La situazione attuale del Medio Oriente si sta polarizzando intorno
al confronto tra le due potenze principali dell'area, l'Arabia Saudita e
l'Iran : le due potenze del Golfo Persico stanno combattendo ormai da
tempo una guerra a bassa intensità per il dominio e il controllo
dell'area medio orientale. Questo conflitto si combatte su più fronti,
uno dei quali è ben rappresentato da quello siriano.
DUE POTENZE DIFFERENTI
Da una parte abbiamo l'Iran, stato erede dell'Impero Persiano, con una
maggioranza sciita e una legittimazione popolare molto forte.
Dopo la dilaniante guerra con l'Iraq di Saddam Hussein, all'esportazione
della rivoluzione, la leadership iraniana ha preferito la costruzione
di alleanze che ne garantissero un equilibrio di potenza coi vicini e
un'influenza nel cosiddetto arco sciita: ecco come spiegare l'alleanza
con la Siria, potenza laica e socialista, con il baluardo della
teocrazia islamica. Allo stesso tempo però Teheran porta avanti
politiche di balancing of threat e di contrasto contro quelle potenze
islamiche filo-occidentali come l'Arabia Saudita: dalle controversie di
stampo prettamente religioso all'interno dell'Organizzazione della
Cooperazione Islamica fino ad arrivare alla gestione della guerra in
Siria sono moltissimi i punti di contrasto tra Riyadh e Teheran.
La volontà della potenza iraniana di farsi interlocutrice dell'Occidente
nella gestione della crisi siriana, con le aperture di Rohani, ha
allontanato Teheran dalla politica estera aggressiva tipica dell'ultimo
Ahmadinejad: dobbiamo considerare che determinati spazi di apertura nei
confronti dell'Occidente siano da interpretare come il risultato di una
politica estera più pragmatica pensata dalla Guida Suprema Ali Kahmenei
volta ad aumentare l'influenza iraniana nell'area e il suo ruolo pivotal
nella gestione dei conflitti, non ultimo quello siriano.
Dall'altra parte c'è l'Arabia Saudita, stato che riesce (o prova) a
conciliare puritanesimo islamista sunnita e alleanza con l'occidente.
Lo Stato saudita nacque grazie alla fusione di interessi tra principi
tribali, i Saud e ulema wahhabiti, con l'appoggio non indifferente delle
potenze di Gran Bretagna prima, e Stati Uniti poi: essi si rendono
coscienti del fatto che, per assicurare la stabilità del loro potere,
seduti come sono su un isola di petrolio in un oceano di povertà, al
centro di conflitti internazionali, con confini immensi e difficili da
difendere, circondata da stati più popolosi e più poveri, necessitano di
due cose: la legittimazione religiosa su cui poggia il loro trono e la
benevolenza attiva della più grande potenza occidentale.
Nel periodo di massima espansione dell'ideologia panarabista essa si
lega sempre più a doppio filo con la potenza a stelle e strisce. Ryahad
diventa la testa di ponte dell'occidente in Medio Oriente e nel Golfo
Persico (insieme ad Israele è lo stato che spende di più nell'acquisto
di armi dagli USA) sia come baluardo anticomunista attraverso il
finanziamento di movimenti panislamici, sia nel ruolo di swing producer
per calmierare i prezzi petroliferi, per moderare la politica araba
filo-nasseriana e per riciclare i suoi petrodollari utilizzando
istituzioni finanziare americane. Ecco dunque la special relationship
tra Stati Uniti e Arabia Saudita, prima amici contro il panarabismo
giacobino e il terzomondismo militante di Nasser & C. poi uniti contro
l'Unione sovietica atea e comunista, oggi insieme in Siria contro
l'Iran.
POLITICA ESTERA
Innanzitutto il primo punto di scontro tra queste due potenze è dato
dalle differenti determinanti della politica estera: se da una parte c'è
una potenza che ha tutto l'interesse a mantenere la stabilità
dell'area, soggetta all'egemonia americana, dall'altra se ne trova una
revisionista, che fa del cambiamento dello status quo (a suo vantaggio)
la guida della sua politica estera.
Gli attriti e le rivalità tra queste due potenze si stanno manifestando
nella questione delle minoranze sciite nei paesi del golfo, uno su tutti
il Bahrein, ma non solo: Ryahad vede queste rivolte come il tentativo
di de-stabilizzare l'area da parte di Teheran per aumentare la sua
influenza sui paesi del Golfo. L'influenza iraniana si è scontrata con
Ryahad in Iraq: l'Arabia Saudita si è rifiutata di perdonare e ridurre
l'ingente prestito fornito a Saddam Hussein nella prima guerra del golfo
dell'80 (quasi 30 milioni di dollari) per la troppa vicinanza del governo di
Al Maliki con l'Iran, e, secondo alcuni cabli di Wikileaks, quest'ultimo
ha accusato il regno saudita di fomentare conflitti settari e
finanziare un esercito sunnita parallelo.
Le parole d'ordine dunque della politica estera saudita, in comune con
quella americana, sembrano essere il contenimento di quella rinascita
sciita che si è avuta dopo la rivoluzione iraniana del 1979.
LA QUESTIONE ENERGETICA E NUCLEARE
Il secondo elemento caratterizzante le relazioni tra questi due paesi è
dato dalla rilevanza della questione energetica e del nucleare: lo
scontro tra queste due potenze è vivamente sentito nell'ambito
dell'OPEC, dove diverse strategie perseguite dai due paesi si trovano a
fronteggiarsi. Se da una parte Riyadh, che controlla un terzo delle
esportazioni dell'Organizzazione, persegue una strategia di partnership
con i paesi compratori (il suo famoso ruolo da swing producer e
calmieratore dei prezzi) volta a facilitare l'afflusso dell'oro nero e
alla salvaguardia della crescita economica mondiale, dall'altra Teheran
tenta di far prevalere il proprio punto di vista di riduzione della
quote di produzione, in maniera tale da da aumentare il prezzo del
greggio, così da aumentare i propri introiti, anche per poter sostenere
il tasso d'inflazione del 30% e il regime di sanzioni dell'ONU.
L'altra questione centrale del confronto tra i due paesi riguarda il
programma nucleare iraniano: Riyadh riconosce che, una volta ottenuta la
tecnologia necessaria allo sviluppo, Teheran acquisirebbe un vantaggio
strategico fondamentale.
La "cold war" tra il regno saudita e la teocrazia iraniana si è spostata
sul piano della corsa al nucleare. Tra i 250 mila documenti
de-secratati da Wikileaks viene citato il re saudita Abddullah per aver
più volte esortato gli Stati Uniti ad attaccare l'Iran per mettere fine
al suo programma nucleare: queste dichiarazioni dimostrano come
siano in primis gli arabi, e in particolare le monarchie del Golfo, e
non Israele, a temere che l'Iran si doti della tecnologia nucleare, che
fungerebbe più da deterrente per intimidire i loro paesi e allargare
l'area d'influenza iraniana piuttosto che da balance of power nei
confronti di Israele (e Stati Uniti).
LA QUESTIONE SIRIANA
Bisogna leggere l'appoggio dei sauditi ai ribelli siriani come un
tentativo di mantenere la stabilità regionale e per il contenimento
dell'influenza iraniana nella regione: obiettivo principale di Ryahad è
dunque installare un regime filo-saudita a Damasco, che vada a rompere
quell'Asse della Resistenza composto da Iran e Siria (e Hezbollah in
Libano).
Il principale obiettivo dei sauditi rimane quello, attraverso una
tattica di leading from behind dei gruppi jihadisti (grazie alla
mediazione della losca figura del principe Bandar Bin Sultan), di
cambiare i rapporti di forza sul campo, oggi favorevoli ad Assad,
soprattutto dopo le aperture iraniane all'Occidente e il mancato attacco
americano alla Siria.
L'Iran al contrario ha invece tutto l'interesse nel mantenere il regime
esistente al potere: con esso Teheran forma il cosiddetto Asse della
Resistenza.
Anche la decisione di far intervenire a difesa del regime di Assad
l'organizzazione politico-militare Hezbollah è dimostrazione
dell'interesse iraniano nel mantenimento di Assad al potere: molte sono
state le voci contrarie all'interno dello stesso movimento sciita
libanese che si sono levate contro questa "intromissione" negli affari
siriani.
L'alleanza tra questi due paesi, Iran e Siria, è dunque strategicamente
comprensibile nell'ottica del mantenimento dell'autonomia del sistema
regionale medio-orientale contro i tentativi di egemonia americana
sull'area: le ultime mosse di reapprochment della leadership iraniana
sono da interpretare da una parte come un apertura nei confronti del
discorso sul nucleare verso l'Occidente, ma, allo stesso tempo, come la
ricerca di una soluzione politica e non militare alla situazione
siriana, accordo che consideri l'Iran non come parte del problema ma
come parte della soluzione, con un ruolo attivo nel bilanciamento dei
poteri regionali.
Il riavvicinamento degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran potrebbe
portare giovamento ai due attori. Il coinvolgimento di Teheran in chiave
anti-talebana in Afghanistan e di supporto al governo iracheno
sarebbero vitali per gli Stati Uniti, inoltre essi potrebbero
alleggerire la pressione sullo Stretto di Hormuz, concentrandosi su
altri scacchieri internazionali. Da parte iraniana il miglioramento
delle relazioni potrebbe significare una serie di investimenti americani
nelle infrastrutture e nelle tecnologie del paese, e, soprattutto, una
fine del regime delle sanzioni che gravano sul paese con un'apertura nei
confronti dell'uso civile del nucleare: ma tutto ciò a discapito
dell'alleato saudita, a cui, dopo il disappunto per il mancato strike
americano a Damasco, questi ultimi sviluppi delle relazioni
americo-iraniane non piacciono proprio.
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