica, è stato invece brutalmente chiaro: «questo Senato non ci rappresenta», ha detto, «ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale. […] Un parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale […]. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza». Non è facile capire che intenda Chiesa, quando dice «Resistenza», ma a far chiarezza hanno pensato in questi giorni di ottobre le piazze, colme di gente e di rabbia composta, che pacificamente tornavano al monito che in anni ormai lontani, ma molto simili a quelli che viviamo, venne da Giovanni Bovio: «Non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi, di noi stessi temiamo e ci volgiamo a chi ci chiama fratelli: noi fummo nati al lavoro e, per carità di dio, non fate noi delinquenti e voi giudici». Umberto I, il re di quegli anni tragici, non gli diede ascolto. Finì come tutti sanno, coi moti del ’98, la cavalleria accampata nelle piazze e le tragiche cannonate milanesi di Bava Beccaris.
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