Secondo un’opinione oggi largamente condivisa la riunificazione della Germania non è stata altro che un atto di generosità dei tedeschi dell’ovest i quali in maniera altruistica e disinteressata hanno voluto condividere il proprio benessere frutto di un modello economico superiore con i poveri fratelli dell’est vittime di una brutale dittatura comunista. A smontare questa versione apologetica dell’unità tedesca ci pensa il nuovo libro di Vladimiro Giacché Anschluss l’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur Editore, p. 301.
In quest’opera l’autore attraverso una vasta mole di dati dimostra in maniera inequivocabile che più che di riunificazione nel caso della Germania sarebbe meglio parlare di «anschluss» termine tedesco che significa annessione.
Tale vocabolo può forse suscitare qualche imbarazzo per via del significato negativo che ha assunto dopo l’avvento del nazismo tuttavia non c’è altro modo di definire quello che è successo dopo il 1989 all’ex Repubblica Democratica Tedesca.
Attraverso una consapevole politica di deindustrializzazione e di privatizzazione dei servizi le autorità di Bonn hanno trasformato la fu DDR da una economia rivolta all’esportazioni ad una incentrata sulla domanda interna, ossia dipendente dai trasferimenti dall’Ovest.
Per rendersi conto dell’impatto di questo processo di deliberata distruzione del tessuto industriale basta citare alcuni dati riportati nel volume. «Già nella prima metà del 1991 – scrive Giacché – la produzione industriale era crollata del 67 per cento rispetto al 1989. Ma con punte del 70 per cento nel settore dei macchinari, del 75 per cento nell’elettronica e addirittura dell’86 per cento nella meccanica di precisione» (p.91).
Ma non è tutto, infatti più avanti possiamo leggere che «dalla fine dell’89 alla primavera del 1992 furono distrutti 3,7 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato».
Al contrario dell’est la Germania Ovest, ed in particolare il mondo imprenditoriale, ha tratto enorme profitto dall’unificazione. A seguito dell’unione monetaria infatti molte aziende della RDT in grado di fare concorrenza a quelle tedesco-occidentali fallirono. In questo modo le imprese dell’Ovest si trovarono spalancato un mercato di oltre sedici milioni di abitanti. Non stupisce quindi che negli anni successivi alla riunificazione del paese la produzione economica complessiva della Germania Occidentale ha conseguito «un chiaro salto di qualità, stimabile in un ordine di grandezza di circa 200 miliardi di marchi all’anno in termini nominali» (p. 212).
Senza poi contare che annettendo la parte orientale del paese Berlino ha riacquistato quella centralità geopolitica che aveva perduto nel 1945 in seguito alla sconfitta del Terzo Reich nel secondo conflitto mondiale.
Alla luce di questi fatti non c’è da stupirsi che ancora oggi a distanza di ventiquattro anni dalla caduta del Muro di Berlino il 49% degli Ossis ritenga che il vecchio regime comunista avesse più lati positivi che negativi.
Dalla storia dell’unità tedesca possiamo trarre alcune importanti lezioni. In primo luogo che nella guerra fra i capitali non sempre vince il più adatto e competitivo ma in alcuni casi si è visto il prodotto migliore soccombere dinnanzi a quello peggiore. L’esempio della produttrice di frigoriferi Foron è da questo punto di vista illuminante. Nonostante tale azienda fosse riuscita, in collaborazione con Greenpeace e l’istituto di igiene di Dortmund, a produrre il primo frigorifero del mondo senza fluoroclorocarburi (Fcc) ovvero che non contribuiva al buco dell’ozono né al riscaldamento globale, venne dismessa e venduta ad un fondo d’investimento che fece precipitare la società nel baratro finanziario.
In seconda battuta possiamo osservare come l’establishment europeo stia cercando di applicare ai paesi in crisi il «modello Germania Est». Illuminanti sono da questo punto di vista le parole pronunciate dall’allora capo dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker: «saluterei con piacere il fatto che i nostri amici greci fondassero un’agenzia per le privatizzazioni indipendente dal governo, secondo il modello della Treuhandanstalt tedesca, in cui ricoprissero ruoli anche esperti stranieri».
Si tratta ovviamente di un modello fallimentare in quanto ancora nel 2009 a distanza di vent’anni dall’unificazione il Pil procapite dei Länder dell’Est non è di molto superiore ai due terzi di quello dei Länder dell’Ovest.
Se dunque i paesi europei vogliono uscire dalla crisi devono abbandonare il mantra ideologico ed infondato secondo cui il mercato è la panacea di tutti i mali. Esso in realtà è essenzialmente un luogo di rapporti di forza. Pensare che lo stato debba ritirarsi e lasciare fare alla «mano invisibile» rappresenta una pericolosa mistificazione. Al contrario oggi alle autorità pubbliche andrebbe dato maggiore margine di manovra lasciando che esse indirizzino l’attività economica. Se infatti il modello dell’economia di comando di stampo sovietico è indubbiamente fallito lo è anche quello neoliberista. E la crisi della moneta unica ne è la prova lampante.
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